martedì 28 dicembre 2021

One Second

"One Second" (Yi miao zhong) di Zhang Yimou. Con Zhang Yi, Liu Haocun, Wei Fan, Ailei Yu, Xiaochuan  Li, Yu ai Lei e altri. Cina 2020 ★★★★+

Sempre estremamente gradito il ritorno di un grande maestro come Zhang Yimou, il quale fa ancora una volta centro con questo film che, già selezionato alla Berlinale di due anni fa, era stato ritirato poco prima della proiezione per "motivi tecnici", in realtà per l'intervento della censura cinese, e rimesso in circolazione, opportunamente "emendato", l'anno scorso e ora finalmente arrivato sugli schermi anche in Italia. Se da un lato è un omaggio alla magia del cinema, quello vero, come direbbe Quentin Tarantino, ossia girato e proiettato in pellicola (a proposito di Grandi Maestri), ed è inevitabile ricordare Nuovo Cinema Paradiso di Tornatore, dall'altro mostra cosa era la Cina all'epoca della Rivoluzione Culturale, soprattutto quella rurale, con la sua miseria e la sistematica manipolazione delle menti nella pretesa, tipica del comunismo come di tutte le altre chiese e sette, di forgiare l'Uomo Nuovo: Zhang Yimou è uno dei più titolati a parlarne avendo sperimentato in prima persona la "rieducazione" attraverso il lavoro forzato nei campi e in fabbrica quando era studente liceale, e non a caso si chiama Zhang il personaggio principale del film, fuggito da un campo di lavoro in cui era stato rinchiuso dopo una condanna per aver percosso una "guardia rossa" durante una rissa, e che attraversa il deserto per raggiungere un villaggio in cui, prima del consueto film edificante che celebra la gloria degli immortali eroi della rivoluzione vittoriosa, verrà proiettato il cinegiornale n° 22: lì, per un secondo, appare l'immagine della figlia adolescente, che dopo l'arresto non l'ha più voluto rivedere. Peccato che la pellicola venga rubata da una ragazzina che sembra una vagabonda, Orfana Liu, a cui occorre della pellicola per costruire un paralume e così evitare che il fratellino venga ancora ricattato e brutalizzato da un gruppo di bulli del villaggio. Zhang acciuffa Lu, recupera la "pizza", la riperde: si mette in moto una girandola di eventi con aspetti e ritmi chapliniani per cui la pellicola verrà consegnata nelle mani del destinatario, Mister Cinema, com'è chiamato lo storico proiezionista del cinema del villaggio, peraltro già gremito da tutta la popolazione in spasmodica attesa del grande evento che è ogni volta la serata cinematografica, completamente aggrovigliata e impolverata: dalle dune desertiche che si alternano e dai vicoli sudici del villaggio ci si sposta nel regno di quest'altro personaggio, che fra l'altro è uno zelante funzionario di partito, che dietro la minaccia di Zhang organizza il recupero del cinegiornale e glielo proietterà quante volte desidera, in grado com'è di predisporre un "anello" per cui il padre reietto potrà rivedere in loop la sua bambina finché non verrà riacciuffato dalle Guardie Rosse locali su segnalazione di Mister Cinema e riconsegnato agli aguzzini del campo di lavoro. Ma una sorta di lieto fine è alle porte perché qualche anno dopo la Rivoluzione Culturale avrà termine (nel 1976) in seguito a un decennio di delirio ideologico, e Zhang, una volta rilasciato, tornerà al villaggio dove nel frattempo Orfana Liu si è sgrezzata e, chissà, sostituirà la figlia perduta. Una favola, a tratti anche leggera e ironica, dove ci sta divertimento, incanto e, sotto traccia, denuncia, che non occorre esplicitare perché bastano le immagini (verosimili: villaggi del genere li ho visti ancora 15 anni dopo l'epoca in cui è ambientato One Second identici con i miei occhi nella Cina rurale) e l'atteggiamento dei vari personaggi. Fotografia di alto livello, sapienza di racconto, i tempi giusti e la grande suggestione del cinema. Gran bel film.

giovedì 23 dicembre 2021

Diabolik

"Diabolik" di Marco e Antonio Manetti. Con Luca Marinelli, Miriam Leone, Valerio Mastandrea, Serena Rossi, Alessandro Roja, Stefano Pesce, Vanessa Scalera, Claudia Gerini e altri. Italia 2021 ★★★★+

Non è "Grande Cinema", non è un capolavoro né pretende di esserlo, ma è un gran bel film, risultato ottenuto nelle condizioni più difficili, con una schiera di milioni di affezionati lettori del fumetto che ha per protagonista il Re del Terrore creato nel 1962 dalle due "diabolike" sorelle milanesi Angela e Luciana Giussani, pronti a impallinare gli autori per un eventuale "alto tradimento" di un personaggio le cui imprese di carta hanno appassionato alcune generazioni di italiani, per cui Diabolik e la sua compagna Eva Kant sono stati ciò che per il pubblico USA sono stati i Supereroi Marvel o Superman. Li attendevo al varco, anche se ritenevo i Manetti Bros gli unici in grado di cimentarsi nell'impresa. Perché un conto è affrontare il fenomeno attraverso una sorta di ibrido, a metà strada fra documentario e finzione, com'era stato per Diabolik sono io, uscito due anni fa, raccontandone la genesi, un altro trasportare sullo schermo il terzo, fondamentale fumetto del nostro eroe, Il Re del Terrore, in cui compare per la prima volta Eva, nei panni di una ricca ereditiera arrivata dal Sudafrica a Clerville, subito entrata nel mirino del fantomatico ladro che intende derubarla di un preziosissimo gioiello: il loro incontro risulterà fatale sia per la sopravvivenza del criminale, perché sarà lei a salvarlo dalla ghigliottina dopo che era stato finalmente arrestato dalla sua altrettanto mitica controparte, il malinconico e irreprensibile Ispettore Ginko, sia per le fortune della coppia più longeva del fumetto italiano. Intanto sono riusciti a far rivivere in tutto e per tutto l'atmosfera degli anni Sessanta, e con ancora tanta gente in giro, tra cui io, che li ha vissuti e se li ricorda come l'Età dell'Oro correvano un rischio non da poco, perché bisogna averli studiati a fondo ed essersi avvalsi di consulenti di prim'ordine, e nel contempo a rendere la tensione e il ritmo che si creava negli albi, col risultato che quelle che appaiono sullo schermo sono esattamente le stesse immagini che un lettore medio di Diabolik, come ero stato io stesso per decenni, se le sarebbe rappresentate filmate. Quindi non solo fedeltà al testo e ai dettagli e, da qui una certa, voluta, lentezza, che va di pari passo con l'attenzione che si rivolgeva alla pagina con una sorta di effetto "fermo immagine" e scorrimento sincopato; ma, soprattutto, credibilità dei personaggi, e qui ci vogliono le capacità di un regista in gamba, e in questo caso sono addirittura in due. Luca Marinelli è, a tratti, sufficientemente luciferino per esprimere la glacialità di Diabolik, ma anche la sua coerenza e la sua particolare visione della rettitudine, per non chiamarla con il termine di onestà; pochi avrebbero immaginato che Valerio Mastandrea fosse perfetto per interpretare Ginko, l'eterno sconfitto, ma quella sua vaga tristezza lo aiuta a entrare nei panni del funzionario incorruttibile e cocciuto, ma a sua volta profondamente onesto, però il capolavoro è stato affidare alla versatile Miriam Leone il vero personaggio centrale del film, Eva Kant, che è esattamente come un lettore di Diabolik se l'era sempre immaginata: piena di fascino, intelligente, intransigente, a suo modo femminista ante litteram, e questo nell'Italia dei primi anni Sessanta. Semplicemente perfetta e bravissima. Rimane da segnalare Alessandro Roja nella difficile parte di un corrotto viceministro della Giustizia che ha la cattiva idea di usare il ricatto come mezzo per corteggiare Lady Kant e sarà inesorabilmente punito dall'uomo in tuta nera. Il film, di cui non sto a raccontare la trama, è stato filmato tra Milano (Clerville) e Trieste (Ghenf) le due città di un immaginario Stato italo-francese che ricorda da vicino il Principato di Monaco e il relativo milieu che lo bazzicava allora (e anche oggi), che poi è lo stesso che le sorelle Giussani, figlie della buona borghesia meneghina, conoscevano bene dall'interno e si divertivano a mettere alla berlina e punire simbolicamente. Senza dover ricorrere a grandi effetti speciali (sembrerebbe girato negli anni Sessanta come il precedente di Mario Bava, che però era più uno scanzonato divertimento "pop" con due interpreti improbabili nei panni dei due protagonisti, specialmente Marisa Mell in quelli di Eva) i Manetti Bros hanno girato un suggestivo thriller d'epoca che è, allo stesso tempo, una sorta di trattato antropologico. Mi sento di raccomandarlo anche ai più integralisti fra i lettori di Diabolik: non rimarranno delusi. 

domenica 19 dicembre 2021

Scompartimento N.6 - In viaggio con il destino

"Scompartimento N.6 - In viaggio con il destino" (Hytti Nro 6) di Yuho Kuosmanen. Con Seidi Haarla, Yuriy Borisov, Yuliya Aug, Lidia Costina, Tomi Alatalo, Dinara Drukarova, Vladimir Lysenko, Dmitriy Belenikhin e altri. Finlandia, Estonia, Germania, Russia 2021 ★★★★+

