domenica 31 maggio 2020

Georgetown

"Georgetown" di Christoph Waltz. Con Christoph Waltz, Vanessa Redgrave, Annette Bening, Corey Hawkins, Noam Jenkins, David Reale e altri. USA 2019 ★★½
Esordio alla regia da parte di Christoph Waltz, uno degli attori prediletti (mai mi sentirete usare l'espressione feticcio) da Quentin Tarantino, con cui condivide il gusto del beffardo e del grottesco, che non si lascia sfuggire l'occasione di interpretare il ruolo di manipolatore untuoso in cui lo ricordiamo come tenente Landa in Bastardi senza gloria e, soprattutto, come Walter Keane in Big Eyes di Tim Burton, anche quello un film ispirato a una storia vera. Waltz, qui pure in veste di cosceneggiatore, ha mutato i nomi di Viola Herms Drath e Albrecht Gero Muth in Elsa Brecht, una giornalista di origine tedesca molto nota negli ambienti diplomatici di Washington, e in Ulrich Mott, il suo marito di 40 anni più giovane, anche lui tedesco d'origine, intrufolatosi nel giro della politica della capitale USA come stagista alla Casa Bianca dove era addetto all'organizzazione di tour di gruppi di turisti in vista nei luoghi della politica della capitale e che non nascondeva l'ambizione di mirare più in alto millantando competenze e conoscenze che non possedeva. Invitato a trovarsi un altro lavoro proprio per la sua inopportuna insistenza, l'uomo non deflette e mentre crea una rete di relazioni basandosi su un "sistema Ponzi delle conoscenze",   riesce ad avvicinare la vegliarda, splendidamente interpretata da una Vanessa Redgreave che rende il personaggio credibile e mai patetico, riesce a impalmarla seducendole con le sue maniere, l'indubbio savoir faire, per quanto untuoso, la capacità di adeguarsi alle situazioni e, soprattutto di assecondare la vanità delle persone con cui ha a che fare intuendone le debolezze e sfruttandole a proprio vantaggio. L'anziana consorte se ne rende in parte conto, messa anche sul chi vive dalla figlia, coetanea di Ulrich e docente di diritto a Harvard, ma intravede comunque della stoffa e dello spirito di iniziativa nel ben più giovane coniuge e lo incoraggia e mettere in piedi una società di consulenza che si avvale di personaggi come l'ex primo ministro francese Michel Rocard, George Soros, Robert McNamara, esponenti di primo piano dell'amministrazione Bush, in seno alla quale si crea anche un'ottima reputazione facendo credere di aver svolto un'opera di mediazione in gran segreto nel verminaio delle fazioni irakene dopo il caos creato dall'intervento americano del 2003, reputazione che disorienterà gli investigatori che lo arresteranno dopo che la moglie fu trovata morta, "caduta dalle scale" mentre lui era uscito a fare una passeggiata notturna per le strade del lussuoso quartiere di Georgetown dove vivevano, perché Mott non smetterà mai di usare i suoi modi melliflui e la capacità di convincimento, arrivando a mandare in confusione e recusare perfino gli avvocati d'ufficio assegnatigli. Alla fine le verità verrà a galla per un piccolo, ingenuo dettaglio di cui si era già accorta la moglie, e che aveva generato l'ultimo litigio dopo l'ennesima cena "di gran classe" e tra personaggi influenti che l'ineffabile Mott aveva organizzato la sera stessa. Nella realtà, Albrecht Muth venne condannato a 50 anni di carcere. Film godibilissimo, scrittura agile, Waltz Redgrave e Bening sono un terzetto formidabile nelle rispettive parti, in tempi di film in streaming, speriamo agli sgoccioli, quanto di meglio per trascorrere un'ora e mezzo divertendosi con loro e con la dabbenaggine degli amigos americani e non solo loro. 

