sabato 30 novembre 2019

L'ufficiale e la spia

"L'ufficiale e la spia" (J'Accuse) di Roman Polanski. Con Jean Dujardin, Louis Garrel, Emmanuelle Seigner, Grégory Gadebois, Hervé Pierre, Didier Sandre, Wladimir Yordanoff, Mathieu Amalric. USA 2019 ★★★★★
Film perfetto: da un punto di vista formale e tecnico, perché quando alla ricostruzione storica di una vicenda intricata ed emblematica ci pensa un maestro come Roman Polanski si va sul sicuro; sia per le tempistiche e l'argomento, quanto mai attuale. Che non è, come potrebbe sembrare, l'antisemitismo - di cui, sicuramente, Robert Dreyfus, capitano d'artiglieria dell'esercito francese, fu vittima  quando, nel 1895 (guarda caso l'anno in cui  nacque ufficialmente, proprio a Parigi, il cinema con il primo film dei fratelli Lumière) venne degradato e condannato al confino in un isolotto della Guyana con l'infamante accusa di aver passato informazioni ai nemici tedeschi - ma piuttosto di principi etici: verità, giustizia ed equità. Principi in base ai quali il colonnello Georges Picquard (un ragguardevole Jean Dujardin), che ebbe come allievo Dreyfus alla scuola militare, una volta divenuto capo della Sezione Statistica, lo stesso ufficio che aveva montato il caso contro l'ufficiale, conduce nuovamente l'inchiesta quando si accorge che non solo il passaggio delle informazioni delicate ai tedeschi continua, ma che era basata su un documento falso che tutto l'apparato di potere, dai militari in quell'epoca imperanti, ai grafologi e alla magistratura avevano dato per buono pur sapendo che non lo era e occultando le prove a favore dell'accusato: ché la Ragion di Stato, nonché la convenienza personale, vengono prima di tutto. E questo nonostante Picquard non abbia alcuna simpatia per il personaggio, in verità odioso, né per gli ebrei in generale: verrà ostacolato in ogni modo sia dal governo, sia dai capoccioni dell'esercito (un gruppo estremamente ben assortito di ottimi caratteristi li interpreta in maniera esemplare) che lo hanno in pugno, sia dalla prevalente stampa che propala senza fare una piega quelle che oggi si chiamano fake news e contribuendo ad aizzare i peggiori istinti delle masse pronte a bersi di tutto, soprattutto a lanciarsi addosso al capro espiatorio di turno che le viene dato in pasto. Se la prenderanno con Picquard (che verrà allontanato dall'incarico e spedito per anni a fare ispezioni nelle varie guarnigioni sparse fra territorio metropolitano e colonie e poi perfino arrestato), con la sua compagna, perfino con Emile Zola e con quella parte della stampa che non ha fatto proprie le verità ufficiali. Ce l'avrà vinta, alla fine, il coraggioso Picquard, e con lui quei pochi, tra legali e intellettuali alla ricerca della verità senza farsi guidare dai pregiudizi, e diventerà perfino generale e ministro, dopo lo scagionamento e la riabilitazione Dreyfus, il quale invece di ringraziarlo gli chiederà di rimuovere una legge ingiusta che gli ha impedito di ottenere come risarcimento un avanzamento di grado: gli toccherà opporgli l'opportunità politica di non sostenere, in quel momento, l'abrogazione di una legge che lui stesso ritiene ingiusta, così come a suo tempo aveva ritenuto ingiusta la condanna di Dreyfus. C'è tutto, in questo film, comprese le motivazioni personali di Polanski, vittima da anni di accuse assai dubbie, e tanti aspetti su cui riflettere, a cominciare dalla manipolabilità delle masse da parte dei poteri di turno, in una pellicola attuale, profonda, in cui ogni dettaglio è curato alla perfezione e ha un suo significato, anche ironica e, in alcuni tratti, perfino leggera, perché il tocco grottesco in Polanski non può mancare. Da non perdere.