Adattamento dell'omonimo romanzo di Risa Liksom, girato su pellicola, di cui mantiene le calde tonalità, e virato in digitale, Scompartimento N.6 conferma appieno il grande talento e la capacità già emerse il La vera storia di Olli Mäki, il suo film d'esordio, del giovane regista Yuho Kousmanen di raccontare storie e personaggi genuini, in cui chiunque possa immedesimarsi, oltre a quella di ricreare atmosfere che si possono quasi assaporare olfattivamente, e dunque percepire oltre la visione, tanto è evocativa la potenza delle immagini, pur nella loro semplicità. Non gli occorre granché: un appartamento moscovita, un treno, che è protagonista del film quanto i due personaggi principali, il paesaggio russo che si vede dai finestrini e le stazioni in cui si ferma nel tragitto fra Mosca e Murmansk, oltre il Circolo Polare Artico, l'unico luogo in cui due persone così diverse come Laura, una ragazza finlandese che studia archeologia e il coetaneo Ljoha, un rude minatore russo, avrebbero potuto incontrarsi e conoscersi. Laura, che vive a Mosca e ha una relazione problematica con una professoressa che prima la incoraggia a dirigersi verso Nord per vedere dei petroglifi e poi la pianta in asso, non si scoraggia e parte da sola: il viaggio, per lei significherà verificare il valore del suo rapporto e fare chiarezza con sé stessa; per Ljoha, raggiungere un nuovo posto di lavoro nella sua vita che si svolge fra un cantiere e l'altro, ma anche conoscere una persona che non corrisponde ai suoi parametri abituali. Non il classico On The Road Movie all'americana (e mi viene in mente il penoso e ambiguo, per quanto pluripremiato Nomadland) per quanto il viaggio in sé sia l'ossatura del film: in un tempo sospeso, il luogo soprattutto mentale in cui ci si ritrova e si ha l'occasione di mettersi in discussione e ridefinirsi, confrontandosi con situazioni non abituali e persone sconosciute per imparare a guardare a loro, come a sé stessi, da una prospettiva nuova. Che èciò che accade a Laura e Ljoha, dopo un primo approccio impacciato e maldestro da parte del ragazzo, che pur nella sua rozza ignoranza dimostra una sensibilità e intelligenza non comuni che prima incuriosiscono e poi rassicurano la fanciulla: anche se un possibile lieto fine è lasciato intravvedere, il film non cede mai al sentimentalismo e alla melensaggine, così come l'uso di paesaggi inconsueti e suggestivi non è ammiccante o cartolinesco. Una vena di nostalgia c'è, la memoria va agli anni Novanta, con la Russia che porta ancora con sé molte tracce di sette decenni di Unione Sovietica, in cui il Kuosmanen era adolescente e che rievoca con grande efficacia. Come sempre la bravura di un regista si nota anche dalla capacità di scegliere e utilizzare gli attori, e sia Seidi Haarla sia Yuriy Borisov si segnalano per due interpretazioni di altissimo livello, e tutti gli altri personaggi che entrano in scena di volta in volta nelle diverse situazioni risultano estremamente efficaci e credibili. Un film da non perdere, avendo l'occasione. 

giovedì 16 dicembre 2021

Don't Look Up

"Don't Look Up" di Adam McKay. Con Leonardo DiCaprio, Jennifer Lawrence, Meryl Streep, Jonah Hill, Cate Blanchett, Melanie Lynskey, Chris Evans, Timothée Chalamet, Metthew Perry, Ron Perlman, Jack Bremmer, Ariana Grande, Kid Cudy e altri. USA 2021 ★★★★

Film esilarante che in qualche modo mi ha ricordato il mitico Brazil di Terry Gilliam, ma mentre quello era una sorta di rilettura dell'orwelliano 1984, ambientato in una società distopica dominata dall'imbecillità e dalla sistematica manipolazione della realtà, qui siamo ai giorni nostri, in un'America perfettamente riconoscibile e attuale, quella descritta efficacemente anche in serie televisive come House of Cards o Designated Survivor, che si agita attorno ai gestori per conto terzi (la grande finanza e imprenditori oligopolisti senza scrupoli) del potere, ossia gli inquilini della Casa Bianca, le strutture federali a supporto, a cominciare da quelle militari, nonché, e soprattutto, il folle circo mediatico montato intorno a essi. Ché è nella gestione della comunicazione che risiedono le leve del dominio, più che mai oggi che, ai media tradizionali, si sono aggiunti i cosiddetti social, capaci di focalizzare l'attenzione anche attorno al peto più insignificante ma opportunamente piazzato e infiocchettato. Tutte cose che negli USA sono pane quotidiano ormai da decenni e da noi è diventato particolarmente evidente negli ultimi due pandemici anni, in cui ogni idiozia è diventata, per l'appunto, virale e si è spenta ogni capacità critica e di ragionamento, lasciando in campo solo fazioni che si beccano senza tregua sul nulla o quasi. Qui abbiamo una giovane ricercatrice (Lawrence) che, assieme al suo professore (DiCaprio) scopre una cometa la cui traiettoria porta inequivocabilmente sulla Terra: data la larghezza del corpo celeste, un meteorite di circa 9 chilometri di diametro, l'impatti significherebbe la fine del mondo. I due trovano, a fatica, il modo di comunicare il pericolo mortale alla presidente (una grandiosa Meryl Streep nei panni di un Trump in gonnella), ben attenta, con il suo staff, capeggiato da un figlio particolarmente cretino (Jonah Hill) prima a minimizzare, poi a sfruttare l'entusiasmo e la speranza suscitate dalla "guerra al meteorite", per trarre vantaggi elettorali prima ed economici poi, quando, su suggestione di un magnate delle comunicazioni che ha scoperto che il frammento è ricco di elementi rari e quindi economicamente sfruttabili, gli appaltano la frammentazione del meteorite per raccoglierne poi i frammenti in mare: un'operazione demenziale, votata al fallimento. Nel frattempo i due scienziati sono risucchiati e fagocitati dai media, preoccupati unicamente di fare audience e non di dare notizie verificabili. In un crescendo delirante di idiozia senza limiti la fine del mondo arriva davvero mentre i Migliori, opportunamente ibernati, partono per lo spazio profondo su una navicella predisposta di nascosto. Torneranno sulla Terra 20 mila anni dopo e la vendetta dei nuovi abitanti del pianeta (no vi dico che aspetto hanno) colpirà inesorabilmente per prima la presidentessa avverando altresì una profezia... Ottimamente interpretato da un cast di alto livello che ha tutta l'aria di spassarsela, il film è sarcastico e cattivo il giusto, confermando altresì che la realtà è più fantasiosa e assurda di quel che si possa pensare e la follia del potere senza limiti, e di conseguenza il destino dell'umanità inesorabilmente segnato, salvo ravvedimenti collettivi quantomai improbabili e sempre che intervengano avvenimenti davvero traumatizzanti che facciano definitivamente saltare il sistema economico-finanziario su cui si regge il mondo intero. Forse un po' troppo lungo e, a mio giudizio, meno spiazzante dei precedenti La grande scommessa e Vice, sempre per la regia del talentuoso McKay, che pure raccontavano fatti e personaggi veri. 

lunedì 13 dicembre 2021

Cry Macho - Ritorno a casa

"Cry Macho - Ritorno a casa" di Clint Eastwood. Con Clint Eastwood, Eduardo Minett, Natalia Traven, Dwight Yoakam, Fernanda Urrejola, Horacio Garcia Rojas, Marco Rodriguez e altri. USA 2021 (di stima)

Dispiace essere drastico per la stima che porto da sempre per l'uomo e l'artista, ma Cry Macho, che non ha niente a che fare con le menate del politicamente corretto ma è il nome di un gallo da combattimento, peraltro autore di gran lunga della migliore prestazione attoriale di questo pastrocchio, concorre con Attacco al treno per la palma di peggior film diretto e, in questo caso interpretato, da Clint Eastwood. A meno che il Grande Vecchio faccia in tempo a girarne un altro, vado avanti a considerare che il suo testamento sia The Mule, guarda caso ispirato a un fatto vero, mentre Cry Macho è tratto da un romanzo di Nathan Richard Nash, e anche se si avvale dello stesso sceneggiatore, Nick Shenk, qui il risultato è penoso, per quanto tutta la storia, già poco plausibile di suo, è raccontata in modo sgangherato: semplicemente non sta in piedi. Mike Milo (Clint), vecchia gloria dei rodei diventato allenatore di cavalli dopo essersi spezzato la schiena, viene incaricato dal suo ex datore di lavoro, con cui si sente in debito perché l'ha aiutato mentre andava alla deriva con la bottiglia dopo la perdita di moglie e figlio in un incidente, di recuperare suo figlio Rafa in Messico, dove vive con la madre inaffidabile e alcolizzata: Paese in cui per oscuri motivi finanziari e legali non può rimettere piede. Già non si capisce perché debba mandarci un vecchio cowboy che, girando con uno Stetson trapiantato sul cranio e non parlando quasi una parola di spagnolo, si farebbe riconoscere a chilometri di distanza, specialmente a Città del Messico, e tanto più nella lussuosa magione di proprietà di una specie di puttanone circondato da guardie del corpo, dove il nostro si intrufola senza che nessuno lo fermi all'ingresso. Il colloquio con la donna, che gli dice che il figlio, tredicenne, è fuori controllo, un mezzo delinquente che frequenta ambienti della malavita e i combattimenti illegali di galli è surreale; ancora di più il suo ritrovamento da parte del vecchio rincoglionito, che in qualche modo riesce a convincerlo a seguirlo raccontandogli del fantastico mondo, il Far West in miniatura costituito dal ranch del padre, che lo aspetta di là dal confine, benché finora non si sia mai interessato a lui. Il ragazzino, con il pennuto (Macho) a rimorchio, ci casca e segue Mike. Segue sodalizio che si crea on the road tra giovane e vecchio, in fuga dagli scagnozzi lanciati al loro inseguimento dal troione, cambio di macchine una dopo l'altra, prese "in prestito" (ossia rubate), polizia che ferma ma non controlla mai una volta i documenti, il tutto infarcito da una serie di perle di saggezza di una banalità sconfortante e un Messico cartolinesco e "buono" come nemmeno nei più vieto Spaghetti Western sullo sfondo nella seconda parte del film, con una Mama, anzi Nona sensuale che accudisce i due fuggiaschi che si sono fermati in un pueblito dove sbarcano, per il momento, il lunario: il novantenne domando mustangag semiselvatici; l'adolescente, che non era mai montato in sella in vita sua, che in due giorni impara il mestiere ed è pronto per i rodei e papà, che attende appena oltre la sbarra del confine col Texas, figurarsi, aperta e senza il minimo controllo transfrontaliero. Il vecio invece tornerà dalla vecia e fascinosa meticcia (con annessi nipoti, ché i loro genitori sono morti giovani di una malattia misteriosa) a ricominciare una vita... Ma per piasé... A malapena funziona la colonna sonora, benché pressoché scontata. Patetico, non c'è altro da aggiungere. 