venerdì 29 maggio 2020

Favolacce

"Favolacce" di Fabio e Damiano D'Innocenzo. Con Elio Germano, Barbara Chichiarelli, Tommaso Di Cola, Giulietta Rebeggiani, Barbara Ronchi, Max Malatesta, Giulia Melillo, Cristina Pellegrino, Gabriel Montesi, Justin Korovkin, Ileana D'Ambra, Lino Musella; voce narrante Max Tortora. Italia, Svizzera 2020 ★★★★+
Una graditissima conferma quella dei gemelli D'Innocenzo, al secondo film dopo l'ottimo esordio, due anni fa, con La terra dell'abbastanza, con cui avevano già dimostrato di possedere un linguaggio cinematografico originale e variegato, che sfrutta tutte le potenzialità del mezzo, e cambiando completamente genere, da un racconto tutto sommato lineare e realistico a una favola nera, a tratti irriverente e stralunata, introdotta e parzialmente commentata da una voce narrante (Max Tortora, già presente nel cast del film precedente) che finge di leggere da un diario lasciato da un preadolescente una sorta di cronaca degli accadimenti che portano a un epilogo che finisce all'onore delle cronache televisive come "i tragici fatti dello Spinaceto". Siamo dalla parte opposta di Roma rispetto a Ponte di Nona, dov'era ambientato La terra dell'abbastanza, in un quartiere di villette  con giardinetto che sembra finto per quanto somiglia agli analoghi americani, abitato da famigliole di apparente normalità ma di inquietante quanto lugubre mediocrità che si manifesta fin dalla scena iniziale: una cena tra due coppie di vicini che in realtà si detestano, entrambe con figli, quella degli ospiti con difficoltà di apprendimento, gli due, altri fratello e sorella, ospitanti, che recitano con finta compunzione le loro pagelle "tutti 10" (tranne il 9 in condotta della piccola, fetente ragazzina). Basta questo per dare il via a un film surreale, circolare, senza punti di riferimento temporali (gli episodi si svolgono nel corso di un'estate che sembra eterna), stralunato, disturbante, sospeso tra sogno e bassa materialità; che descrive il vuoto pneumatico di esistenze che si trascinano tra rancori, senso di impotenza, meschinità; rapporti fasulli e sempre sull'orlo di esplodere tra coniugi che non hanno nulla da dirsi e da fare; madri di una passività sconcertante, padri frustrati e isterici, incapaci di assumere un qualsiasi ruolo propositivo e figli pressoché afasici che tentano di crearsi un mondo loro e alternativo e trovano il loro punto di riferimento in un insegnante che mi ha fatto tornare in mente l'impiegato descritto da Fabrizio De André ne Il bombarolo. C'è una terza coppia di personaggi, tra i 12 la cui interazione viene raccontata in episodi almeno apparentemente slegati tra loro: un padre semideficiente, molto più immaturo del silenzioso figlio con cui convive in una specie di prefabbricato ai margini della comunità dei villini di cui vorrebbe fare parte, a completare il quadro di un'umanità che lascia ben poche speranze: i due autori, pur descrivendo una realtà malsana, lo fanno con uno sguardo beffardo. Un appunto avevo fatto a La terra dell'abbondanza: che non fossero forniti dei sottotitoli per il romanesco spurio e pressoché inintellegibile utilizzato dagli interpreti, ma qui le parole (a parte quelle della voce narrante), spesso mormorate, non sono importanti: dicono tutto sguardi e movenze degli attori, tutti all'altezza, affiatati, scelti con cura ed estremamente efficaci. Essere stati in grado di scegliere quelli giusti e averli amalgamati è un altro merito dei due "gemelli terribili". Vedo un grande futuro, per i D'Innocenzo. Che per fortuna di innocente non hanno nulla, e sanno essere beffardamente cattivi. 

mercoledì 27 maggio 2020

Eneide, o il trionfo della meschinità


Completata la rilettura del trittico dei classici dell'antichità in questi tempi in cui, anche in Fase 2, è meglio rintanarsi in casa a leggere libri che uscire e immergersi in una "normalità" alienata, a cinquant'anni dal ginnasio il giudizio non è cambiato: il panegirico di un vigliacco a opera di un mediocre plagiatore (dell'Odissea soprattutto) e leccaculo di regime. Virgilio: il prototipo dell'intellettuale italico, tutto ideologia e devozione al potere.