giovedì 28 novembre 2019

La famosa invasione degli orsi in Sicilia

"La famosa invasione degli orsi in Sicilia" di Lorenzo Mattotti. Con le voci di Toni Servillo, Antonio Albanese, Linda Caridi, Maurizio Lombardi, Corrado Guzzanti, Corrado Invernizzi, Andrea Cmilleri. Italia 2019 ★★★ +
Mattotti come disegnatore non si discute (peraltro in questo suo esordio nei cartoon si ispira al Buzzati pittore - oltre che giornalista e scrittore e, lo ricordo, autore di una delle prime graphic novel, come si suol dire oggi, mai pubblicate: Poema a fumetti, 1969 -) ma una cosa sono i disegni statici, si tratti di fumetti o copertina di riviste, e un'altra quelli animati, e questo spiega la mancanza di fluidità con cui scorre sullo schermo questa fiaba illustrata tratta dall'originale del grande autore bellunese del 1945, e la cui morale, nel suo lucido e preveggente pessimismo, è più che mai valida al giorno d'oggi: l'umanità è corrotta e come tale contamina tutto, anche i più puri. In questo caso gli orsi che, come racconta il cantastorie Gedeone, rifugiatosi dopo una copiosa nevicata assieme alla sua aiutante Almerina in una grotta presidiata proprio da un vecchio orso, e a cui viene propinata, un tempo avevano invaso le lande abitate dagli uomini. Accadde quando Leonzio re degli orsi, decise di recuperare il figlio Tonio, rapito da un gruppo di cacciatori umani, e scese a valle assieme ai suoi simili, anche perché a corto di cibo. Accolto a pallettoni dall'esercito del malvagio Granduca che governava, tiranneggiandoli, gli umani dell'isola, lo sconfisse dando vita a un regno in cui questi ultimi convivevano pacificamente con gli orsi. I quali, a cominciare proprio da Tonio, che venne ritrovato in un circo dove era stato ammaestrato a fare il ballerino, e dal vanitoso e ambizioso consigliere di Leonzio, Salnitro, ci avevano messo poco ad assimilare tutti i peggiori vizi degli umani. Meglio tornare sulle montagne, e alla vita da orsi, se il costo del "progresso" è la degenerazione. Ribadisco: Buzzati questo lo diceva, e disegnava, nell'anno in cui finì la Seconda Guerra Mondiale, qualcosa come 74 anni e mezzo fa. Favola per bambini a adulti, ben disegnata e molto colorata ma che ha qualcosa di ingessato che rende il cartone poco... animato. Comunque, un'idea meritoria per una trasposizione mai facile dell'opera di Buzzati, coi suoi tratti surreali e metafisici, sullo schermo.

lunedì 25 novembre 2019

Fischia la fine...


E' inevitabile, allo stadio, quando la propria squadra del cuore sta vincendo col minimo scarto, magari immeritatamente e con un gol segnato di straforo, e si cominciano a percepire, dal progressivo spostamento del baricentro del gioco verso la propria metà campo, le crescenti difficoltà a difendere il vantaggio, che si levi da più parti l'ironico, quanto accorato invito all'arbitro di fischiare anticipatamente la fine dell'incontro, anche quando si è appena al 20' del primo tempo: è un auto-sfottò, qualcosa che ha a che fare con la scaramanzia, malattia congenita che accomuna i tifosi di qualsiasi età, latitudine, credo, etnia, ceto sociale (motivo per cui non bisogna mai augurare a chi si accinge ad andare al campo a soffrire - perché di questo si tratta - "buona partita" o "divertiti": tutt'al più "che vinca il migliore" - immancabile la risposta, citando il compianto Paròn Nereo Rocco: "speremo de no"). Ecco, se un ipotetico direttore di gara, il supremo arbitro della Serie B fischiasse in questo momento la fine del torneo, giunto a un terzo del suo percorso, il piccolo, grande Pordenone, alla prima esperienza nella serie cadetta in cento anni di storia, in questo momento sarebbe secondo da solo in classifica dietro le Streghe del Benevento, e promosso direttamente in Serie A senza dover passare per i play-off. "Squadra rivelazione", "Sorpresa neroverde": fino a un certo punto, per chi segue i ramarri da qualche anno; "Miracolo Pordenone": miracolo un accidente, come ha ribadito ancora qualche settimana fa il presidente Mauro Lovisa: “In questi giorni  tanti ci associano la parola miracolo. Ma i miracoli non esistono nel calcio. I risultati, in questo caso straordinari (in continuità con il recente passato) e chiaramente sopra le aspettative generali, sono il frutto della programmazione, dell’organizzazione societaria e del lavoro di tutti. Di un progetto sportivo e sociale, con Tesser come straordinario valore aggiunto, in cui ci sono ruoli chiari e definiti. Non conosco altri segreti. Continuiamo così, insieme: club, staff tecnico, calciatori, tifosi e tutto il territorio che ci sostiene. La strada è ancora lunga”. Ecco: quello che manca è proprio l'ultimo aspetto, il territorio. Intendo la città, la sua amministrazione, i politici in generale (salvo alcune lodevoli eccezioni come l'ex sindaco Bolzonello), la gran parte degli imprenditori locali, la provincia in generale che, calcisticamente parlando, tranne il capoluogo, Caneva e Sacile, guarda piuttosto all'Udinese. Sul progetto del nuovo stadio, poi, tutto tace da oltre un mese, e tanti abbonati cominciano a pensare "manco mal", se la soluzione "di ripiego" per le gare interne, grazie a un accordo tra Lovisa e i Pozzo, è lo Stadio Friuli di Udine, alias Dacia Arena, probabilmente il migliore impianto attualmente disponibile in Italia, a 45 km dalle sponde del Noncello. Sabato, a ogni buon conto, pur sotto alla pioggia battente, a tratti di tipo monsonico, ho assistito non solo a una delle migliori prestazioni dei ramarri nell'ultimo quadriennio, ma a una delle partite più belle e soddisfacenti in assoluto degli ultimi dieci anni, specialmente il secondo tempo, quando ho visto all'opera una vera squadra, che è poi la caratteristica dei ramarri: quella di essere un gruppo estremamente coeso, e in particolare di tutte le formazioni allenate da Attilio Tesser, al di là della sua capacità unica di disporre in campo i suoi giocatori senza snaturare mai il gioco, sia nelle partite casalinghe sia in trasferta. Un'ultima notazione: nella rosa del Pordenone c'è un solo giocatore straniero, il terzo portiere, Jan Jurczac, un ragazzo polacco di 18 anni in prestito dall'Escola di Varsavia, perché non lo è Lucas Chiaretti, oriundo brasiliano con doppia nazionalità, e quasi la metà dei giocatori sono nati nel Triveneto (il capitano De Agostini e il centravanti Strizzolo sono di Udine); in quella dell'Udinese mi risultano tre soli italiani, nessuno dei quali nato da queste parti, e meno che mai proveniente da un vivaio un tempo tra i più prolifici (ora soltanto per i portieri). Un peccato. Quindi bravi ragazzi, grazie presidente e Forza, ramarri, Forza Pordenone! 