venerdì 10 dicembre 2021

E' stata la mano di Dio

"E' stata la mano di Dio" di Paolo Sorrentino. Con Filippo Scotti, Toni Servillo, Teresa Saponangelo, Lisa Ranieri, Marlon Joubert, Massimiliano Gallo, Renato Carpentieri, Betti Pedrazzi, Biagio Manna, Lino Musella, Ciro Capano, Enzo Decaro, Monica Nappo, Cristina Dell'Anna e altri. Italia 2021 🔝★★★★★👏👏👏

Sono trascorsi cinque giorni da quando sulle note di Napule è di Pino Daniele erano comparsi sullo schermo i titoli di coda di E' stata la mano di Dio e mi sembra di essere ancora in sala e, a differenza di quel che mi accade pressoché sempre, mi rammento ogni sequenza, molte battute, riemergono dettagli, atmosfere, perfino odori, anche ricordi personali, avendo frequentato Napoli abbastanza intensamente proprio negli anni in cui si svolge il film, ospite di un caro amico nell'appartamento di famiglia al Vomero, lo stesso quartiere collinare e residenziale in cui vive la famiglia di Fabietto Schisa, l'autobiografico personaggio principale del film (Filippo Scotti), e in cui sono nati e vissuti sia Paolo Sorrentino, sia Luisa Ranieri, che interpreta una delle figure fondamentali della pellicola, insomma un ambiente anche umano che conosco piuttosto bene dall'interno, e quindi l'impatto e il coinvolgimento sono stati anche più intensi che in altri film dello stesso autore, che a mio giudizio rappresenta il meglio di quel che esprime il cinema non soltanto italiano, ma mondiale. Siamo negli anni tra il 1986 e il 1987 e Fabietto è un sedicenne che frequenta il liceo classico, padre (Toni Servillo) dirigente del banco di Napoli, istrionico e comunista, madre (la frizzante Teresa Saponangelo) sempre in vena di scherzi con cui forma una coppia affettuosa e scoppiettante, un fratello maggiore che vuole fare cinema, una sorella che monopolizza il bagno e appare soltanto nell'ultima scena della pellicola, più una serie di zii, cugini, amici, vicini di casa, l'alto che si mischia con il basso, che costituiscono il coro; Napoli, e certo non quella cartolinesca che viene proposta e cercata dai turisti (ragion per cui escludo che Sorrentino potrà vincere un Oscar o un Golden Globe), il palcoscenico: del resto è ormai luogo comune, e quindi con più di un fondo di verità, che a Napoli la vita è teatro, e basta scendere per strada (o uscire sul pianerottolo di casa) per assistere allo spettacolo. La prima parte abbondante del film rievoca in modo divertito e ironico questo anno fondamentale e decisivo nella formazione del ragazzo, cresciuto in mezzo a personaggi estrosi quando non decisamente stravaganti, fra cui la bellissima zia Patrizia (Luisa Ranieri), di cui è infatuato nonché il nipote prediletto, che ha visioni straordinarie e viene considerata pazza; indeciso sul futuro da intraprendere dopo aver conseguito la maturità classica, un periodo comunque sereno e felice, che viene interrotto dall'incidente, una fuga di monossido di carbonio da un camino nella casa di villeggiatura che la famiglia ha a Roccaraso, che uccide i genitori. Cambio di prospettiva repentino, sindrome da sopravvissuto da un lato (Fabietto viene salvato dal fatto che il padre gli ha finalmente concesso il permesso di seguire il Napoli di Maradona in trasferta a Empoli, così non deve trascorrere il fine settimana, come d'abitudine, in montagna: ecco l'intervento della "Mano di Dio" che gli ha salvato la vita, come sostiene il suo zio avvocato) e da abbandono da un altro, ma da un maestro (Capuano) gli verrà l'invito a guardare in sé stesso e a usare l'immaginazione, e le storie di cui la città è fonte inesauribile d'ispirazione, per sfuggire a una realtà deludente, come sa bene anche zia Patrizia, la quale a causa della sua immaginazione è rinchiusa in una clinica psichiatrica, che lo incoraggia a seguire la sua strada e i suoi sogni, ed così che... Sorrentino si traferì a Roma per dedicarsi al cinema, per la felicità di chi ama questa forma di arte e di spettacolo. Ma se non ci fosse Napoli non ci sarebbe Sorrentino, e quindi neanche questo formidabile e bellissimo film, al contempo commovente ed esilarante. Semplicemente perfetto in tutto, dalla sceneggiatura, alla fotografia, alla scelta degli attori e alle loro straordinarie interpretazioni, alla colonna sonora. Per me, un capolavoro come pochi.

martedì 7 dicembre 2021

The French Dispatch

"The French Dispatch" (The French Dispatch of The Liberty, Kansas Evening Sun) di Wes Anderson. Con Bill Murray, Benicio Del Toro, Tilda Swinton, Adrien Brody, Léa Seydoux, Frances MacDormand, Timothée Chalamet, Lyna Khoudry, Roebuck Wright, Owen Wilson,  Edward Norton, Mathieu Amalric, Steve Park e altri. USA 2021 ★★★★+

Se con Gran Hotel Budapest Wes Anderson aveva voluto rendere un allegro e frizzante omaggio a Stefan Zweig e alla cultura mitteleuropea di cui lo scrittore austriaco fu uno degli ultimi e brillanti testimoni, con questo lungometraggio, il decimo dell'estroso regista texano, ma tanto affine al Vecchio Continente per gusto e vocazione, celebra, con una vena malinconica, da un lato il glorioso giornalismo d'antan, basato su fiuto, ascolto e consumo della suola delle scarpe, fatto in presenza e confezionato con cura artigianale, dall'altro il fascino della Francia del tempo andato, o almeno dell'immagine che può essersene fatta un americano colto e cosmopolita, innamorato di quel Paese, come può esserlo, ad esempio, un corrispondente del New Yorker, periodico dell'intellighenzia della metropoli della East Coast. Se si aggiunge che lo spunto è un necrologio, ossia l'illustrazione dell'ultimo numero di The French Dispatch, immaginario supplemento culturale e di varia umanità dell'Evening Sun (quotidiano di Kansas City) con base in un'altrettanto immaginaria Ennui sur Blasé (che ha le sembianze di Parigi, ma il film è stato girato ad Angoulême) e diretto dall'appena defunto Arthur Horowitz Jr (Bill Murray), figlio dell'editore, che ne ha disposto espressamente la chiusura dopo la propria morte nelle sue ultime volontà, l'atmosfera assume ovviamente un che di funereo, il che nulla toglie al divertimento, al gioco, alla lievità che caratterizza tutti i film di Wes Anderson anche quando affronta temi seri o perfino tristi: abbiamo pur sempre a che fare con qualcosa che è venuto a mancare, che si tratti della fine della rivista con la morte del suo creatore, o della scomparsa di un mondo che fu, quello evocato con le suggestive immagini, disegnate in forma di fumetto d'epoca, o ricreate sul set in maniera pseudo-realistica. L'omaggio al direttore inizia col gustoso prologo, un'escursione nei bassifondi di Ennui sur Blasé illustrata dal reporter su due ruote Sazerac/Owen Wilson, una sorta di presentazione della location dei successivi tre pezzi che costituiscono l'ultimo numero del French Dispatch: Il capolavoro di cemento, la delirante vicenda illustrata da Berensen/Tida Swinton dell'opera di un pittore psicopatico rinchiuso in un carcere (Del Toro, superbo), la cui musa è la sua carceriera (Seydoux), scoperto e lanciato da un gallerista delinquenziale finito in galera (Brody, esilarante); Revisioni a un manifesto, che rievoca l'epoca di una rivolta studentesca avvenuta in un marzo imprecisato (protagonista di una vicenda d'amore e morte lo studente Zeffirelli/Timothée Chalamet), narrata dalla cronista Krementz/McDormand; infine La sala da pranzo del commissario d polizia, una sorta di noir che vede in azione il poliziotto alla caccia dei sequestratori del figlio con contorno gastronomico (con cuoco cinese). Insomma, Wes Anderson ha assemblato come di consueto un pot pourri gustosissimo che però per me è stato abbastanza faticoso seguire in lingua originale, perdendo una fetta delle immagini e della parte grafica dovendo concentrarmi sui sottotitoli soprattutto quando parlavano gli attori americani, dalla pronuncia spesso ostica a un orecchio educato all'inglese britannico come quello  della Swinton, ad esempio (per rimanere da noi, andrebbero sottotitolati sistematicamente i film interpretati da attori che si ostinano a non mollare il romanesco mangiandosi sistematicamente la seconda metà delle parole): come altri suoi film, andrebbe rivisto, per apprezzarne meglio i dettagli, sempre numerosissimi e scelti meticolosamente, con precisione maniacale, ma rimane comunque piacevole a tutti i livelli, sempre a patto di essere in grado di seguirne lo svolgimento con una buona dose di attenzione e concentrazione. Lo stile di Anderson è personalissimo e inconfondibile, come una costante è il palese divertimento con cui il cast, come d'abitudine cospicuo, variegato e di valore, presta la sua opera: anche questo è una garanzia per lo spettatore. 