lunedì 25 maggio 2020

I Miserabili

"I Miserabili" (Les Misérables) di Ladj Ly. Con Damien Bonnard, Alexis Manenti, Djibril Zonga, Issa Perica, Al-Hassan Ly, Steve Tientcheu e altri. Francia 2019 ★★ +
Il fatto che venga venduto come il "miglior film francese dell'anno", così strilla la locandina de I Miserabili, Premio della Giuria al Festival di Cannes dell'anno scorso, non significa che sia un buon film, tutt'al più appena sufficiente, a essere generosi. Se ha un merito, è quello di mettere il dito su alcune delle piaghe di una nazione sciovinista come poche altre e afflitta da un endemico quanto infondato complesso di superiorità: la realtà, completamente fuori controllo, delle banlieue, quartieri dormitorio stipati di immigrati ed emarginati dove vige la legge della giungla; il nazionalismo esasperato e irrazionale degli stessi che vi sono reclusi; l'arroganza e incompetenza di una polizia che unisce l'inettitudine di quelle scandinave alla violenza razzista di quella americana. Un Paese, la Francia, educato a idolatrare uno Stato che, puntualmente, si rivela incapace di controllare gli scoppi di rabbia e isteria che periodicamente si verificano nel corso della sua storia quando esplodono le contraddizioni per scelte frutto di una mania di grandezza che copre divisioni e odi che si celano dietro al culto della nazione che è, tra i nostri vicini, la vera religione. Il film si apre con i festeggiamenti di massa per la vittoria nel Mondiale di calcio del 2018 in Russia sui Campi Elisei, dove tutti sono (falsamente) fratelli, per proseguire nella descrizione della prima giornata di lavoro con la sua nuova squadra dell'agente di polizia Ruiz, trasferito alla stazione di Montfermeil, una delle tante benlieiue della capitale, sul luogo dove Victor Hugo aveva ambientato alcune pagine del romanzo che dà il titolo al film (viene da dire che poco o nulla è cambiato nelle pulsioni del popolo francese da allora): durante il turno di pattuglia, i colleghi lo introducono alla realtà quotidiana di quel vero e proprio ghetto, dove a gestire i sempre precari equilibri e a comporre i dissidi fra i vari gruppi (etnici, religiosi, di interessi, di età) è chiamato il "Sindaco" insomma un ras di colore, con il suo consigliori, mentre l'altra forma di controllo e indottrinamento è esercitata dalla Fratellanza Musulmana. A incarnare la colpevole impotenza di uno Stato tanto tronfio quanto vacuo, la polizia, che non ha né la volontà né i mezzi di mettere le mani in quel vespaio, si adegua tirando a campare con la speranza di arrivare a sera indenne e non manca a metterci del suo per farsi detestare: la violenza, in particolare dello psicopatico caposquadra Chris, esercitata esclusivamente sui più deboli (ma non per questo innocenti: nessuno lo è) va a compensare la frustrazione per la propria totale inutilità oltre che a gettare benzina sul fuoco. In poche ore succede di tutto, anche troppo in un film dalla regìa adrenalinica che si ispira smaccatamente al modello Spike Lee, fino all'esplosione finale, la ribellione di una masnada di ragazzini inferociti, pericolosi e inquietanti più di uno sciame di calabroni, abbandonati a sé stessi tanto dalle istituzioni quanto dalle loro famiglie a covare odio e violenza, scatenata dalla "marachella" di uno di essi, Issah, che ha rubato un leoncino da un circo gestito da zingari, e che rimane ferito da un candelotto sparatogli da uno degli agenti, peraltro africano come lui e che vive nel quartiere, il tutto filmato dal drone fatto volteggiare da un suo coetaneo voyeur.  Una giornata di ordinaria follia, dunque, e un battesimo di fuoco che finisce male come viatico per l'agente Ruiz, l'unico che si salva, forse, tra tutti, anche per l'interpretazione di Damien Bonnard: meno convincente quella degli altri, per non parlare di una regìa piuttosto raffazzonata e poco originale. Meno male ho visto il film sul piccolo schermo, noleggiato su SKY, col vantaggio di poterlo metterlo in pausa quando diventa eccessivo...

venerdì 22 maggio 2020

Zero tituli


Triplete: sì, va beh, però che palle... Nel decimo anniversario del coronamento della storica impresa allo stadio Santiago Bernabeu di Madrid, vorrei sommessamente ricordare ai fratelli baüscia che la Beneamata, dopo la dissennata gestione del dopo-sbronza, la cessione della società prima a un faccendiere indonesiano, poi a una multinazionale cinese, da allora non ha più vinto un beato cazzo. Nemmeno una Coppa Italia, e ora ci tocca ingoiare pure la gestione Conte di una squadra trasformatasi in Jnter. Le uniche soddisfazioni calcistiche nel frattempo le ho avute soltanto dai colori neroverdi dei ramarri.