venerdì 22 novembre 2019

La Belle Époque

"La Belle Époque" di Nicolas Bedos. Con Daniel Auteuil, Fanny Ardant, Guillaume Canet, Dora Tillier, Maxime Drumont, Denis Podalydes, Pierre Arditi e altri. Francia 2019 💩
Premesso che chi mi conosce sa quanto i francesi mi stiano salvo rare eccezioni sui coglioni, chiariamo che più che di un film si tratta di uno spot pubblicitario della Apple. Anzi, di uno spottone della durata di 110 minuti che, dopo un solo quarto d’ora, fa scattare il bisogno di controllare compulsivamente l’ora, insieme alla tentazione di abbandonare anzitempo la postazione in sala, non fosse per la curiosità di sapere non tanto come va a finire (si capisce alle prime due battute, ossia al primo battibecco tra i due coniugi al centro della storia) ma fin dove può arrivare l’imbecillità dei franzosi. Che, tanto per fare, secondo il loro costume, i fenomeni con strumenti e modi al di fuori della loro portata come se vi avessero il massimo della confidenza (cosa che mi ricorda il tipico bauscisimo milanese, e ancor più brianzolo), utilizzano in questo caso il trucchetto del viaggio spazio/temporale (peraltro un classico del cinema americano che tanto denigrano oltralpe e da cui dicono di volersi distinguere) per imbastire una trama insulsa quanto intricata e cervellotica che racconta, in sostanza, la crisi di una coppia ormai giunta alle soglie della vecchiaia. Lui, Victor (un grande Daniel Auteuil, non ho alcuna difficoltà a riconoscerlo, la cui bravura è sprecata in questa pochade 2.0), è un disegnatore, famoso ai tempi per i suoi fumetti, licenziato dal giornale per cui faceva caricature (e che ormai pubblica solo on line), disincantato e fuori contesto in un ambiente famigliare dominato dalla moglie Marianne (la Ardant), la psicanalista di turno, ma proiettata al futuro, specie tecnologico, in tutte le sue sfaccettature, specialmente le più idiote e alienanti, pur di illudersi di averne uno e di essere ancora giovane e appetibile e che denigra il marito, che considera un noioso residuato del passato, e finisce per buttarlo fuori di casa. Succede però che Antoine, il migliore amico del figlio mammone della coppia (un altro yuppie della situazione), sia titolare dell'agenzia Time Traveller, specializzata nel ricostruire alla perfezione, a richiesta di una clientela danarosa quanto mentalmente turbata, epoche e situazioni del passato avvalendosi di tecnologia, studi di prova, scenografi e una pletora di attori che, in mancanza d'altro, si prestano a queste costosissime farse: siccome si sente in debito di riconoscenza con Victor per un aiuto avuto in passato che gli ha cambiato l'esistenza, gli offre un "giro" gratuito in questa giostra demenziale e, guarda caso Victor, il marito cornuto e mazziato ma uomo sostanzialmente sano in questa accolita di dementi ed egolatri, sceglie un giorno del maggio 1974 a Lione, ossia quello in cui ha casualmente incontrato Marianne in un bistrot chiamato La belle époque. Lì si innamorerà di nuovo, forse, dell'attrice che interpreta la Marianne d'allora, che a sua volta nella realtà è fidanzata, seppure a intermittenza, con Antoine, il boss della Time Traveller... Da lì una commedia di equivoci, battute qualche rara volta felici, per lo più però scontate; qualche spunto sul lavoro dell'attore e sullo squallore dei rapporti umani nell'era dei social, che potrebbe perfino essere interessante se non si perdesse in un mare di chiacchiere, mossette e ammiccamenti da asilo infantile; infine l'inevitabile happy end, a sua volta di marca yankee. Una roba da poaréti, insomma, poco sopra il livello dei nostri pecorecci cinepanettoni, ma ancora più deprecabile perché insopportabilmente pretenziosa. Tipico prodotto francese, che non merita nemmeno le consuete "stelline": devo però ammettere che hanno degli attori fenomenali nell’interpretare personaggi odiosi, a meno di non essere così stronzi al naturale da non dover fare alcuno sforzo per sembrarlo, come, una per tutti, la Deneuve (ma non Auteuil, che è un gigante per davvero: mi spiace per lui che abbia partecipato a questa pagliacciata).

