martedì 31 ottobre 2023

Killers of the Flower Moon

"Killers of the Flower Moon" di Martin Scorsese. Con Leonardo DiCaprio, Robert De Niro, Lily Gladstone, Jesse Plemons, Brendan Fraser, Louis Cancelmi, Larry Sellers e altri. USA 2023 ★★★★★

Sono tre ore e mezzo ben spese, quelle che attendono chi si decide di andare a vedere in sala l'ultimo lavoro di Martin Scorsese che, infallibilmente, ha colpito ancora con un monumentale affresco che mette in luce, attraverso una micro saga famigliare che ruota attorno a tre personaggi, tutto l'immenso marciume, l'avidità, la grettezza, il razzismo, l'ignoranza che stanno alla base società americana, la stessa che impone il suo modo di vivere e il suo sistema come un valore universale da difendere a qualsiasi costo contro chi osa metterlo in dubbio o semplicemente si rifiuta di condividerlo: ne abbiamo un esempio proprio attualmente, con le guerre foraggiate da questo impero in disfacimento e dai suoi alleati più fedeli (a cominciare dal nostro governo attuale e a buona parte di quelli che l'hanno preceduto). Si tratta dell'adattamento dell'omonimo romanzo-indagine di David Gann, uscito in Italia col titolo Gli assassini della terra rossa, e sceneggiato dallo stesso Scorsese assieme a Eric Roth, che racconta come un'orda di famelici "coloni" bianchi si siano impossessati, con i vari trucchi consentito dalla "legge" (quella del Far West, in sostanza, che caratterizza tuttora il sistema normativo USA, una cosa da primitivi, per un qualsiasi europeo continentale e che avrebbe inorridito un qualsiasi cittadino dell'Impero Romano 2000 anni fa), di tutti i diritti che facevano capo alla Nazione indiana degli Osage dopo che in Oklahoma, terra desolata dove erano stati forzatamente trasferiti e relegati dagli originari territori che abitavano negli attuali Kansas e Louisiana, era stato scoperto il petrolio. Che aveva fatto immensamente ricchi gli indigeni, i quali però potevano esercitare le loro facoltà solamente attraverso un tutore bianco. In questa situazione, nei primi anni Venti del Novecento, Ernest Burkhard (DiCaprio), un giovane reduce di guerra senza arte né parte né dotato di grande intelligenza, ma attirato dal danaro facile, torna nella natìa Fairfax dove lo zio William Hale (De Niro) lo assume come autista e, sostanzialmente, tirapiedi, invitandolo a cercare moglie fra delle eredi Osage, in modo da poterne a sua volta ereditare i diritti ed esercitarli direttamente e, appunto, "legalmente". E, per interesse ma anche per amore, Ernest la moglie la trova in Molly (Lily Gladstone), che ha visto morire il padre e poi una dopo l'altra la madre e le sorelle, uccise o in circostanze oscure, e lei stessa via via avvelenata, fino a perdere quasi del tutto la capacità di agire, con una falsa cura per il diabete di cui soffre. Cosa che succede a tutta la gente Osage, infiltrata man mano da avventurieri bianchi con la complicità tacita del governo. Unica eccezione alcuni agenti del neonato BOI (dal 1935 FBI) di Edgar J. Hoover, mandati a Fairfax da Washington per risolvere i casi di morti sospette e guidati da Tom White (Jesse Plemons), che riescono a convincere Ernest a testimoniare contro lo zio, la vera anima nera che si professava amico e protettore degli Osage, mettendo alle strette Hale, ma l'unico che pagherà davvero, nonostante gli accordi presi, sarà proprio l'ingenuo e sprovveduto Ernest, che perderà tutto mentre i veri gangster si approprieranno di tutto, distruggendo ancora di più la Nazione Osage. Grande prestazione dei due attori protagonisti, con una menzione di merito particolare per Leonardo di Caprio, che ha accettato il ruolo di un personaggio sotto tono rispetto a quelli che interpreta di solito, un giovane privo di talento e fondamentalmente stupido, attirato sì dal denaro ma non del tutto immorale, innamorato della moglie ma ignaro dei meccanismi diabolici messi in atto dallo zio e del significato di quel che gli accade intorno. Anche Hale, del resto, è a suo modo "in buona fede", si crede sul serio amico degli indigeni ma perché li considera poco più che degli animali domestici, infarcito com'è della retorica della frontiera che ancora oggi ammanta di un supposto idealismo l'atavica sete di danaro a qualunque costo e l'individualismo sfrenato che stanno alla base del mito americano e del relativo sistema di vita e di "valori": si sta parlando di un Paese nato su un genocidio sistematico e che non ha ancora risolto, nel 2023, il problema del razzismo, non solo verso i pochi "nativi" superstiti, i milioni di discendenti degli schiavi africani ma anche le nuove minoranze, a cominciare da quella ispanica, in preda a una violenza endemica nonché il più drogato e impasticcato del pianeta. Tutta la filmografia di Scorsese (e di rari coraggiosi autori, come Quentin Tarantino e pochi altri ancora) è lì a ricordarcelo. Da sottolineare, oltre all'accuratezza della ricostruzione ambientale, una fotografia con i controfiocchi, interpretazioni di altissimo livello e, al solito, una colonna sonora di lusso, affidata niente meno che a Robbie Robertson (già membro della Band), purtroppo scomparso nell'agosto scorso. Grande film, a mio parere imperdibile, e Scorsese sempre un fuoriclasse. 