giovedì 21 maggio 2020

Corto circuito


E così il neo apostolo del "Prima gli Itagliani" ha riscoperto all'improvviso l'orgoglio lumbard, anzi: milanés (per quanto "arioso"), perché un parlamentare pentastellato ha affermato, a Montecitorio, ciò che pensa il 99% degli italiani e perfino la maggioranza dei disgraziati che vengono governati da personaggi come Fontana e Gallera (nomen omen) per non parlare di chi li ha preceduti (Bobomaroni, il Celeste Formigoni). Meraviglioso.

sabato 16 maggio 2020

lunedì 11 maggio 2020

Cronache dalla clausura / 18 - La Sindrome di Stoccolma di massa


In un Paese come l'Italia così autoindulgente, accomodante, eticamente flessibile e disposto alla sottomissione, dove non solo ci si adatta, ma quasi si è felici di vivere da reclusi e da malati per morire senza contagio da Coronavirus, la spettacolarizzazione del rilascio della cooperante Silvia Romano e la bagarre sulla sua conversione sulla via di Mogadiscio alla Vera Fede erano prevedibilI quanto inevitabili, utili a distrarre ancora una volta l’attenzione da questioni più serie. Con relative strumentalizzazioni e scatenamento di furiose polemiche tra fazioni che si contrappongono per partito preso, in maniera ideologica, scambiando il dito per la Luna e non fermandosi mai un attimo a farsi un minimo di esame di coscienza e pensare prima di emettere sentenze che lasciano il tempo che trovano. Irrimediabilmente facinorosi, carenti di memoria e condizionati da una visione binaria e semplicistica, incapaci di cogliere le sfumature, tanto radicali nel prendere posizione quanto incoerenti e ondivaghi nel mantenerle e, sempre, pronti a giudicare il prossimo quanto incapaci di assumersi la responsabilità di ciò che si afferma e di quel che si fa, si guarda all'apparenza senza voler vedere la sostanza. Niente di nuovo sotto il Sole della Terra dei Cachi, pandemia o no: il solito teatrino desolante.

sabato 9 maggio 2020

Cronache dalla clausura / 17 - I miserabili


Notizia in tutta evidenza sul Corriere della Serva di oggi (mai come in questo caso la storpiatura della testata calza a pennello), con annessa pensosa analisi di un politologo di fama, esperto nei segreti dei Palazzi della politica, romani e non, abile nel raccontare  i retroscena e decrittare i messaggi e segnali cifrati fra i suoi protagonisti, prendendosi pure sul serio, e pensando di rendere un servizio indispensabile ai sempre più scarsi lettori rimasti di quello che si definiva il più autorevole giornale italiano, e tuttora quello più venduto. Il che rende evidente a chiunque a quale infimo livello sia giunta l'informazione in un Paese già in preda alla psicosi da Coronavirus e a un rincoglionimento senza precedenti. Come se questo personaggio, tipico prodotto della Milano da bere, un tempo sedicente Capitale Morale e capoluogo di una regione che ci ha fornito in sequenza, per rimanere agli ultimi trent'anni, preclari esempi di statisti come Bossi, Berlusconi, Formigoni, Maroni e, di recente, Fontana, Gallera e Beppe Sala (il che dovrebbe ampiamente spiegare perché si trovi nella penosa situazione attuale), non fosse già abbastanza al centro dell'interesse dei media di ogni genere di questo manicomio chiamato Italia imperversando su ogni dispositivo disponibile a qualsiasi ora del giorno e della notte. No: merita anche una dotta analisi sul perché, per "colpa" del Covid19, risulta che cali nei sondaggi. Non potendo chiedervi di vergognarvi, l'augurio è che andiate a fondo, come i vostri "concorrenti" di Stampa e Repubblica, del resto, per non parlar di altri.