martedì 19 novembre 2019

Le Mans '66 - La grande sfida

"Le Mans '66 - La grande sfida" (Ford vs Ferrari) di James Mangold. Con Christian Bale, Matt Damon, Caitrionsa Balfe, Jon Bernthal, Josh Lucas, Tracy Letts, Remo Girone, Franscesco Bauco, e altri. USA 2019 ★★★★
E così, dopo essermi gustato le meravigliose berline anni Cinquanta sul grande schermo in Motherless Brooklyn senza dover prendere l'aereo per l'Avana per vederle ancora girare dal vivo, ecco i mostri su pista degli epici scontri fra produttori nei ruggenti anni Sessanta: in questo film il racconto di come la Ford ruppe il dominio della Ferrari nelle corse di prototipi (a gomme coperte) facendo tripletta alla 24 Ore di Lemans nell'edizione del 1966. Stanco di  essere sconfitto dalle auto del Drake, alla fin fine il prodotto artigianale di una piccola industria modenese dove tutto veniva fatto a mano, Henry Ford II, ossia l'emblema della catena di montaggio e della produzione in serie, decise di affidare la costruzione di una macchina in grado di sfidarlo a Carroll Shelby (qui Matt Damon), già pilota automobilistico texano e vincitore a Le Mans 1959 su Aston Martin e, in seguito a problemi cardiaci, costruttore di auto sportive, il tutto in dieci mesi: questi accettò, a patto che a occuparsi della progettazione, del collaudo e a condurla in pista fosse l'amico e pilota Ken Miles (il sempre camaleontico e grandissimo Christian Bale), un abilissimo e appassionato tecnico inglese naturalizzato americano dal carattere scorbutico, poco propenso ad accettare ordini, determinato: uno che durante la Seconda Guerra Mondiale comandava carri armati ed era arrivato fino a Berlino. Riuscì a convincerlo, anche perché nel frattempo l'officina di cui Miles era titolare era sull'orlo del fallimento, e di come riuscirono nell'impresa è narrato in questo film. Trattandosi di una pellicola americana, l'ottica è ovviamente manichea e nazionalista, il taglio schematico e la ricostruzione della vicenda piuttosto approssimativa, prendendosi le sue belle licenze, a cominciare da quella della presenza di Enzo Ferrari ai box del circuito francese, ma avendo due grandi meriti: l'aver reso omaggio alla figura di Miles, un pilota dimenticato (peraltro derubato della vittoria a Le Mans per una lettura capziosa del regolamento di gara a opera degli stessi dirigenti della Ford) e un altro "artigiano" senza cui la mitica G-40 non sarebbe mai esistita, e con lui a Shelby, un Enzo Ferrari in piccolo, per i quali la passione era più importante del fatturato, e messo il dito nella piaga della logica di puro marketing che stava dietro a tutta l'operazione voluta da Ford, che non ne esce per niente bene, a cominciare dalla figura del suo sommo capo (fulminante la battuta del Drake che, rispetto al fondatore Henry Ford I, lo riteneva nient'altro che un "numero due"). La pellicola è girata con buon ritmo, le riprese delle corse e i relativi dettagli sono appassionanti e colgono nel segno, all'altezza di quelle viste in Rush, l'atmosfera d'epoca è ricreata in maniera credibile, capace quasi di evocare il tipico odore di officina, un vero elisir per gente come Ken Miles e i suoi epigoni a ogni latitudine, tutt'altra cosa rispetto alle asettiche gare di F1 del giorno d'oggi, gare di durata, con Prototipi o Grat Turismo, vere maratone di resistenza per macchine e piloti come Le Mans o Daytona, erano e rimangono tutt'altra cosa. 