sabato 4 dicembre 2021

Re Granchio

"Re Granchio" di Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis. Con Gabriele Silli, Maria Alexandra Longu, Dario Levy, Mariano Arce, Daniel Tur, Ercole Colnago, Jorge Pardo, Severino Sperandio, Bruno di Giovanni e altri. Italia, Francia, Argentina 2021 ★★★★1/2

I due giovani registi, che lavorano da tempo in coppia, dopo una serie di corti e documentari (Belva nera, Il solengo, molto apprezzati dalla critica specializzata) esordiscono nel lungometraggio con un lavoro sorprendente e inconsueto, quanto è lontano dai canoni vigenti, che si rifà alla tradizione orale, un tempo predominante  se non unica in ambito popolare e, cinematograficamente, non può che ricordare il rigoroso realismo di un Ermanno Olmi, anche nell'aspetto per certi aspetti fiabesco della storia. Che sono andati a pescare frequentando un gruppo di anziani cacciatori della Tuscia che ricostruiscono, in base ai ricordi di ciascuno, la vicenda avventurosa di un conterraneo che, a cavallo di Otto e Novecento, resosi colpevole di un crimine in reazione alle prepotenze del signorotto locale, il "Principe", fu costretto a emigrare in Argentina per salvarsi da conseguenze peggiori, dove finì per diventare cercatore d'oro "in culo al mondo", ossia nella Terra del Fuoco. Il film inizia dai loro racconti, in parte anche cantati, al giorno d'oggi: Luciano era un emarginato, bevitore, ribelle, insomma un anarchico, tollerato perché figlio del medico locale, innamorato corrisposto di una bella villana nonostante l'opposizione del padre di lei, pastore, che vuole salvaguardarla per il principe che nutre un certo interesse perla fanciulla. In più, quest'ultimo, ha all'improvviso impedito il passaggio delle greggi sui suoi terreni chiudendo una porta fino ad allora sempre aperta, costringendo uomini a animali a una lunga e faticosa deviazione, e il giovane reagisce come non dovrebbe, e questa è la prima parte del film. La seconda vede lo stesso personaggio ali antipodi, dove è fuggito per rifarsi una vita grazie ai documenti d'emigrazione fornitigl dal padre, e per cinque anni  ha vagato per lo sterminato Paese che l'ha accolto finendo in un gruppo male assortito di ex pirati, avventurieri, delinquenti, pronti a tradirsi l'un l'latro pur di arraffarsi l'intero bottino, alla ricerca di un fantomatico tesoro che il comandante di una bastimento spagnolo naufragato aveva nascosto in un luogo sconosciuto: se lo tengono buono perché solo lui sa che esso sarà indicato dal luogo in cui si dirigerà il Re Granchio, la gigantesca (e prelibata) centolla di cui sono ricchi in quei mari, che si porta appresso in un barilotto pieno di acqua salata. Sembra di ritrovarsi, visivamente, in uno dei racconti o romanzi di Francisco Coloane o di Luís Sepúlveda, oltre che nelle righe di Bruce Chatwin. La pellicola, prologo attuale a parte, è suddivisa in due episodi distinti sia per luogo sia per tempo: nella prima, i cacciatori contemporanei sono anche per buona parte gli interpreti del borgo di cent'anni fa, coi loro volti espressivi e la loro parlata che tuttavia si fa intendere; nella seconda, dove l'atmosfera selvaggia sottolineata dalla ottima fotografia contribuisce a rendere l'atmosfera ancora più simile a un western, vengono utilizzati degli attori locali altrettanto credibili, mentre Luciano è interpretato con grande intensità da Gabriele Silli, artista a tutto tondo, ma prevalentemente scultore e pittore, all'occasione anche attore. Occasioni mancate, identità che cambiano sotto cieli e costellazioni diversi ma non il destino di questo uomo ribelle e sofferente, fedele all'amore della sua vita, che ritroverà nel ricordo, in riva a un lago nascosto e dalla luce particolare, dove lo porterà il Re Granchio. Decisamente una sorpresa, di quelle belle. 

mercoledì 1 dicembre 2021

Yara

"Yara" di Marco Tullio Giordana. Con Isabella Ragonese, Alessio Boni, Thomas Trabacchi, Roberto Zibetti, Rodolfo Corsato, Elena Cotta, Sandra Toffolatti, Chiara Bono e altri. Italia 2021 ★★★

Ho affrontato questo film, prodotto da Netflix, con molte perplessità, tant'è vero che ho evitato di vederlo sul grande schermo dove era uscito come "evento speciale" a metà ottobre e ho atteso che passasse sulla piattaforma in streaming. Troppo vicino, a mio avviso, e troppo sfruttato, da stampa e TV, il fatto di cronaca, avvenuto come si ricorderà nel novembre del 2011 quando, a Brembate di Sopra nella Bergamasca, venne denunciata la misteriosa scomparsa di una ragazzina di 13 anni, di cui al titolo, ritrovata cadavere in un campo nel febbraio successivo, cui seguì una lunga e complicatissima indagine che, dopo una prima cantonata che portò al macchinoso arresto di un giovane operaio marocchino, incolpato ingiustamente per un errore di traduzione dall'arabo di una telefonata intercettata, culminò nel 2014 con quello di tale Massimo Bossetti, poi condannato all'ergastolo nel 2016 con sentenza confermata nei tre gradi di giudizio, individuato attraverso il DNA ritrovato sugli indumenti e sul corpo di Yara. Sulla vicenda, al solito, si scatenò, alimentata dagli sciacalli dell'informazione guardona, la morbosità delle masse che si abbeverano alle loro fonti, pronta a dividersi, per italica consuetudine, tra colpevolisti e innocentisti improvvisandosi esperti di diritto, criminologia, genetica: meccanismo che chi fa informazione conosce benissimo e sfrutta senza indugi, e ancora meglio chi l'informazione, in questo Paese, la controlla, direttamente o indirettamente, ossia chi sta al potere, che su questa sorte di panem et circenses ci campa, soprattutto perché gli torna comodo che il popolo bue si trastulli e possibilmente si spacchi su due fronti contrapposti questioni che, con i giochi di potere, quelli veri, non hanno nulla a che vedere: armi di distrazione di massa, così vanno considerate; d'altronde il principio divide et impera è infallibile ancor prima dell'epoca dei Romani. Lo vediamo anche ora nella gestione della situazione "pandemica" giunta ormai al secondo inverno, volutamente confusionaria, che ha come risultato una sorta di guerra civile tra chi è favorevole ai vaccini e alla loro obbligatorietà e chi contrario a prescindere, e dove posizioni intermedie, o semplicemente di dubbio e di ragionamento, vengono rigettate da una parte come dall'altra. Conoscendo  i precedenti di Giordana, la sua rettitudine e il suo modo di fare vero cinema civile su fatti anche di cronaca (dagli omicidi di Pasolini e Impastato a Piazza Fontana) con una precisione quasi documentaristica, sapevo di non correre rischi, e infatti il film ripercorre cronologicamente le fasi dell'inchiesta e si concentra soprattutto su chi l'aveva condotta, il PM Letizia Ruggeri, interpretato impeccabilmente e con la consueta misura da Isabella Ragonese. La pellicola non nasconde nulla e non prende, al solito, posizioni preconcette: non nasconde le perplessità sollevate dagli avvocati e da alcuni esponenti politici del ricorso a uno screening di massa per la ricerca di un DNA all'incontrario, quelle sulle violazione alla riservatezza di notizie e dettagli personali, e nemmeno le reiterate rivendicazioni di innocenza da parte del Bossetti. Non a caso molte recensioni che ho trovato sui giornali lamentano che il regista abbia ritenuto di centrare la pellicola sul magistrato anziché sulla vittima: il vizio di rovistare nel fango non molla. Io trovo che opportunamente Giordana si sia concentrato sullo svolgimento delle indagini: Yara è nel titolo perché così fu chiamato il caso, cercare di entrare nel mondo della vittima, turbandone ulteriormente genitori e fratelli, è quel che fanno gli annusapatte di professione, quelli che, microfono in mano davanti magari alla madre di una vittima, non si  risparmiano nessuna nefandezza pur di avere un dettaglio, un particolare scabroso, un retroscena da dare in pasto alla canea che loro stessi hanno aizzato. A me fanno abbastanza ribrezzo, e preferisco il rigore, magari un po' meccanico e senza sensazionalismi, del regista milanese. Gli interpreti sono giusti nella parte e credibili, il racconto preciso, non c'è spazio per     sfumature insane e torbide, il racconto un po' piatto, questo sì. Però veritiero, onesto e, soprattutto, decente e rispettoso delle persone coinvolte.