mercoledì 6 maggio 2020

Sergio

"Sergio" di Greg Barker. Con Wagner Moura, Ana de Armas, Brian F. O' Byrne, Garret Dilahunt, Bradlet Witford e altri. USA 2020 ★★
Ero stato consigliato, "per competenza", di guardarmi su Netflix l'omonimo documentario, sempre di Greg Barker del 2009, su Sergio Vieira de Mello, brasiliano, diplomatico e figlio di diplomatici, figura di punta tra i funzionari dell'ONU incaricati di risolvere situazioni conflittuali e spinose in ogni angolo del mondo, rimasto ucciso in un attentato a Baghdad nell'agosto del 2003 dove era stato inviato come rappresentante speciale delle Nazioni Unite in Iraq, sotto occupazione statunitense: avevo un vago ricordo del fatto, passato ai tempi abbastanza sotto silenzio, anche per non rivangare gli aperti contrasti che De Mello aveva avuto con i militari e l'ambasciatore USA Bremer prima e durante la missione, e ho così deciso di cominciare dal film, disponibile da qualche settimana sulla piattaforma su domanda, trovandolo debole, poco lineare e incisivo, melenso e scritto male; teso più a sottolineare la storia d'amore tra Sergio, come lo chiamavano tutti i suoi collaboratori, e Carolina Larriera, giovane economista argentina specializzata in progetti di sviluppo autoctono, che la complessa e anche contraddittoria vicenda umana, e anche politica, di questo uomo che aveva cercato di tradurre i suoi ideali internazionalisti e umanitari (era stato una attivo protagonista del Maggio francese quando era studente di filosofia alla Sorbona nel 1968) attraverso l'azione "sul campo". Numerosi i suoi successi in situazioni intricate: funzionario dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati fin dalla fine degli anni Sessanta, era stato inviato in missione in Bangladesh, Cipro, Mozambico, Perú; fu l'unico rappresentante dell'ONU a interloquire con i Khmer Rossi in Cambogia (in particolare col Fratello Numero 3 Ieng Sary, ex compagno di studi e di lotte a Parigi), poi in Libano e  Kosovo; soprattutto fu tra i principali artefici dell'indipendenza di Timor Est, di cui fu amministratore della transizione dal 1999 al 2002, grazie alle relazioni personali che era capace di costruire con i suoi interlocutori, in quest'ultimo caso con il capo della guerriglia anti indonesiana Xanana Gusmão, con cui aveva in comune la lingua madre. L'aver contribuito a "disgregare il più grande Paese musulmano al mondo" avrebbe fatto infuriare Osama Bin Laden che se la sarebbe legata al dito e gliel'avrebbe fatta pagare l'anno successivo facendo piazzare un'autobomba nel cortile del Canal Hotel di Baghdad, dove aveva sede la delegazione dell'ONU, vista dal capo di Al Qaeda come foglia di fico degli USA. Così la raccontano sia il film sia il documentario, che in verità non mancano di sottolineare la lentezza dei soccorsi da parte dei militari americani, in precedenza allontanati dall'entrata dell'albergo proprio da De Mello per rimarcare l'indipendenza della sua organizzazione, di cui era divenuto l'alto commissario per i diritti umani (si era apertamente e inutilmente opposto alla riapertura del famigerato carcere di Abu Ghraib, già centro di tortura dei servizi segreti di Saddam Hussei e successivamente utilizzato per gli stessi identici scopi dai "liberatori" a stelle e strisce). Il film, che si apre con l'attentato e si sviluppa in successivi flash back, con ambientazioni spesso cartolinesche (l'Arpoador della natìa Rio de Janeiro, lo sperone di roccia che separa le spiagge di Copacabana e Ipanema; le spiagge di Timor Est; invece il Kosovo, assai meno fotogenico, o Phnom Penh, non meritavano che una citazione vocale), sta in piedi soltanto grazie alle prestazione attoriali di Wagner Moura, che aveva già efficacemente interpretato Pablo Escobar nella serie Narcos e di Ana de Almas, affiancati da comprimari all'altezza, ma per il resto è fiacco, talvolta stucchevole, provo di nerbo. Il documentario, girato 11 anni prima con un classico, ripetitivo format americano (sono tutti fatti con lo stampino, su History Channel o similari se ne trovano a pacchi) su cui si basa il lungometraggio non è meglio, costruito com'è su contrapposizioni apparenti e zeppo di luoghi comuni che poco si conciliano con una personalità originale, con non poche sfumature narcisistiche, affascinante e controcorrente di Sergio de Mello, di cui si è fatto un santino con tanto di coda di paglia: da notare che del suo ateismo si accenna soltanto nel documentario, quando uno dei militari che tentarono di estrarlo dalle macerie da cui è stato sommerso dopo lo scoppio dell'autobomba racconta esterrefatto che mentre Mello stava tirando gli ultimi e lui gli consigliò di aver fede e pregare il Signore, Sergio poco diplomaticamente con le ultime forze lo mandò affanculo tirando un "porcone". Mi aspettavo di più, ma in mancanza d'altro, tocca accontentarsi.