domenica 17 novembre 2019

I flagelli della Laguna


E avanti, e ancora, imperterriti. In mezzo alla Laguna, fra il pattume e gli escrementi veleggiavano pure degli stronzi in carne e ossa. Cosiddette "autorità" acquiescenti; un'informazione indecente, complice e corriva; una cittadinanza di una pazienza bovina e che confina con l'imbecillità autolesionista, hanno consentito l'ennesima ripugnante passerella dopo l'ultima acqua granda che ha flagellato Venezia, la seconda della storia, con un picco di 187 cm registrato martedì scorso (erano 194 il 3 novembre del 1966) alla classe politica e dirigente che è la prima responsabile di aver sostenuto un'opera non solo discutibile, ma che dopo 16 anni dall'inizio dei lavori (2° governo Berlusconi: con Renato Brunetta - chissà che casso ga da rider, 'sto mona - e l'attuale sindaco Luigi Brugnaro nella foto che  immortala il brianzolo giovedì scorso in una Piazza San Marco chiusa al pubblico) non è ancora stata completata. "Sarebbe una follia pura non finire in fretta il Mose e non metterlo in funzione", ha detto l’ex premier che, da presidente del Consiglio, nel 2003, posò la prima pietra del Mose, opera non ancora finita. "La partita del Mose è decollata sotto il mio governo, me lo ricordo benissimo - ha aggiunto -. Venimmo qui anche per dare una spinta alla velocità dei lavori e alla fine furono assolutamente tutti convinti che le cose erano così avanti che bisognava continuare". Appunto, le stesse cose ridette oggi: "Siamo al 92-93%, e guardando all'interesse pubblico non c'è che da prendere una direzione nel completamento di questo percorso", così l'attuale presidente del Consiglio Giuseppe Conte ma pure Matteo Salvini, accorso anche lui sul cadavere della un tempo Serenissima. Eccerto, a questo punto tanto vale finirlo, come ha ribadito Massimo Cacciari, tre volte sindaco della città e che è stato uno dei pochi a opporsi alla realizzazione del faraonico progetto. Intanto i collaudi del Mose che, ricordiamolo, è l'acronimo per Modulo Sperimentale Elettromeccanico (capito? sperimentale: questa è stata la scelta geniale per affrontare una situazione endemica, a prescindere da ogni discorso su una crisi - e non "emergenza" - climatica ormai conclamata), sono stati rinviati, se tutto va bene, al 2021. E così Luca Zaia, il supervotato governatore del Veneto, paladino dell'autonomia (ma coi soldi di Roma), il quale afferma che "è una porcheria che 5 miliardi di euro siano in fondo al mare: finiamo il Mose, anche se non lo avrei mai approvato". Peccato sia al secondo incarico, succeduto a Giancarlo Galan, di cui fu vice nell'ultimo dei tre mandati da governatore (dal 1995), coinvolto nel giro di tangenti che ruotava attorno all'ennesima Grande Opera e che, naturalmente, ora si "chiama fuori". Anche Zaia, come il suo mentore, gioca allo scaricabarile. Eppure tutti ci hanno mangiato, anche a sinistra, come ha opportunamente ricordato l'ex magistrato veneziano ed ex parlamentare ulivista Felice Casson. Per quanto mi riguarda, su questo blog, del più che prevedibile, ed evitabile, tracollo di Venezia ne ho parlato qui, qui e qui e non mi va di ripetermi, tanto mi è chiara la situazione, tra cause, effetti nonché responsabilità, e in questa occasione mi limito a riproporre quanto ne ha scritto Paolo Cacciari, fratello di Massimo, sul Fatto Quotidiano di venerdì 15:
Non prendiamoci in giro. Il riscaldamento climatico globale è un flagello epocale, ma non usiamolo come paravento per coprire una storia che ha ben determinate responsabilità locali. La distruzione della laguna di Venezia (e quindi della città insulare storica che con la laguna vive in simbiosi) viene da lontano e deriva da precise scelte di politiche economiche e di pianificazione territoriale che continuano imperterrite. L’aumento del numero e della forza delle maree è provocato solo in parte dall’eustatismo (aumento del livello medio del mare). Il resto è tutta opera nostra!
La laguna ha una superficie di 550 km quadrati. È uno straordinario ecosistema formato da bassi fondali (barene, velme, ghebi, valli ecc.) che reggono, avvolgono e proteggono le isole edificate dagli eventi marini esterni. Le colossali opere idrauliche costruite nei secoli dalla Repubblica di Venezia (deviazione dei fiumi a monte e “murazzi” a mare) hanno sempre seguito questo criterio: non esporre Venezia alle mareggiate ed evitare gli interramenti. Con l’avvento dell’era industriale e il prevalere degli interessi portuali, che dura fino ai nostri giorni con il business della crocieristica, si è fatto esattamente il contrario: si è ristretta la laguna e si sono approfonditi i canali marittimi che regolano i flussi mare/laguna innescando una erosione dei fondali (mezzo milione di metri cubi di sedimenti all’anno) che ha trasformato la laguna in un braccio di mare. Il punto più profondo dell’Altro Adriatico lo si trova in laguna, al Faro Rocchetta: una fossa profonda più di 50 metri in cui si pescano ostriche!
Le conseguenze le abbiamo viste anche l’altra drammatica notte. Non siamo più in presenza di “acqua alta” (che cresce lentamente), ma di una violenta onda di marea. L’acqua sospinta dal vento di scirocco non trova più ostacoli lungo il suo percorso (bassi fondali e terre emerse) in entrata in laguna attraverso le tre bocche di porto (Lido, Malamocco e Chioggia) e diventa un fiume in piena che si infrange sulle fragili rive, sulle fondamenta e sulle fondazioni della città.
Il Mose era sbagliato anche prima di diventare un’opera corruttiva (e proprio per questo motivo aveva bisogno di corrompere gli organi tecnici e politici dello Stato). La scelta progettuale derivava dal fatto di non disturbare gli interessi dei traffici marittimi e di consentire a navi sempre di grandi di entrare in laguna.
Gli ambientalisti lo dicono da sempre: la prima opera di “adattamento” volta ad aumentare la “resilienza” dell’ecosistema veneziano dovrebbe essere il piano morfologico di rinaturalizzazione della Laguna di Venezia, la creazione di un parco nazionale naturale (che il sindaco Brugnaro ha ben pensato di abrogare), la immediata fuoriuscita delle navi dalla laguna, la bonifica di Porto Marghera.
Amen