domenica 28 novembre 2021

La persona peggiore del Mondo

"La persona peggiore del Mondo" (The Worst Person in the World) di Joachim Trier. Con Renate Reinsve, Andres Danielsen Lie, Herbert Nordrum, Hans Olav Brenner, Helene Biørnebye, Vidar Sandem, Maria Grazia Di Meo, Silje Storstein, Sofia Schandy Bloch, Marianne Krogh e altri. Norvegia, Francia, Svezia, Danimarca 2021 ★★★+

Mi è occorso qualche giorni di sedimentazione per chiarirmi le idee su questa commedia in 12 capitoli, oltre a un prologo e a un epilogo, intrisa di ironia scandinava, e come tale a volte incomprensibile, comunque lieve e, quantomeno, non giudicante, che racconta le vicende degli ultimo quattro anni nella vita di Julie, una trentenne intelligente, vivace e senza pregiudizi che tutt'ora non sa cosa vuole dalla vita e probabilmente a ragione non se lo chiede nemmeno più di tanto, non facendone una tragedia: si accetta per quello che è, ed è già molto nel mondo senza grandi prospettive che si sono trovati apparecchiato i cosiddetti "millennials". Alla fine il modo di affrontare le cose di questa ragazza, molto ben interpretata da Renate Reinsve, all'inizio quasi irritante nella sua volubilità decisionale (brillante studentessa liceale passa da medicina a psicologia e, infine alla fotografia e, per campare, lavora come commessa in una libreria di Oslo) mi è piaciuto e così anche il film che la racconta. A ogni decisione cambia uomo, ma la relazione più significativa l'avrà con Axel, 44 enne famoso autore di fumetti "politicamente scorretti", che lei chiuderà pur amandolo profondamente, perché non se la sente di condividere la di lui fissazione di avere figli. Questo dopo averlo tradito "virtualmente" con un Eivind, come lei impegnato, conosciuto a una festa di matrimonio in cui si era imbucata per noia e curiosità, la scena più esilarante del film, in cui entrambi flirtano passando la notte a chiedersi quali siano i limiti da non oltrepassare per rimanere fedeli ai rispettivi partner: se possibile, lui è ancora più infantile di lei, sicuramente più manipolabile. Per un periodo sarà con Eivind che Julie avrà una relazione, che però non regge quando verrà a sapere che Axel è ricoverato per un tumore che non lascia speranze, andrà a trovarlo e avrà lunghi e profondi colloqui da cui emergeranno tutte le differenze di modi di vedere e affrontare le cose di due generazioni pur così vicine ma tanto diverse. All'apparenza sembra una pellicola adolescenziale, affollata com'è da personaggi immaturi nonostante l'età (a cominciare dal padre di Julie, totalmente assente dalla sua vita), invece tratteggia in modo non banale il modo di pensare e di agire di tipi umani di ambienti diversi nella vita e nelle scelte di tutti i giorni, senza schematismi, dogmatismi e moralismi. Ben girato, brioso, il risultato è più che gradevole.

giovedì 25 novembre 2021

3/19

"3/19" di Silvio Soldini. Con Kasia Smutniak, Francesco Colella, Caterina Forza, Paolo Mazzarelli, Martina de Santis, Antonio Zavatteri, Ana Ferzetti, Arianna Scomegna, Giuseppe Cederna e altri. Italia 2021 ★★★+

Piuttosto snobbato dalla critica professionista, a me quest'ultimo film di Soldini, sempre un gradito ritorno, è piaciuto per diversi motivi. Camilla, un'avvocata d'affari di successo, in procinto di essere "elevata" a partner dello studio di squali in cui lavora, la brava Kasia Smutniak nei panni di una tipica milanesoide in carriera, che vive in una sfera totalmente distaccata dalla realtà (ma che su di essa ha effetti devastanti), una sera viene investita da uno scooter montato da due ragazzi: lei si rompe un braccio, quello alla guida scappa ma l'altro cade, va a sbattere e muore. Non ha documenti, è palesemente un immigrato clandestino, di origine mediorientale, e la polizia non riesce a dargli un nome (3/19 è la sigla burocratica che indica il terzo cadavere non identificato nel corso di quell'anno divenuto nefasto per il Covid): presa da una crisi di coscienza, la donna inizia per conto suo un'indagine per scoprirne l'identità. Caparbia com'è anche nella sua attività, ci riuscirà con l'aiuto del direttore dell'obitorio, Bruno (Francesco Colella) ma la strada sarà lunga e i parametri mentali della donna cambieranno radicalmente dopo questa esperienza. Come spesso accade nei film di Soldini, un evento imprevisto cambia la prospettiva delle cose e il modo di vederle da parte del protagonista, e quella che parte come un'indagine su chi era la sfortunata vittima dell'incidente si tramuta altresì in un viaggio alla ricerca di sé stessi e della propria, di identità, che non a caso si conclude a sua volta con un viaggio fisico, e non mentale, alla ricerca di un luogo adatto alla sepoltura della salma del ragazzo. Camilla è la classica quarantenne assatanata dal lavoro, divorziata, con una figlia ventenne, Adele, di cui non sa assolutamente nulla, totalmente assorbita dalla sfera della finanza dove tutti parlano quell'orrido gergo ibrido anglo-italiano da bancari e legulei, gente di merda, avida, che in testa ha solo numeri e ragiona unicamente in termini di logiche di potere (ne abbiamo uno a capo del governo), relazioni di merda, che vive in case lussuosamente algide e anonime arredate col loro tipico gusto di merda, peggio e più cretini perfino dei militari per professione e vocazione: un universo parallelo. La botta (anche fisica) la riporta a contatto con la realtà, anche attraverso il rapporto che si sviluppa con Bruno, il dirigente comunale che l'aiuta nella ricerca, e si ricrea con la figlia Adele una volta che quest'ultima la manda affanculo e se ne esce di casa per vivere e mantenersi per conto suo, così Camilla scoprirà di non essere stata sempre così arida, e che anche lei ha da recuperare qualcosa da un passato che, per paura, ha evitato di affrontare. Soldini, che è milanese, sa descrivere bene la razza arraffona che ha preso piede nella città riducendola a quel posto alienante e squallido che è diventata man mano negli ultimi quarant'anni, dove la gente vive nell'indifferenza totale di quel che le succede intorno, imbesuita da una frenesia immotivata, un movimento continuo a riempire il vuoto. E', anche, un film sulla responsabilità, verso il prossimo quanto nei confronti di sé stessi. Sotto forma di giallo, e non importa quanto certe situazioni siano inverosimili: i lavori di questo regista hanno sempre un tocco surreale e delle atmosfere sospese o enigmatiche. Insomma, a mio parere film onesto, ben recitato e ben girato, che funziona. 

lunedì 22 novembre 2021

Zappa

"Zappa" di Alex Winter. Con Frank e Gail Zappa, Mike Keneally. Ian Underwood, Steve Vai, Pamela Des Barres, Bunk Gardner, David Harrington, Scott Thunes, Ruth Underwood e Ray White. USA 2020 ★★1/2

Non è un film biografico, né un film musicale: è semplicemente un documentario, montato in maniera pop, probabilmente in onore al carattere anarchico e all'aspetto stravagante del soggetto in questione, come altri del genere di Nexo Digital, cui il fatto di essere proiettati sul grande schermo, fra l'altro a prezzo doppio rispetto alle pellicole normali, non aggiunge nulla alla sua natura prettamente televisiva. Con il vantaggio che, davanti al piccolo schermo, si può mettere in stop e fare un salto in cucina a pescare una birra nel frigorifero e riprendere la visione. L'ho lasciato "decantare" qualche giorno dopo averlo visto e alla fine concordo con il giudizio di un mio amico, peraltro valido musicista: all fine, deludente. Sì, perché avendo la possibilità di attingere liberamente, per concessione della famiglia Zappa, agli sterminati e ordinatissimi archivi in cui il geniale Frank conservava qualsiasi cosa producesse, ci si poteva aspettare qualcosa di più e di diverso: magari ascoltare qualche pezzo per intero (non tutti erano delle suite interminabili, o meglio "open") oppure, dalla sua viva voce, come la pensasse: non lesinava né le parole, sempre puntuali, né il suo pensiero, acuto e penetrante. Certo, non mancano le sue dichiarazioni, meno banali delle parole dei suoi collaboratori, dove raramente emerge qualcosa di particolarmente interessante. Frank Vincent  Zappa era un perfezionista, un uomo immerso nella musica e in quel che prediligeva fare: scriverla, attività per la quale spesso si isolava e poteva apparire poco socievole; completamente estraneo al mondo luccicante e festaiolo delle rock star più acclamate. Colto, intelligente, provocatorio, mai banale, libertario fino in fondo ma esigente con i suoi musicisti e meticolosissimo e instancabile sul lavoro, poco interessato al lato commerciale della musica: per sfuggire alle logiche delle case discografiche nel 1977 ne fondò una propria per agire in piena libertà. Il documentario non segue un filo strettamente cronologico e salta qua e là nella vita dell'artista, che da bambino era più interessato agli esplosivi che alla musica, fino a quando non rimase fulminato dall'opera Edgard Varèse; completamente autodidatta, imparò a suonare vari strumenti ma soprattutto la chitarra come pochi altri, ma principalmente era e si riteneva un compositore. I suoi concerti, soprattutto quelli con le prime Mothers of Invention, erano degli eventi, nel senso di unici, vere e proprie performance complete: puro spettacolo, per le orecchie e per gli occhi, e qui se ne ha soltanto qualche assaggio. Memorabile quando fu accolto come un eroe a Praga nel gennaio del 1990, tappa di un viaggio nelle capitali dei Paesi ex comunisti come ambasciatore del rock, dove incontrò il neo presidente Vaclav Havel e dove tornò l'anno successivo per una delle sue ultime esibizioni prima della morte precoce, a 52 anni, per un tumore alla prostata affrontato con grande coraggio e dignità. Aveva ancora tante cose da dire e da fare, Frank, un musicista eclettico, una mente aperta, un grande uomo che ci manca moltissimo. Anche se il film che gli è stato dedicato non è un granché, sono comunque contento di avere avuto l'occasione di rivederlo. Di lui rimangono 62 album pubblicati in vita, 53 dopo la sua scomparsa, nel 1993 e un ricordo indelebile.