lunedì 4 maggio 2020

Cronache dalla clausura / 16 - Fase due

Udine, Piazza San Giacomo, ore 16. Un deserto, manco fosse un Ferragosto che cade di domenica. Prima ora d'aria in città dopo due mesi: per fortuna sono aperte le librerie, dove non ho corso il rischio di trovare affollamento nemmeno di questi tempi. Mestizia.

venerdì 1 maggio 2020

Cronache dalla clausura / 15 - Per chi suona l'altra campana

Copio e incollo dal sito ComeDonChisciotte.
L’intervista a Francesco Benozzo pubblicata da Libri e Parole lo scorso 30 marzo ha avuto una diffusione e una serie di reazioni che non erano certamente prevedibili. Salvatore Ridolfi torna a intervistare Benozzo quasi un mese dopo, per capire se le sue idee siano nel frattempo cambiate.

Chi è Francesco Benozzo

Francesco Benozzo è un filologo dell’Università di Bologna, ed è anche un musicista e un poeta di fama internazionaleÈ autore di diverse centinaia di pubblicazioni, dirige tre riviste scientifiche internazionali, coordina il Dottorato di ricerca in Studi letterari e culturali all’Università di Bologna, è membro del comitato scientifico di prestigiosi gruppi di ricerca internazionali (tra i quali  il “Centro Studi di Medical Humanities” (CMH),  il workgroup “We Tell / Storytelling e impegno civico in epoca post-digitale”, “FIMIM – Filologia e Medievistica Indo-Mediterranea”, il “Paleolithic Continuity Paradigm for the Origins of Indo-European Languages”).
Sospensione dell’incredulità e pandemia: il pensiero di Francesco Benozzo
La sua precedente intervista pubblicata su «Libri e Parole» ha avuto un seguito che è andato al di là delle intenzioni e del piccolo contesto in cui l’intervista era nata: è stata ripresa da circa 400 siti italiani e internazionali; è apparsa il 23 aprile, per le cure di Orsola Casagrande, sul quotidiano curdo di opposizione al regime turco «Yeni Yaşam» e – in lingua inglese e spagnola – sull’importante agenzia di stampa mediorientale «ANF News». Un centinaio di siti inglesi, americani e spagnoli ha ripreso e diffuso l’intervista sui social. Se lo aspettava?
Ovviamente no. Parte della “colpa” è di Paolo Barnard, uno dei pochi giornalisti che non ci sarebbe bisogno di definire “giornalista”, perché l’etichetta in questo caso fa torto all’intelligenza della persona. Gliela avevo spedita, pur non conoscendolo, perché avevo visto un suo video davvero illuminante contro gli scienziati che trottano nei tribunali per denunciare chi non la pensa come loro; e lui, pur non condividendo diverse mie conclusioni, l’ha twittata e le ha consegnato un destino che ai miei occhi probabilmente non meritava.
Ci sono state diverse reazioni, di tipo anche opposto. Cosa ci può dire?
Nel mio ambiente di lavoro ho avuto diverse censure e qualche ingiuria, nonché una perentoria e autorevole recriminazione per il fatto che i pensieri di cui mi facevo portavoce erano in qualche modo associati al prestigioso nome della mia università: episodi che indicano una triste verità sull’ipocrisia della vita accademica, che da un lato organizza cortei nelle piazze a favore della libertà d’opinione e dall’altro censura la libertà d’opinione dei propri professori o condanna il loro punto di vista.
Al di là di questo, frequento poco i social. Meglio dire che non li frequento affatto. Ma il curatore della mia pagina Facebook, che ora vive in Perù, mi ha mandato un campione delle diverse reazioni. E un campione significativo l’ho avuto anche io, avendo ricevuto più di 500 mail dopo il 30 marzo. Un buon 30% sono mail di offese, insulti e minacce. Sono a mio parere comprensibili, perché la tensione è alle stelle, e ci sono purtroppo dei morti di mezzo, dei morti tra i propri cari, oltretutto senza abbracci e senza alcuna possibilità di esequie. Ho naturalmente risposto a chi mi ha scritto, per provare a far capire meglio che cosa intendevo dire nell’intervista. Ma con scarso successo. C’è poi una maggioranza che è costituita da mail di ringraziamento, per aver dato voce a un sentimento che molte persone provavano e in cui si sono, stando a quanto mi hanno scritto, riconosciute. Mi ha fatto piacere poi ricevere mail positive di autorevoli medici, dirigenti di ospedali, professori di medicina, oltre che di alcune autorità universitarie di altre discipline, che non conosco di persona ma che hanno colto nelle mie parole spunti degni di approfondimenti. Infine ho ricevuto proposte per interviste televisive e radiofoniche, ma sentivo di non avere niente di nuovo o diverso da dire rispetto a quanto avevo detto rispondendo alle sue domande, e ho preferito declinare gli inviti. Non mi sento per niente autorevole su questi argomenti. Sono semplicemente una persona disgustata dalla serialità umana.