mercoledì 25 ottobre 2023

Il cielo sopra Berlino

"Il cielo sopra Berlino" (Der Himmel über Berlin) di Wim Wenders. Con Bruno Ganz, Otto Sander, Peter Falk, Solveig Dommartin, Didier Flamand, Curt Bois, Lajos Kovács, Teresa Harder e altri. Germania, 1987 ★★★★★

Dal 2 ottobre è tornata in circolazione nelle sale la versione restaurata, a cura della Wim Wenders Foudation in collaborazione con la Cineteca di Bologna, del capolavoro del regista tedesco, Palma d'Oro a Cannes 35 anni fa, un film senza tempo (e senza età) come gli angeli che ne sono protagonisti, Damiel (Bruno  Ganz) e Cassiel (Otto Sander), i quali hanno l'incarico di assistere i berlinesi dall'alto di quell'unico cielo che sovrasta la città che, quando fu girato, nel 1987, era ancora divisa in due dal Muro. Li vediamo ascoltare i pensieri delle persone sui treni della metropolitana, nelle strade e nei negozi, nelle sale di lettura della biblioteca di Stato, nei bar, e si ritrovano ogni tanto a raccontarsi le loro esperienze e le loro impressioni: vivono in un universo in bianco e nero dove solo i bambini sono in grado di riconoscerli, come avviene nel circo dove capita Damiel e dove vede all'opera una trapezista alla sua ultima rappresentazione, licenziata perché il circo chiuderà per debiti, che volteggia sul suo attrezzo, incantando il pubblico, con delle ali attaccate alle spalle; oppure i poeti, come Homer, che invano cerca la Potsdamer Platz, prima della guerra una delle più belle piazze europee, trovando uno spiazzo desolato dove non è rimasto che il famoso Muro. Li riconosce anche un attore americano, venuto a girare un film ambientato in epoca nazista, Peter Falk, universalmente noto come il Tenente Colombo, pure lui un ex angelo che ha rinunciato all'immortalità per aiutare concretamente, condividendone l'esistenza, gli umani. Che la loro vita la vivono a colori, come a colori sono le immagini della Berlino uscita distrutta dai bombardamenti, e quelle della seconda parte del film, quando Damiel decide anche lui di diventare umano e andare in cerca della bella trapezista (Solveig Dommartin) che aveva incontrato una seconda  volta, mentre era ancora uno spirito, in un locale dove si teneva un concerto di Nick Cave and The Bad Seeds: ricordo, se fosse necessario, il ruolo fondamentale che la musica ha avuto in tutta la filmografia di Wenders, almeno quanto le parole (qui la sceneggiatura si avvale del contributo dell'amico Peter Handke, che ha collaborato con lui anche in altre occasioni) e la fotografia (che ne Il cielo sopra Berlino era curata da Henri Alekan, da cui anche il circo citato nella pellicola prende il nome). E' proprio Peter Falk ad avvertire Damiel degli inconvenienti che potrà incontrare diventando uomo in carne e ossa, a dargli suggerimenti e a incoraggiarlo a cercare la giovane donna che da subito aveva sentito come l'unico completamento possibile del suo essere, e che a sua volta stava attendendo la persona del suo destino. Un film profondamente umanista, di grande suggestione e di rara poesia, che è un viaggio nella memoria della città, nella crisi di identità dei suoi abitanti per la sua vicenda del tutto particolare, e quindi inserito in un ben preciso contesto storico, ma che ha al cobtempo una valenza generale, parla del significato del tempo, dei sogni e delle aspirazioni, della ricerca di felicità e pienezza di ogni essere umano, di dare insomma un senso alla propria esistenza nonostante tutte le contrarietà degli eventi e i condizionamenti a cui è sottoposto. Se vi capita a portata di mano, va da sé che raccomando di correre a vederlo. Il paragone con quello che è mediamente in circolazione negli ultimo dieci anni è sconfortante. 