giovedì 18 novembre 2021

Dovlatov / I libri invisibili

"Dovlatov / I libri invisibili" (Dovlatov) di Alexey German Jr. Con Milan Marić, Danila Kozlovsky, Helena Sujecka, Svetlana Khodchenkova, Anton Shaghin, Elena Lyadova e altri. Russia, Polonia, Serbia 2017 ★★★★+

Un film davvero prezioso, oltre che ben girato e magnificamente interpretato dal serbo Milan Marić nella parte di Sergej Donatović Dovlatov, giornalista e aspirante scrittore, che viene seguito passo passo nella sua vita quotidiana durante sei giorni del novembre già precocemente invernale del 1971, nel pieno dell'Era Brezneviana, in una Leningrado, come si chiamava allora San Pietroburgo, dove fervevano i preparativi per l'allestimento della consueta faraonica scenografia per celebrare i fasti di quella rivoluzione che, giunta al 54° anniversario, aveva conferito il potere a un regime sempre più imbalsamato, ottuso, completamente distaccato dalla realtà se non per reprimere qualsiasi espressione che potesse anche lontanamente metterlo in discussione. Dovlatov lo faceva con la sua arguzia, l'ironia inesauribile con cui affrontava le traversie della sua stessa esistenza: dotato di una stazza notevole, fascino, simpatia, mezzo armeno e mezzo ebreo, già per questo malvisto, lo era ancora di più per come scriveva i suoi pezzi: qui lo vediamo alle prese con un articolo su un film con dei portuali nei panni degli improbabili sosia dei grandi della letteratura russa, poi con un intervista a un poeta-lavoratore che scava tunnel per la metropolitana, il quale ha perso l'ispirazione dopo aver trovato la sua musa, la moglie, a letto con un altro; tra una vodka e una birra con gli amici artisti, fra cui Josif Brodski, che come lui si arrabattano per sbarcare il lunario tra mercato nero (particolarmente fiorente in una città così vicina alla Finlandia) e lavoretti vari; le serate di discussioni interminabili con performance, declamazioni di poesie, accompagnamento musicale (preferibilmente jazz) negli affollati appartamenti dell'uno o dell'altro, o performance in locali semiclandestini; la relazione con la madre sceneggiatrice che lo ospita dopo che si è separato dalla moglie Helena; le diatribe con quest'ultima e il rapporto con la loro figlia, che spesso si addormenta durante le serate errabonde del nostro eroe, che cerca di trovare la maniera, facendo leva su una o l'altra conoscenza, per essere ammesso alla Società degli scrittori: solo facendone parte, e dopo aver ottenuto la patente di adeguata "sovieticità", le sue opere avrebbero potuto ottenere il permesso di essere stampate. Ovviamente ogni suo tentativo fu vano: troppo scomodo e incontrollabile il personaggio, soprattutto la sua lingua e la sua penna. Così andavano le cose anche per gli altri artisti, pittori, scultori, teatranti, musicisti ma esisteva, per l'appunto, un mondo parallelo, sotterraneo, estraneo alle logiche di partito e di potere, che sopravviva ai margini di esso, ed è questo che descrive il film, quell'ambiente intellettuale che non si omologava, la cui aria l'autore, Alexej German junior, figlio dell'omonimo regista, coetaneo di Dovlatov e come lui leningradese, ha respirato fin dalla più tenera infanzia, nonché ricevuto dal padre e da chi aveva vissuto quel periodo testimonianza diretta su vicende e personaggi. Dovlatov, come già l'amico Brodsky prima di lui, fu costretto all'esilio nel 1978, prima in Austria, poi negli USA, a New York, dove morì nel 1990: fino ad allora solo alcuni suoi scritti circolarono in Russia sotto forma di samizdat, mentre dopo il crollo del regime comunista diventò uno degli autori più amati nel suo Paese e lo è tuttora: il film è tratto da I libri invisibili, e le sue opere edite da Sellerio. Vale la pena conoscerlo, Dovlatov, e questo bel film riesce nell'intento di darcene un gustoso quanto credibile assaggio. 

martedì 16 novembre 2021

La scelta di Anne - L'Événement

"La scelta di Anne" (L'Événement) di Audrey Diwan. Con Anamaria Vartolomei, Kacey Mottet Klein, Luàna Bajrami, Luoise Orry Diquero, Louise Chevillotte, Pio Marmaï, Anna Mouglalis, Sandrine Bonnaire, Fabrizio Rongione, Julien Frison, Alice de Lencquesaing e altri. Francia 2021 ★★

Se l'assegnazione della Palma d'Oro a un film inguardabile come Titane non sorprende, con una giuria presieduta da un imbecille notorio come Spike Lee (ancora più imbecille chi gliel'ha affidata), stupisce invece quella del Leone d'Oro, dove in quel ruolo era stato chiamato Bong Joon-ho, autore del magnifico Parasite, per citarne uno, a un ennesimo film francese, diretto anche questo da una donna, soprattutto considerando che in concorso ce ne erano almeno altri due nettamente più meritevoli, Qui rido io e Freaks Out (su E' stata la mano di Dio non mi esprimo, non essendo ancora uscito nelle sale), che però probabilmente avevano il difetto di essere italiani, e noialtri non siamo così abili come i cugini d'Oltralpe a vendere merda come se fosse oro: pagando ancora una volta la sudditanza psicologica che induce la loro irriducibile arroganza intellettuale (e non solo). La scelta di Anne, tratto dal romanzo autobiografico L'Événement di Annie Ernaux, in cui l'autrice racconta la sua esperienza, è la cronistoria, scandita di settimana in settimana, fino alla 12ª di gravidanza, di un aborto clandestino voluto e ottenuto da una ragazza di 22 anni in un'epoca, il 1963, quando procurarlo o procurarselo era un reato per cui si finiva in carcere, e la parola stessa era impronunciabile pubblicamente e perlopiù anche in privato. Un film fortemente ideologico, che racconta un dramma (il solo doverlo prendere in considerazione lo è per ogni donna) in modo obiettivo e fin troppo esplicito: trovo francamente eccessivo e macabro fare assistere lo spettatore all'espulsione del feto da parte della ragazza seduta sul cesso e al taglio del cordone ombelicale con una forbice da cucina, così come ritengo inutile ed eccessivamente compiaciuta una sorta di lezione dettagliata di masturbazione al femminile montando un cuscino da parte di un'amica e coetanea della protagonista, perennemente infoiata ma incapace di darle un consiglio e aiutarla a trovare una soluzione. Perché Anne, una ragazza che studia letteratura all'università perché vuole fortemente diventare scrittrice e uscire dall'ambiente modesto della sua famiglia, che gestisce un'osteria (attività peraltro benemerita come poche altre) fin da quando scopre di essere incinta rifiuta quella gravidanza non voluta per non compromettere irrimediabilmente il proprio futuro. La telecamera la segue passo per passo nelle sue giornate sempre più angosciate alla ricerca di una soluzione, fra medici che si rifiutano di aiutarla (uno le prescrive surrettiziamente perfino un farmaco che rafforza il feto), ragazzi che si dileguano o se ne approfittano, amiche (tranne una) che non sanno cosa dirle; la soccorrerà un giovane con cui è in confidenza, un pompiere accasermato vicino al dormitorio che ospita Anne, che la manda da un'amica che a sua volta era ricorsa a una "mammana" di fiducia, e la protagonista, la brava (lei sì) Anamaria Vartolomei, è quasi sempre in primo piano: inquadrature à la Dardenne, ha scritto qualcuno. Bene: obiettività, crudezza, ma alcune cose rimangono poco credibili. Una ragazza di 22 anni che si abbevera a Sartre (e quindi si suppone anche alla Beauvoir), e quindi presumibilmente di idee progressiste, cresciuta in una famiglia che quotidianamente ha a che fare col pubblico, non è plausibile che nemmeno all'epoca non avesse un minimo di cognizione di causa sul rischio di rimanere incinta senza l'uso del preservativo e sui meccanismi della gravidanza; ancora meno che ci impiegasse più di due mesi a trovare una soluzione: non in un Paese che già ai tempi si dipingeva, per quanto dotato di una legislazione retriva quanto quella nostrana fino al 1978, come sessualmente spregiudicato. , nemmeno Anne. Lo scavo psicologico dei personaggi è pari a zero e nessuno dei personaggi suscita un minimo di empatia, nemmeno Anne: risultano tutti degli stronzi il che, essendo francesi, non gli riesce particolarmente difficile, pertanto la credibilità è totale. Un appunto alla regista: ai tempi, comunque, le ragazze non si depilavano le ascelle e nemmeno si "scolpivano" il cespuglio dei peli pubici. Insomma: passi per il pugno nello stomaco, che è intenzionale, ma cinematograficamente non ci siamo proprio. Meno che mai con un premio un tempo prestigioso. 