venerdì 15 novembre 2019

Motherless Brooklyn - I segreti di una città

"Motherless Brooklyn - I segreti di una città" (Motherless Brooklyn) di Edward Norton. Con Edward Norton, Bruce Willis, Gugu Mbatha-Raw, Alec Baldwin, Daniel Defoe, Cherry Jones, Josh Pais, Olli Haaskivi, Bobby Cannavale, Michael Kenneth Williams e altri. USA 2019 ★★★★½
Oltre le più rosee previsioni: per chi ama il noir, in un'atmosfera d'altri tempi (che io definirei "chandleriana"), Motherless Brooklyn è un film da non perdere, per il ritorno alla regìà, a vent'anni di distanza da Tentazioni d'amore, di Edward Norton, uno degli attori più completi e poliedrici della sua generazione, che qui interpreta Lionel Essrog, un detective privato con disturbi della personalità (sindrome di Tourette) che lavora nell'agenzia di Frank Minna (un misurato Bruce Willis, ideale nel ruolo), che lo ha tolto dall'orfanotrofio dove era finito in balìa di suore sadiche dopo la morte della madre all'età di sei anni, e che proprio nella sua straordinaria attitudine a ricordare ogni dettaglio e ogni parola (magari ripetendola nei suoi incontrollabili tic) intravede uno grande talento per l'osservazione e l'indagine: è lui che lo ha soprannominato Brooklyn (perché da lì proviene), mentre i colleghi lo chiamano Fenomeno. La pellicola, tratto dall'omonimo romanzo di Jonathan Lethem, ma retrodatato nella New York degli anni Cinquanta anziché Novanta, racconta la ricomposizione da parte di Lionel, in quella sua testa che va per conto suo e che gli parla come da fuori, dei fili dell'indagine che stava svolgendo il suo capo, mentore e unico amico prima di rimanere ucciso, al fine di scoprire autori e mandanti dell'omicidio. In una città, e un quartiere, in piena mutazione come Brooklyn, preda delle mire di speculatori senza scrupoli che si annidano nel cuore dell'amministrazione cittadina (i rimandi all'immortale Chinatown sono palesi e voluti, ma stavolta siamo sulla East invece che sulla West Coast: la cosiddetta gentrificazione ha lì le sue origini), in quest'opera di ricostruzione della trama, che lo condurrà nei diversi ambienti della città, dalle sue viscere (i fumosi jazz club di Harlem, dove furoreggia il cool jazz con personaggi che ricordano Miles Davis, John Coltrane e altri di quel calibro: la colonna sonora è all'altezza) ai piani alti, dal Municipio alla Bridge Authority, Lionel riuscirà a scoprire i colpevoli e i dettagli della ramificata manovra corruttiva che coinvolge politici, lobbisti e immobiliaristi, e troverà insieme l'amore in Laura, una giovane attivista di origine afroamericana e non solo (e qui sta la sorpresa finale). Un cast d'eccellenza e che interagisce alla perfezione, fotografia eccezionale, quel tot di nostalgia per quelle meravigliose macchine d'epoca e per la grande musica di allora e ritmo sincopato come la colonna sonora: funziona tutto, a cominciare da Edward Norton, non nuovo nei panni di personaggi affetti da psicopatie e che riesce a non diventare mai caricaturale, e del tutto convincente davanti come dietro la macchina da presa. 