sabato 21 ottobre 2023

L'ultima volta che siamo stati bambini

"L'ultima volta che siamo stati bambini" di Claudio Bisio. Con Alessio di Domenicantonio, Vincenzo Sebastiani, Carlotta De Leonardis, Lorenzo McGovern Zaini, Marianna Fontana, Federico Cesari, Antonello Fassari, Claudio Bisio e altri. Italia 2023 ★★1/2

Cosimo, Italo, Vanda e Riccardo sono quattro bambini sui dieci anni di estrazione diversa che vivono nello stesso quartiere a ridosso del Tevere, dalle parti del Ghetto, e che hanno stretto tra loro il "patto dello sputo" (di sangue ne scorre già abbastanza...): a Roma sono ancora fresche le ferite del bombardamento del 19 luglio del 1943 che l'hanno resa una "città aperta", di fatto in mano ai tedeschi, e siamo nei giorni che seguono la vergognosa fuga del re fellone e della sua corte dei miracoli guidata dal maresciallo Pietro Badoglio dopo l'8 settembre. Quando Riccardo, dopo il rastrellamento degli ebrei romani del 16 ottobre scompare, assieme ai genitori, che avevano una merceria nei pressi del Portico d'Ottavia, saputo che sono diretti con un treno in Germania in un "campo di lavoro", decidono di andare a recuperarlo. La guerra vista con gli occhi, non sempre innocenti in verità, dei bambini non è un tema nuovo e l'accostamento a La vita è bella di Benigni (ma anche ad altri film sul genere) è immediato: in questo caso la sceneggiatura, dello stesso Bisio, assieme a Fabio Bonifaci, è basata sul romanzo omonimo di Fabio Bartolomei, e ha come tema l'amicizia e la solidarietà al di là di tutte le differenze. Cosimo infatti è figlio di un dissidente politico al confino, Italo di un gerarca (impersonato dallo stesso Bisio in un cameo) e fratello di Vittorio, un militare ferito in Africa, dunque un "eroe" di guerra, mentre lui è grasso e goffo; Vanda è senza genitori ma è la testa fina, e scappa ogni giorno dall'orfanotrofio che la ospita e dalla sorveglianza, complice, della giovane Suor Agnese, per raggiungere i suoi tre amici. Proprio quest'ultima e Vittorio si mettono all'inseguimento del trio seguendo i binari della ferrovia e incappando in una serie di disavventure abbastanza improbabili, che seguono a ruota quelle che si abbattono sui tre ragazzini. Rischiano anche l'esecuzione da parte dei tedeschi (come al solito i cattivi della situazione, mentre i loro complici nostrani, alla fine, vengono comunque fatti passare per bonaccioni tutt'al più un po' opportunisti e codardi, come da stantìo luogo comune). Si sorride, per la sostanziale lievità e l'aspetto favolistico del racconto, nonostante il finale amarognolo che non svelo (almeno c è stato risparmiato il lieto fine), ma alla fine il film non convince del tutto. Se è lodevole l'intento di ricordare la deportazione degli oltre duemila ebrei romani (dai campi di concentramento ne tornarono soltanto 101, e nessun bambino), le lacune non mancano, a cominciare dai cliché accennati prima, e dall'eccesso nel caricaturare situazioni e personaggi, mentre l'aspetto positivo sta nell'interpretazione dei personaggi principali, in particolare i ragazzini, che sono bravi e spontanei per conto loro ma il merito anche all'esordiante regista per averli saputi dirigere, ma sono certo che Claudio Bisio, se ne avrà l'occasione, sia capace di proporre qualcosa di meglio e di più originale. 

domenica 15 ottobre 2023

Non credo in niente

"Non credo in niente" di Alessandro Marzullo. Con Demetra Bellina, Giuseppe Cristiano, Renata Malinconico, Mario Russo (II), Lorenzo Lazzarini, Gabriel Montesi, Juni Ichikawa, Antonio Orlando (II) e altri. Italia 2023 ★★★★+