domenica 14 novembre 2021

Il bambino nascosto

"Il bambino nascosto" di Roberto Andò. Con Silvio Orlando, Giuseppe Pirozzi, Lino Musella, Imma Villa, Gianfelice Imparato, Salvatore Striano, Tonino Taiuti, Roberto Herlitzka e altri. Italia 2021 ★★★★-

Intellettuale poliedrico, Roberto Andò gira pochi film, ma buoni e mai banali: questa volta adatta sullo schermo un suo romanzo uscito l'anno scorso dallo stesso titolo, convincendo Silvio Orlando a tornare al cinema per interpretare il personaggio principale, Gabriele Santoro, un maestro di pianoforte che insegna al conservatorio di Napoli e ha scelto di vivere, in solitudine, fra spartiti, libri e li suo amato strumento, in un appartamento di un nobile palazzo in decadenza nel rione Forcella, considerato particolarmente pericoloso, dove, come nel resto del centro di Napoli, città stratificata come poche e nella quale tutto si mescola, alto e basso, ricco e povero si incontrano, si mescolano e vivono in simbiosi. E' un uomo abitudinario, metodico, colto, che combatte l'avanzare dell'età e l'intorpidimento mentale recitando poesie a memoria, il quale un bel giorno si ritrova in casa Ciro, un ragazzino di poco più di dieci anni, figlio di un vicino di casa legato alla camorra, che cerca rifugio e protezione. All'inizio l'uomo non capisce perché, ma pian piano scopre che gli sgherri di un boss stanno gli dando la caccia perché, assieme a un coetaneo già acciuffato, avrebbe scippato la madre del capobastone. Il film racconta, in maniera sobria, credibile ed estremamente elegante, la nascita e la trasformazione del rapporto tra due persone che più distanti non potrebbero essere, per età e ambiente d'origine, facendo interagire i personaggi, il cui modo di essere interpretati dai due attori, entrambi bravissimi (Orlando, come si sa, per la sua  misuratezza e l'uso parsimonioso di parole e gesti, il giovane Giuseppe Pirozzi per la sua esuberante fisicità), principalmente nel contesto della loro forzata convivenza, e intuire le ragioni morali che stanno alla base della scelta di Gabriele di nascondere il ragazzino dai suoi feroci inseguitori e prendersi cura di lui, nonostante gli enormi rischi che corre: il fratello, ambizioso magistrato che non smette di rimproverarlo per essere stato sempre la delusione della famiglia, per di più abbandonando la dimora avita al Vomero per mischiarsi ai plebei, si guarda bene dall'aiutarlo, così l'uomo, dopo aver visto il cadavere del padre di Ciro dopo che i persecutori hanno inscenato un finto suicidio, dapprima medita una sorta di vendetta nei confronti del boss, poi architetta una fuga, chiarendo in una lettera la sua decisione di sfidare non solo la camorra ma anche una giustizia meramente formale e obiettivamente complice, per non parlare delle cosiddette "forze dell'ordine", conniventi e tutt'al più rassegnate alla "riduzione del danno" di fronte al dilagare della malavita organizzata. Il film racconta anche questo, oltre a essere la storia di una sorta di paternità surrogata, dove un uomo apparentemente indifferente e chiuso in sé stesso si evolve prendendosi la cura e la responsabilità del prossimo per una motivazione morale superiore. Ambientazione suggestiva, citazioni non casuali, eleganza ma anche realismo nel mostrare alcuni angoli non banali di una città così complessa e contraddittoria come Napoli, sensibilità ed equilibrio, un fondo di malinconia, forse un po' lungo e probabilmente superflua la parentesi sull'omosessualità di Gabriele, ma comunque un ottimo film. 

venerdì 12 novembre 2021

Antigone

"Antigone" di Sophie Deraspe. Con Nahéma Ricci, Rachida Oussaada, Nour Belkhiria, Rawad El-Zein, Hakim Brahimi, Antoine DesRochers e altri. Canada 2019 ★★ 1/2

Originale l'idea di adattare, pur con alcune variazioni sostanziali, la tragedia di Sofocle, scritta quasi 2500 anni fa, a una situazione attuale, peraltro ricavata da una vicenda realmente accaduta in Canada alcuni anni fa: del resto si chiamano classici proprio perché sono attuali, e sull'animo, le pulsioni più profonde dell'uomo e la sua psicologia gli antichi greci ne sapevano esattamente quanto noi al giorno d'oggi, ma con idee decisamente meno confuse. La regista e sceneggiatrice Sophie Deraspe ne ha conservato i nomi, applicandoli alla famiglia degli Ippomeni, rifugiati magrebini o mediorientali residenti già da una quindicina d'anni a Montréal ma che non hanno ancora ricevuto la cittadinanza: accolti, insomma, ma non tutelati. Si tratta di quattro ragazzi, due maschi e due femmine, che hanno perso i genitori e sono giunti nel Paese nordamericano assieme alla nonna, che tutt'ora non parla né l'inglese né il francese, mentre i più giovani sono perfettamente "integrati". Si fa per dire, ovviamente: alla francese (o alla belga): cioè relegati nelle banlieue (e infatti il film ha cadenze franco-belghe, anche se lievemente meno lugubri), con i maschi che operano in una gang di piccoli criminali e una delle ragazze che fa la sciampista. Fa eccezione Antigone, che non a caso è anche quella che ha l'aspetto nettamente più quebecois dei quattro Ippomenes, studentessa modello, all'ultimo anno di liceo e con ottime probabilità di vincere una borsa di studio che le permetta di frequentare l'Università: sarà lei che deciderà di sostituirsi, durante un colloquio in carcere, al fratello Polinice, arrestato per aver aggredito il poliziotto che aveva sparato al fratello maggiore Eteocle durante un controllo in una strada del "Quartiere", uccidendolo, per salvarlo dalla sicura espulsione dal Paese che grava su di lui, già carico di precedenti penali. Incurante del rischio che corre di mettere a repentaglio il suo futuro, a cominciare dall'ottenimento della cittadinanza, Antigone affronta il processo e la "legge degli uomini" dichiarandosi colpevole e facendo prevalere le ragioni del cuore (e della famiglia) su quelle della legalità nonché della convenienza: nella tragedia di Sofocle si tratta del diritto alla sepoltura dei fratelli, qui si tratta della dignità per uno, Eteocle, e della salvezza per l'altro, Polinice che, se rimpatriato, rischierebbe la vita. Il suo slancio e la sua generosità diventano "virali", come si usa dire, coinvolgono i suoi compagni di studi, poi le compagne del carcere minorile dov'è rinchiusa, comprese alcune assistenti, quindi una massa di giovani e meno giovani che avviano una campagna a suo favore, coinvolgendo perfino un politico di spicco in un primo momento diffidente: sorde, o quasi, rimangono le istituzioni e i suoi rappresentanti, trinceranti dietro a quello che stabiliscono i codici e le procedure. Insomma niente di nuovo sotto il sole, ciò ci cui parla il film è, alla fine, il rapporto fra individuo e autorità. La pellicola è girata discretamente, brava ed espressiva soprattutto Nahéma Ricci nella parte della protagonista, ma per il resto non è entusiasmante: la cupezza e l'impressione di trovarsi davanti a una realtà di alienati con seri problemi di comunicazione rimane, come in altri film franco-canadesi (o franco-belgi), e non contribuisce a suscitare empatia per alcuno dei personaggi. E per fortuna che questa volta non mi è toccato vedere il film in lingua originale, perché non avrei retto alla prova. 

mercoledì 10 novembre 2021

Freaks Out

"Freaks Out" di Gabriele Mainetti. Con Claudio Santamaria, Aurora Giovinazzo, Pietro Castellitto, Giancarlo Martini, Franz Rogowski, Giorgio Tirabassi, Max Mazzotta, Emilio De Marchi, Astrid Meloni, Anna Tenta e altri. Italia, Belgio 2021 ★★★★★