E adesso ha invece qualcosa di nuovo da dire?
Forse sì. O meglio qualcosa da ribadire con ancora maggiore convinzione.
Mi lasci partire da due dei punti che hanno maggiormente fatto scalpore nelle sue parole: lei ha parlato di «strage di stato» e di «finta pandemia». La pensa ancora così?
La penso così ancora più di prima. Credo che a quasi tutti sia molto chiaro che le misure messe in atto per arginare la dichiarata epidemia non servono quasi a niente da un punto di vista medico, e che in ogni caso quello non è lo scopo per cui sono messe in atto. Le mascherine imposte nella “fase due”, per esempio, fanno ridere i polli. Lo scopo di questi provvedimenti snervanti e per lo più demenziali, la cui attuazione è controllata dalle forze armate e di polizia, è quello di abituarci ad accettare delle regole rigide e disumane in nome di qualcosa che in realtà non ha niente a che vedere con la salute, o che, se volessimo essere anche più precisi, ha a che vedere con conseguenze che alla fine hanno minato, minano e mineranno la salute stessa. Quanto alla “strage di stato”, ho usato quella frase citando un fatto su cui nessuno, nemmeno il Presidente della Repubblica, potrebbe obiettarmi niente: e cioè che con le spese militari che anche in questo periodo si spendono in un solo giorno (ripeto: con le spese che si spendono in ventiquattro ore) si sarebbero potuti invece costruire sei nuovi ospedali, evitando forse le stragi di medici e civili che hanno colpito in particolare le trincee degli ospedali lombardi. Io qui non sto parlando dei tagli alla sanità degli scorsi anni. Parlo di una situazione che è in atto adesso, anche adesso mentre le rispondo. Parlo del qui e ora.
Lei dice che questo è molto chiaro a tutti. Ma se è molto chiaro, perché ci si lascia convincere del contrario?
Io credo che avvenga ciò che avviene quando leggiamo un libro o guardiamo un film. Per quanto inverosimili la trama i personaggi e le situazioni ci possano apparire, noi mettiamo in atto quella che un grande poeta come Samuel Taylor Coleridge ha chiamato una volta la «sospensione dell’incredulità» (suspension of disbelief). Perché un’opera di teatro si possa fruire e funzioni, perché un film si possa guardare e funzioni, perché un romanzo si possa leggere e funzioni, perché qualcosa di inverosimile e che noi sappiamo benissimo non essere reale funzioni, dobbiamo sospendere la nostra incredulità rispetto a ciò che in cuor nostro sappiamo non essere possibile e non essere vero. Anche Tolkien – che era un filologo medievista oltre che un grande scrittore – spiegò, con qualche differenza, questa caratteristica di ogni spettatore e lettore, cercando di fare capire come mai mentre leggiamo, e ancor più mentre ascoltiamo, una fiaba noi crediamo che il drago della fiaba esista davvero. Se non attuassimo questa rinuncia allo spirito critico, dopo la prima scena del film usciremmo dalla sala o resteremmo distratti, e così dopo le prime pagine di un romanzo fantasy. Sappiamo che quell’orco non può esistere, ma dobbiamo crederci se vogliamo essere parte della narrazione in atto, e dunque finiamo per crederci. Sappiamo che quella strega che mangia i bambini non esiste, ma dobbiamo crederci se vogliamo essere parte della narrazione in atto, e dunque finiamo per crederci. E io penso che ormai abbiamo capito che è attualmente messa in scena una truffa colossale e che essa, attraverso i suoi burattinai, dà luogo di continuo a misure inverosimili, risibili e umilianti, ma penso che finiamo per crederci e per credere a quelle