Come un'affiatata rock band, a bordo di una vecchia Citroën Station Wagon, il coproduttorre e attore Lorenzo Lazzarini, l'interprete principale Demetra Bellina, che giocava in casa essendo nata nel capoluogo friulano, e il regista e sceneggiatore Alessandro Marzullo, all'esordio nel lungometraggio, sono venuti al Visionario di Udine a presentare Non credo in niente, che aveva ricevuto un'ottima accoglienza alla 59ª Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro ed è uscito nelle sale il 28 di settembre: alla fine della proiezione si sono intrattenuti per oltre un'ora assieme a un pubblico folto e decisamente soddisfatto, rispondendo a numerose domande non banali, dimostrando una disponibilità non comune. Una viaggio notturno in una Roma sporca e degradata da parte di una serie di anime fluide, per parafrasare Zygmunt Bauman, giovani sulla soglia dei trent'anni, tutti alle prese con delle aspirazioni artistiche frustrate da un'esistenza fatta di lavoro precario e sottopagato,  che vivono una realtà sempre più squallida, piatta, chiusi in un solipsismo senza prospettive, incapaci di intrattenere dei rapporti solidi e relazioni solidali col prossimo, in definitiva di fare gruppo: l'esatto contrario di quello che hanno fatto tutti coloro che hanno dato vita a questo piccolo miracolo, i quali in estate a Pesaro si sono presentati in massa alla proiezione di quello che non è un grido nichilista, come potrebbe sembrare dal titolo, ma una presa d'atto dello stato delle cose che vuole indicare che una svolta è possibile, facendo squadra e mettendo a frutto i propri talenti, realizzare le proprie aspirazioni. Mettendosi in gioco, insomma, cosa che questi ragazzi hanno fatto per Non credo in niente. Film che non ha bisogno di una vera e propria trama, una storia che lo sorregga, per fare percepire allo spettatore le sensazioni e il malessere dei suoi personaggi, la loro difficoltà a stare al mondo "senza disunirsi", citando a sua volta il Sorrentino di E' stata la mano di Dio: sono sufficienti le immagini, frammenti di vita dei diversi personaggi, che si incrociano soltanto in una specie di zona franca, lo spazio dove staziona il furgone del "paninaro" (interpretato fra l'altro da Lorenzo Lazzarini), una specie di confessore laico, o psicologo di strada, che ha la parola giusta per tutti, dove ciascuno di loro riesce, per un attimo, a essere davvero se stesso. Abbiamo una coppia di musicisti, lei pianista e lui violinista, che da anni ormai vive un rapporto disfunzionale lavorando in nero per un ristoratore che li sfrutta; un attore che, tra un provino e l'altro, si dedica ossessivamente al sesso occasionale; una giovane hostess, bravissima a disegnare, che tra un volo e l'altro e un soggiorno nell'albergo dove scende abitualmente si incontra e si scontra con un giovane aspirante scrittore che lavora alla reception... Lampi di luce nel buio, locali notturni, scene di strada, l'officina di un meccanico che ripara motociclette, amico dell'attore che su una Yamaha attraversa le strade buie e deserte della capitale. Il film è fatto di bagliori improvvisi, parcellizzato come lo sono le esistenze dei suoi personaggi, schegge verbali, volutamente destrutturato ma al tempo stesso tenuto insieme da una colonna sonora poderosa, che si deve a Riccardo Amorese, e a una fotografia satura, di grana grossa: Marzullo ha volutamente girato il film su pellicola da 16 mm, che l'ha costretto alla ridurre al minimo le riprese per motivi di costo (il film è stato girato in 13 notti nell'arco di 2 anni e ha richiesto un accorato lavoro di montaggio) e il risultato ricorda non poco le atmosfere dei film di Wong Kar-wai, il grande autore di Hong Kong a cui il giovane regista modenese ha esplicitamente detto di ispirarsi. Il risultato è una pellicola (è il caso di dirlo) fortemente sperimentale, frutto di un rigoroso lavoro di gruppo in cui tutte le componenti hanno dato il loro contributo, anche di scrittura, del tutto inconsueta nel panorama italiano, anche quello del cosiddetto "nuovo cinema" dei vari D'Innocenzo, Parroni, Bozzelli. Film generazionale, certamente, ma il disagio dei suoi coetanei Marzullo è riuscito a esprimerlo compiutamente meglio di chiunque altro, a mio parere. Un esordio più che incoraggiante e una gradita sorpresa: nuovo cinema con un sapore antico. 