mercoledì 13 novembre 2019

Parasite

"Parasite" (Gisaenchung) di Bong Joon-ho. Con Song Kang-ho, Sun-kyun Lee, Yeo-jeong Jo, Choi Woo-Sil, Park So-dam, Hyae Jin Chang. Corea del Sud 2019 ★★★★★
Primo film coreano a vincere, con pieno merito, la Palma d'Oro all'ultimo Festival di Cannes, Parasite è un film geniale, perfetto, a momentaneo coronamento della già fulgida carriera di Bong Joon-ho e a confermare l'altissimo livello della cinematografia di quel Paese nel suo insieme: autori, interpreti, tecnici. Tema del regista, in questa occasione come nel notevole Snowpiercer, le differenze e la conseguente lotta di classe: in quell'occasione a svolgimento orizzontale (il treno), in questa verticale, e in entrambi i casi con uno sfondo claustrofobico dominante. Stavolta si comincia con un sordido sotterraneo nei bassifondi di Seoul dove vive, in un'atmosfera di solidale armonia, pur nelle ristrettezze e nella miseria, la famiglia Kim, che si arrabatta con lavoretti vari per integrare un miserevole sussidio di disoccupazione; la svolta c'è quando un amico del più giovane, che sta per andare a studiare all'estero, gli propone di sostituirlo come insegnante d'inglese presso una ricca famiglia dei quartieri alti, cosa che gli riesce grazie alla sua raccomandazione e a dei documenti falsificati dalla sorella, un vero talento nell'arte digitale (e applicata). Presto diviene un beniamino della famiglia Park: sia della ragazza a cui insegna, che si innamora di lui, sia della madre una giovane donna "bene" svampita quel che basta e completamente incapace di accudire chicchessia, né i tre orridi cagnetti di cui si circonda, e tantomeno il figlio minore, un piccolo tiranno che soffre di crisi epilettiche dopo aver visto un fantasma (che si rivelerà non essere tale) il giorno del suo sesto compleanno: nelle debolezze di quest'ultima il giovane insegnante intravede uno sbocco per la sorella, che si inventerà un curriculum di art-therapist negli USA senza svelare i legami di parentela col fratello; con la stessa tattica, il raggiro astuto e l'imnpostura, verranno sostituiti l'autista personale del signor Park, un imprenditore di successo, dal loro padre e pure, dalla madre (sempre in incognito), la vecchia governante della bellissima casa, che la ricca coppia ha ereditato dal precedente proprietario, un famosissimo architetto coreano: i "parassiti" del titolo si sono incistati dunque con successo rendendosi indispensabili all'esistenza della famiglia Park, e fin qui siamo arrivati a metà film, ma proprio quando i Kim, in assenza dei padroni, stanno festeggiando sbronzandosi tutti insieme allegramente nel bel salone minimalista della magione, ecco emergere i fantasmi del passato, ossia la ex governante che nasconde un segreto nei sotterranei della casa, di cui lei sola conosce l'esistenza, un bunker costruito dal progettista contro eventuali attacchi atomici dai vicini del Nord... e si scatena una guerra tra poveri senza esclusione di colpi, perché c'è sempre "qualcuno che è il terrone di qualcun altro" con una resa dei conti che non risparmia nessuno, il tutto in un crescendo parossistico in cui la fantasia del regista e il suo gusto per il grottesco si scatena, culminando in occasione della festa di compleanno del viziatissimo bambino epilettico che diventa un furibondo campo di battaglia nello stile del Tarantino più scatenato; eppure il finale non sarà quello che si può immaginare e, nonostante lo squallore dominante, è pieno di saggezza e moralità. Spettacolo, irriverenza, acutezza in una pellicola tecnicamente impeccabile, un ritmo incalzante e un'attenzione al dettaglio da elogiare, eccezionali sia la fotografia sia la scelta degli interpreti: accanto al grande e già noto da noi Song Kang-ho tutti i suoi colleghi sono all'altezza, e Parasite è un grandissimo film d'autore e al contempo popolare, in grado volare sia alto sia basso e di parlare a chiunque. E far riflettere.