misure perché non abbiamo risorse individuali che siano in grado di opporsi al nostro istinto di essere parte della grande narrazione che ci riguarda. Questa narrazione è quella nella quale noi siamo i cittadini, i bravi cittadini, i cittadini responsabili, i cittadini che amano e proteggono i propri cari, i cittadini che danno il buon esempio e che ripetono come pappagalli ogni irragionevole fandonia contenuta nei decreti e diffusa dalle televisioni e dalle pubblicità. Ed è per questo che alla fine ci crediamo. Perché ci fa incredibilmente e paradossalmente comodo crederci. E perché se non fosse così, se non sospendessimo l’incredulità, scopriremmo di non avere quasi più alcun valore in cui credere tra quei valori a cui ci hanno abituato a dare importanza fin da quando siamo stati indottrinati sui banchi di scuola. La sospensione dell’incredulità è in fondo una strategia inconscia per sentirsi parte di un branco, che è una propensione manifestata da Homo sapiens fin dalla sua comparsa, e che – unita alla paura della morte – è tra l’altro alla base di ogni credenza religiosa.
Qualcuno potrebbe obiettarle che pensandola così lei attribuisce troppa intelligenza o troppi incredibili poteri ai nostri vertici o ai virologi anti-dialogici contro i quali si è schierato.
No, per niente. Io credo al contrario che anch’essi abbiano dovuto in parte sospendere la propria incredulità, quella per intenderci che hanno continuato razionalmente a manifestare fino agli ultimi giorni di febbraio. Ma a tutti i livelli fa paradossalmente comodo sospendere l’incredulità per diventare parte della grande narrazione imposta. Per quanto appaia strano o difficile da comprendere, è proprio quando si arriva ai vertici del potere – parlo dei sistemi con una struttura apparentemente ancora democratica – che è necessario smettere di pensare con la propria testa. Gli stati funzionano precisamente in questo modo, con o senza pandemie e finte pandemie. È infatti solo grazie alla narrazione imposta, in questo caso la narrazione della pandemia dichiarata, che può essere messo in scena ad esempio il burlesco teatro dei rapporti interstatali, delle proteste tra stato e stato per i fondi destinati alla “ripartenza”, della commovente solidarietà tra alcuni di questi stati (milioni di italiani sono stati profondamente toccati dalla caritatevole e strappalacrime generosità della Germania, che ha accolto una quarantina di nostri pazienti nei suoi ospedali), delle telefonate tra i capi dei vari governi (quasi tutte con telefoni vintage, con la cornetta bianca e il filo arricciato). È solo se si finisce per sospendere l’incredulità, infine, che si potrà da un lato promuovere e dall’altro confidare nell’elemento prodigioso e soprannaturale che risolverà in un miracoloso finale le complesse vicende della nostra discesa agli inferi: nei testi mitologici-fiabeschi si chiama “oggetto magico” qui si chiama “vaccino”. Ma è necessario sottolineare con chiarezza un punto: la sospensione dell’incredulità non è affatto una menzogna che si racconta a se stessi: è al contrario un meccanismo cognitivo in virtù del quale, mentre la narrazione si svolge, noi crediamo veramente a ciò cha sta accadendo, e magari lottiamo per difendere questa verità. Nella sospensione dell’incredulità noi perdiamo noi stessi e ci abbandoniamo al narratore.
Lei parla in particolare dell’Italia. Ma come si fa a mettere in atto una simile finzione, una finta pandemia, su scala planetaria?
Questo è il più banale dei dubbi da risolvere, mi creda: la finzione su scala globale è in atto ogni giorno e non certo da ieri: non nasce certo con questa pandemia dichiarata. Questa pandemia, semmai, rende visibile ciò di cui abitualmente non ci accorgiamo, perché altre volte sembra non toccare le nostre libertà quotidiane, o non mira a toccare quelle direttamente. Lei è un dottorando in antropologia: penso che le basti aprire un qualche classico della disciplina che studia, ad esempio Tristi tropici di Claude Lévi-Strauss – o scelga lei il suo preferito – e sarà lei a spiegarlo a me come si fa a mettere in atto una finzione su scala planetaria.