mercoledì 11 ottobre 2023

Kafka a Teheran

"Kafka a Teheran" (Ayeh haye zamini/Terrestrial Verses) di Ali Asgari e Alireza Khatami. Con Majid Salehi, Gohar Kheirandish, Farzin Mohades, Safad Asgari, Hossein Soleimani, Faezeh Rad, Bahram Ark, Sarvin Zabetian, Arghavan Shabani, Ardeshir Kazemi. Iran 2023 ★★★★1/2

Come in un caleidoscopio, nove episodi di vita quotidiana a Teheran in interni diversi, intitolati con il nome dei protagonisti, e uno finale che vede un vecchio seduto immobile a una scrivania, la moderna skyline della città che si scorge dalla vetrata alle sue spalle, mentre un terremoto la scuote dalle fondamenta e i futuristici grattacieli della capitale iraniana crollano uno dopo l'altro. Un mirabile esempio di cinema civile, anzi: di vera e propria resistenza umana, realizzato a quattro mani da Asgari e Khatami superando le infinite trappole e difficoltà facilmente immaginabili a quelle latitudini e a cui sicuramente non verrà data libera visione in patria. Abbiamo un neo padre a cui viene vietato di iscrivere all'anagrafe il figlio con il nome di David, perché non è "coranico" e sciita, a cui al massimo verrebbe consentito il persiano Davood, che ne è l'equivalente; la bimba in tuta e felpa che viene agghindata "islamicamente" per partecipare a una celebrazione scolastica in una boutique che tratta articoli del genere; una studentessa che viene convocata dalla preside perché è stata vista arrivare nei dintorni della scuola con un ragazzo in moto e messa sotto torchio (ma la ragazza le renderà la pariglia); le disavventure di un giovane che sta facendo una visita per il rinnovo della patente, sottoposto a un interrogatorio demenziale e costretto a denudarsi per mostrare i versi di un famoso poeta locale tatuati sul suo corpo; il regista a cui, per ottenere il nullaosta di un film, viene imposto di togliere dal copione tutte le parti che parlino anche solo velatamente di parricidio (peraltro simbolico) e colpe del genitore al punto da stravolgerne completamente il significato e in base a ragionamenti del tutto capziosi; una ragazza che subisce le avances del grande capo di un'azienda privata durante un colloquio di lavoro; un disgraziato che per avere la speranza di ottenere un contratto (da fame) a tempio determinato di un anno, previo periodo di prova di tre mesi, subisce un interrogatorio sulla conoscenza, a memoria, di alcune sure del Corano nonché la tragicomica dimostrazione, all'asciutto, di compiere correttamente i lavacri prima delle rituali preghiere; la delirante avventura in una stazione di polizia di un'anziana signora che reclama il suo amato chihuahua sequestrato da due poliziotti motociclisti perché "animale impuro" (oltre alla polizia morale abbiamo anche la polizia canina...) e, in via riparatoria, vede proporsi l'offerta di un quattrozampe di altra razza detenuto in quel commissariato... Inquadrata è sempre e soltanto la vittima di queste vessazioni, mai chi le compie, al massimo una mano o un'ombra: a significare che in Iran il potere è ovunque, onnipresente e onnisciente, pervade tutta la società e le menti dei sudditi, che tali vengono considerati da un potere malato, marcio e più opprimente che mai, come sappiamo anche dalle cronache che filtrano da quel magnifico quanto infelice Paese. 77 minuti di cinema puntuale, implacabile, essenziale, ironico, dove si sorride amaro, ci si indigna ma mai abbastanza, perché la pervicace idiozia del potere è ovunque, soprattutto dove vige una teocrazia o comunque un dogma, come dimostrano gli esempi dei Paesi comunisti e la stessa sedicente democrazia di stampo occidentale, quella della verità e del pensiero senso unico. Ma finché circolano film come Kafka a Teheran e c'è gente che sfida il potere per girarli e diffonderli, c'è speranza, soprattutto se si va a vederli numerosi.