Evviva! Al secondo film, Gabriele Mainetti si conferma e forse si supera, ed è una gran bella notizia per il cinema italiano che, con autori dotati del suo talento ed entusiasmo, non è ancora morto, almeno per quello che riguarda il grande schermo e la fruibilità fuori dai nostri confini, dato che le menate intimiste, le saghe ozpetekiane e le pippe pseudo autoriali non oltrepassano le Alpi perché non le capisce nessuno e il resto della produzione pecoreccia va bene giusto per passare sugli schermi della TV o nelle multisale dei centri commerciali dove chi alza il culo dal divano di casa va essenzialmente a broccolare, ingozzarsi di pop corn e bibite gassate e ruttare.  Mi aspettavo il seguito del sorprendente Lo chiamavano Jeeg Robot, che peraltro ci stava, e invece sono stato piacevolmente smentito, questa volta il regista romano non si ispira direttamente ai fumetti di supereroi, per quanto se ne notino le tracce, e la vicenda, che coinvolge quattro emarginati, dotati però di superpoteri, è ambientata in un periodo storico ben preciso e tragico, quello della Roma "Città aperta" ma di fatto occupata dai tedeschi e delle deportazioni degli ebrei dal ghetto. I quattro saltimbanchi, Santamaria il licantropo, Giovinazzo la ragazza elettrica, in grado di fulminare chiunque la tocchi, Castellitto l'albino che ha il dono di controllare gli insetti, Martini il nano-calamita, lavorano in un circo diretto da Israel che, essendo ebreo, tenta la fuga ma verrò catturato e poi sequestrato dai nazisti per essere deportato nei campi di sterminio: rimasti senza lavoro e senza quello che, di fatto, era una sorta di padre, si trovano in balia degli eventi, ma vengono adocchiati da Franz (Rogowski), direttore del Zirkus Berlin, anch'esso in scena a Roma, che a sua volta è uno "scherzo della natura": nazista fanatico, pianista e musicista sopraffino, fornito di sei dita e per questo riformato dall'esercito, possiede anche la dote prevedere il futuro e quindi la sconfitta della Germania e la caduta del regime, ma è convinto di poterle evitare se riuscirà a mettere le mani sui quattro superdotati perché in grado di cambiare il corso degli eventi e conta di poterli recare in regalo, e in soccorso, all'adorato Führer. Riuscirà ad accalappiarli e i quattro lavoreranno al circo tedesco, ma con risultati del tutto inaspettati: per Franz come per gli spettatori. Nella vicenda entrano anche un gruppo di gappisti formato esclusivamente da inabilitati di varia natura (mutilati che corrono, guerci che sono cecchini infallibili), lo stato maggiore tedesco dell'epoca a cominciare del generale Kesselring, gli ebrei romanizzati da ormai duemila anni, la battaglia finale con Franz che rileva il comando delle forze tedesche prendendo il posto del suo fratello, un ufficiale che l'ha sempre umiliato perché interdetto alla carriera militare... Freaks Out è spettacolo a tutto tondo: coinvolgente la storia, a cavallo fra la fantasia più sfrenata e la realtà storica (in questo e non solo emulo di Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino, capolavoro assoluto), basata su una sceneggiatura solida; provocazione intelligente; riferimenti all'attualità puntuali, felicità espressiva, gioia di raccontare, gran bella musica, pieno dominio da parte di regista, fotografi, montatori dei mezzi tecnici oggi a disposizione, ottima scelta degli attori, che a loro volta hanno lavorato con entusiasmo visibile. Forse, dico, forse, avrebbero giovato 10/15' in meno, ma mi sento comunque di dare il massimo dei voti e di consigliarlo vivamente a chi vuole passare bene un paio d'ore liberatorie.

lunedì 8 novembre 2021

Madres parallelas

"Madres parallelas" di Pedro Almodóvar. Con Penélope Cruz, Milena Smit, Rossy De Palma, Aitána Sánchez-Gijón, Israel Elejade, Julieta Serrano e altri. Spagna 2021 ★★★★1/2

Sempre una certezza, il Maestro colpisce ancora: riesce a parlare di cose serie e far riflettere pur non abbandonando mai il melodramma e la messa in scena di un universo prevalentemente femminile, che sa descrivere come pochi, e il gioco d'incastri di situazioni che solo in apparenza sono delle semplici coincidenze ma risultano invece sempre funzionali sia al racconto, per renderlo più appassionante, sia a ciò che ci sta dietro e che rappresenta, ossia quanto Pedro Almodóvar intende esprimere. Che, in questo film in particolare, è la necessità della memoria: per poter affrontare il futuro, personale come di un Paese, nella fattispecie la Spagna ma vale altrettanto, se non di più, per l'Italia, occorre sapere da dove si viene e chi si è, affrontando un passato su cui si preferisce sorvolare. Janis e Ana sono due donne che si conoscono partorendo lo stesso giorno nella stessa clinica di Madrid due bimbe, Cecilia e Anita, che nascono entrambe senza padre. Fortemente voluta Cecilia da Janis (Penélope Cruz), quarantenne fotografa affermata, cresciuta a sua volta senza padre da una nonna che le parlava sempre del bisnonno sequestrato dai franchisti durante i primi giorni della Guerra Civile e mai tornato, ossessionata dal desiderio di riesumarne i resti per dar loro degna sepoltura che si trovano in una fossa comune di cui tutto il paese d'origine ha conoscenza ma le autorità, guarda caso no; mentre Anita (Milena Smit) è il frutto di uno stupro di gruppo, dunque subita, da una ragazza che ha la metà degli anni di Janis, un pessimo rapporto sia col padre, sia con la madre, un'assenza/presenza che a sua volta si è sposata solo per uscire di casa e dedicarsi alla sua carriera di attrice (Aitána Sánchez Gijón è superba nel suo ruolo): un'adolescente che non ha la minima idea del passato, senza radici, né desidera averne. Nonostante siano per molti versi l'opposto, le due donne solidarizzano e dopo una serie di traversie tornano a entrare in contatto e il loro rapporto si trasforma. Nel mentre però la piccola Anita è morta per un problema respiratorio che presentava già alla nascita mentre il padre di Cecilia, Arturo, l'unica presenza fisica maschile del film, che è un antropologo forense a suo tempo contattato da Janis per lavorare alla fossa comune indicatale dalla nonna, non potendo non notare il suo aspetto decisamente "etnico" si dice subito sicuro di non poterne essere il genitore biologico e induce nel dubbio Janis, che fa fare l'esame del DNA a Cecilia e poi anche all'amica Ana, divenuta nel frattempo sua convivente, a anche lei cadrà nel tranello del "non detto", finché non si arriverà a una svolta che porterà a un chiarimento per tutti. Ho già detto troppo, il resto lo scoprirete andando a vedere questo film che conferma, se ve ne fosse la necessità, l'immenso talento del regista manchego nel raccontare storie, ambienti, psicologie e di far pensare, divertendo. Vale sempre la pena andarlo a vedere. 

sabato 6 novembre 2021

L'arminuta

"L'arminuta" di Giuseppe Bonito. Con Sofia Fiore, Carlotta De Leonardis, Vanessa Scalera, Fabrizio Ferracane, Elena Lietti, Andrea Fuorto e altri. Italia 2021 ★★★+

Non ho letto l'omonimo romanzo di successo di Donatella Di Pietrantonio da cui è tratto il film, per cui non posso fare raffronti e giudicare quanto gli sia fedele: sicuramente l'ultimo lavoro di Giuseppe Bonito, regista romano non prolifico e che, nella prova precedente, Figli, non mi aveva per nulla convinto, ha un suo perché e una vita propria, riabilitandolo ai miei occhi benché sussista la tendenza a una certa lentezza, che qui può anche starci, per lasciar parlare più gli sguardi e i gesti che le parole, invero piuttosto scarne ma sempre significative, e a una ripetitività che a volte diventa pesante; e, anche se i colpi di scena, almeno per chi non conosce la trama, non mancano, il racconto scorre nei binari di una prevedibilità che tuttavia non guasta. Se l'intento era da un lato ricostruire la divaricazione esistente tra città e campagna a compimento del boom economico degli anni Sessanta e della relativa rivoluzione sociologica avvenuta nel Paese, quando (siamo nell'estate del 1975 in Abruzzo) sia la piccola borghesia sia la classe operaia si erano almeno parzialmente emancipate, adeguandosi al modello consumistico, e dall'altro la consuetudine, peraltro tutt'ora attuale, di trattare i figli come dei "pacchi postali", decidendo dei loro destini senza ascoltare il loro parere, con conseguenze spesso disastrose, la storia dell'arminuta, ossia la "ritornata", magnificamente interpretata dall'adolescente Sofia Fiore, si presta in maniera esemplare. Cresciuta in città, a Pescara, presso una coppia benestante che ha sempre considerato i suoi genitori naturali, nell'estate fra la 2ª e la 3ª media viene rispedita dai genitori biologici che vivono in un cascinale nell'aspro interno della regione che, a sole poche decine di chilometri dalla costa, è un mondo che vive in una dimensione completamente diversa, completamente agreste, distante anni luce dalla città. La ragazza, 13 anni, vi si ritrova spaesata, costretta a vivere in un ambiente totalmente estraneo, in una situazione di promiscuità con quattro fratelli di cui uno che la tampina in preda a crisi ormonali, un padre che non parla se non a grugniti e cinghiate con chi mette in discussione la sua autorità e una madre anaffettiva con cui non riesce a comunicare fino a quando, in seguito alla perdita di uno dei figli in un incidente, le confesserà quello che tutti gli altri, meno lei, sanno già: ossia che è finita in quella famiglia per un patto con una cugina che, all'apparenza, non poteva avere figli e che il ritorno è stato dovuto a un cambiamento di prospettiva. L'unico rapporto positivo lo ha con la sorellina Adriana, la più sveglia della famiglia, che la "adotta" come sorella maggiore e come modello e al contempo riesce a renderle più sopportabile la situazione, e con la professoressa di lettere dell'ultima classe delle medie che frequenta al paesello e che la convince a partecipare a un concorso letterario che ha come premio, peri il vincitore, una borsa di studio per le superiori e la incoraggia a iscriversi al liceo classico del capoluogo. Per chi ha vissuto quegli anni è un tuffo nei ricordi molto realistico, per la precisione con cui sono stato ricostruiti ambienti e situazioni; gli interpreti sono tutti all'altezza, le due ragazze una spanna in più, e credibili nelle rispettive parti. Un buon film complessivamente, e nessun amarcord nostaglico, benché il presente non sia per nulla migliore.