sabato 7 ottobre 2023

Asteroid City

"Asteroid City" di Wes Anderson. Con Jason Schwartzman, Scarlett Johansson, Tom Hanks, Bryan Crainston, Jeffrey Wright, Tilda Swinton, Yony Revolori, Edward Norton, Adrien Brody, Liev Schreiber, Hope Davis, Steve Park, Rupert Friend, Maya Hawke (II), Steve Carrell, Margot Robbie, Steve Carell, Jeff Goldblum, Sophia Lillis, Willem Defoe, Matt Dillon e altri. USA 2023 ★★★★

Ha ragione da vendere l'ottimo Gianmatteo Pellizzari quando, sul Messaggero Veneto, segnala la pervicacia con cui la critica e i commentatori "social" che detestano il cinema di Wes Anderson si ostinino ad andare a vedere i film di un autore che, se ce n'è uno, non cambierà mai, rimproverandogli di aver girato un film, per l'appunto, "andersoniano". Chi conosce il modo di costruire un racconto per immagini del regista texano, assieme alla componente giocosa, che mischia falso con posticcio con verosimile, compresi scenari di cartapesta quando non addirittura inserti grafici o animati, per esprimere sentimenti, invece, autentici e spesso profondi, sa già cosa può aspettarsi: delle variazioni sul tema, mai banali, confezionate con cura artigianale e con la complicità di interpreti di prima grandezza che si adeguano volentieri ai cliché dell'autore e lo seguono nelle sua stravaganti avventure, a tutta evidenza divertendosi quanto lui. Contraddicendo loro per primi un'altra critica che circola regolarmente: che Anderson "sottoutilizzi" i suoi attori, quando invece è vero il contrario, perché li sa dosare senza sovraesporli, rendendoli funzionali al racconto, azzeccando le loro parti e al contempo lasciando loro ampio margine di manovra, cosa che si evince da qualsiasi suo film. Io non sono "a priori" un fan di Anderson ma ne riconosco il talento, e ammetto che ho impiegato qualche giorno a "digerire" Asteroid City prima di riuscire ad apprezzarlo come merita: di primo acchito non mi aveva del tutto convinto, al punto che l'avevo trovato perfino un po' noioso, nonostante duri soltanto 90'. Asteroid City è un immaginario sito nel deserto del Nevada cresciuto intorno a un cratere creato da un meteorite e che è diventato un'attrazione turistica: ci sono un campeggio-motel, una stazione di servizio con annessa officina, una tavola calda, un osservatorio astronomico in cui si svolge anche una specie di concorso annuale per giovani scienziati geniali. E’ lì che si incrociano le storie di vari personaggi: una famosa attrice con la figlia, un fotografo di guerra rimasto vedovo e con tre figli in attesa di affidarli al nonno, una scienziata che studia il cosmo e organizza il concorso di cui sopra, un'insegnante con un gruppo di bambini, oltre ad altri tipi curiosi che abitano più o meno stanzialmente questo classico luogo di frontiera, molto America Anni 50 e anche molto colorato. La situazione cambia quando arriva un'astronave aliena e un extraterrestre sottrae il meteorite che ha reso celebre il luogo, salvo riportarlo alla fine della vicenda, opportunamente stampigliato. Nel frattempo l'esercito impone una quarantena e impedisce all'estemporanea comunità di lasciare il luogo finché la questione dell'incursione aliena non si chiarisce. Nel mentre, i personaggi interagiscono e, a secondo dei rispettivi retroterra, si svelano. Ma questa è solo la superficie, perché Asteroid City in realtà è una commedia teatrale in due atti (e mezzo), la cui difficile gestazione da parte dell'autore viene inizialmente raccontata in un elegante bianco e nero da Bryan Crainston e, successivamente, nella parte finale del film, sempre in bianco e nero, adattata per la televisione da Adrien Brody, il tutto con l'intervento di personaggi che diventano autori e viceversa, in un gioco di specchi che si inserisce a sua volta in una sorta di scatola cinese. Come spesso accade nei film di Anderson, un intreccio non proprio facile da seguire ma che risulta, alla fine, piuttosto chiaro e intellegibile, perché quello che importa non è la trama, esigua se non inesistente, quanto le sensazioni e gli spunti che dal dipanarsi della vicenda lo spettatore ricava: una serie di quadretti, alcuni fulminanti, apparentemente strampalati, ma che alla fine rimangono impressi perché non sono mai banali. La bravura degli interpreti non si discute, l'abilità del regista nemmeno, forse non è il film più entusiasmante di Anderson, ma siamo comunque sempre ad alti livelli, soprattutto in considerazione di quello che c'è in giro in questi tempi grami. A chi proprio non va giù il suo cinema, consiglio di andarsi a vedere qualcos'altro.

martedì 3 ottobre 2023

The Palace

"The Palace" di Roman Polanski. Con Oliver Masucci, Fanny Ardant, John Cleese, Mickey Rourke, Joaquim de Almeida, Luca Barbareschi, Milan Peschel, Fortunato Cerlino, Bronwyn James, Teco Celio, Olga Kent, Sydne Rome, Irina Kastrinidis, Matthew T. Reynolds e altri. Italia, Svizzera, Polonia 2023 ★★★★+

Un film può piacere o meno, sui gusti non si discute: del resto, il "pensiero dominante" ha fatto passare Barbie per una brillante parabola femminista e Oppenheim per un capolavoro, ma insinuare che con The Palace un genio come Roman Polanski, moralmente esecrabile sull'onda del bigottismo USA per i suoi (supposti) comportamenti privati, si sia ispirato ai "cinepanettoni" dei Vanzina fa cadere le braccia, o meglio i coglioni. A 90 anni e con una carriera come la sua alle spalle, Polanski può fare quel che vuole e lo fa comunque bene, anche quando si prende, per così dire, una "vacanza" e si diverte a fare la parodia dei film di genere e, al contempo, un ritratto puntuale e giustamente feroce sulla miseria umana della gentaglia a cui un sistema e un mondo malato consente di soggiornare in un posto come Gstaad, in Svizzera, in un albergo per milionari a festeggiare il Capodanno del Milllennio, quello del 2000, quando si temeva che le catastrofiche conseguenze di un supposto bug informatico al momento del cambio della fatidica data avrebbero mandato per aria il pianeta. Lo sguardo divertito e corrosivo del regista polacco, che ha scritto la sceneggiatura assieme a un altro gigante come il connazionale Jerzy Skolimovski e ad Ewa Piaskowska, si concentra sulla variegata quanto repellente fauna che si raduna per l'occasione nel lussuoso complesso, diretto dell'impeccabile Hansueli Kopf (Oliver Masucci, grande attore misconosciuto) che, con efficienza e precisione elvetica, riesce, col suo staff e non poco senso dell'ironia (nonché l'ausilio di sempre più frequenti sorsate di schnaps) a tenere sotto controllo una situazione che, considerata la tipologia della clientela, il cui comune denominatore è l'arrogante cialtroneria e volgarità dei ricchi potenti, degenera inevitabilmente nel caos più assoluto. Abbiamo una serie di carampane rifatte fino al midollo (tra le quali, Fifty Years After  la Sydne Rome che era stata protagonista di Che?,  altro film "fuori ordinanza" di Polanski, del 1972); Bongo, un attore già noto per le dimensioni del suo "batacchio" (Barbareschi, in questa occasione anche produttore); Fanny Ardant nei panni di un'altra riccona alle prese con le mefitiche deiezioni del suo orrendo cagnetto che fa indigestione di caviale; John Cleese nella parte del vecchio miliardario americano che ci rimane secco durante un rapporto con la giovanissima moglie e tenuto in vita apparente per non farle perdere l'eredità; un gruppo di "imprenditori" russi tipo oligarca di rara volgarità col loro seguito di puttane fameliche i quali assistono per TV al passaggio di poteri tra il loro protettore Eltsin e Putin, avvenuto proprio in quella data fatidica; il redivivo Mickey Rourke è un'altra canaglia, stavolta USA, che coinvolge un funzionario di banca svizzero in una truffa basata sull'aspettativa del "botto informatico"; il chirurgo estetico brasiliano Dottor Lima (Joaquim de Almeida)... Insomma dei prototipi da "Alta Società" dipinti con divertito furore, personaggi di raro squallore sui quali, dall'alto del suo senso dell'umorismo, il buon Roman non infierisce neanche più di tanto, limitandosi a deriderli, come meritano: Ruben Östlund, in Forza maggiore e nel più recente Triangle of Sadness, che con The Palace hanno parecchi punti di contatto, è stato molto più caustico e feroce. Pressoché ignorato anche al recente passaggio a Venezia, io ho trovato The Palace una pochade grottesca come i suoi personaggi, gustosa, irriverente, divertita: girata col sorriso (sardonico) sulle labbra ed esilarante per la parte di pubblico sulla stessa onda degli autori. Avercene, di loro emuli all'altezza...