lunedì 11 novembre 2019

Gli uomini d'oro

"Gli uomini d'oro" di Vincenzo Alfieri. Con Fabio De Luigi, Edoardo Leo, Giampaolo Morelli, Giuseppe Ragone, Mariela Garriga, Susy Laude, Matilde Gioli, Gianmarco Tognazzi e altri. Italia 2019 ★★★½
Secondo, convincente film del giovane Vincenzo Alfieri, dopo I peggiori, che prende spunto da un fatto davvero avvenuto nell'estate del 1996 nel Torinese, quando alla direzione delle poste si accorsero che i sacchi che avrebbero dovuto contenere valori erano stati riempiti di pagine di vecchi fumetti (peccato, per i geniali autori del classico "colpo grosso", eseguito con astuzia e sangue freddo e senza l'uso di armi, che il bottino fosse costituito prevalentemente da titoli non smerciabili e relativo poco contante), a dimostrazione che anche in Italia si possono fare film che sono d'azione ma non solo: ritrae un periodo, una città, le sue contraddizioni, ambienti diversi, rappresentati dai protagonisti della vicenda, che raccontano la storia, in tre capitolo distinti, a secondo del loro punto di vista. C'è Luigi (Morelli), detto il Playboy, napoletano estroverso, autista di furgoni portavalori, a cui il Governo Dini ha appena allungato di 10 anni il termine per andare in pensione, quando gli mancavano tre soli mesi, e già si sognava in Costarica a gestire un chiringuito acquistato con il TFR; Alvise (un sorprendentemente bravo De Luigi, cui si addice il ruolo di cattivo), il suo compagno di lavoro, quello che propriamente porta i sacchi contenenti i valori, detto il Cacciatore, piemontese rancoroso, irascibile e introverso, che si arrabatta in mille attività collaterali lavorando senza tregua per mantenere in un decoro piccolo borghese la famiglia (stupendo il dettaglio del copritelefono in raso verde, con l'apparecchio dotato di lucchetto per indurre moglie e figlia al risparmio), che ha l'idea di come compiere il furto; Nicola detto il Lupo (Leo, che miracolosamente riesce a dominare la cadenza romanesca) un ex puglie con cui Alvise gestisce una birreria in periferia; ma personaggio di primo piano è anche Luciano, un ex postino baby pensionato (un bravissimo Ragone), che divide l'appartamento con Luigi il quale riesce a convincerlo a partecipare al colpo, divenendone l'elemento decisivo: piccolo com'è può nascondersi in una cassaforte inutilizzata e procedere allo scambio tra sacchi veri e scamuffi durante le pause, circa 10', tra una tappa e l'altra del percorso che il furgone compie, accompagnato da una volante, quotidianamente. La storie è raccontata con brio, colpi di scena, dove protagonisti sono una anche una Torino cupa, settentrionali contro meridionali, torinisti contro juventini, un ricettatore e strozzino (chiamato Boutique, Tognazzi) che agisce dietro il paravento di sarto di lusso, donne insospettabilmente forti a far da contrappunto a maschi apparentemente duri ma in realtà insicuri. Tanti spunti originali ma anche un debito con i fortunati film della serie Smetto quando voglio (da cui eredita tre degli interpreti), buona colonna sonora, suggestiva la fotografia: la dimostrazione che si possono fare dei noir originali, spettacolari e non banali. 

sabato 9 novembre 2019

Il segreto della miniera

"Il segreto della miniera" di Hanna Antonina Wojcik-Slak. Con Leon Lučev, Marina Redžepović, Zala Djurić Ribić, Boris Cavazza, Maj Klemenc, Tin Marn, Nikolaj Burger. Slovenia-Bosnia Erzegovina 2017 ★★★★★
Dopo essere stato presentato nel 2018 al Trieste Film Festival, dove è stato premiato dalla Giuria Giovani, è apparso finalmente nelle sale Il segreto della miniera, cui sarebbe stato più opportuno e meno fuorviante conservare il titolo originale, Rudar, che tradotto significa Il muratore: un film magnifico, essenziale, toccante, tratto da una storia vera, raccontata nell'autobiografia dal minatore bosniaco Mehmedalija Ali No one, pubblicata nel 2013: una vicenda di morti cancellate, di desaparecidos, di rimozione della memoria, che si ripete nel tempo, oggi come ieri, tragicamente e ciclicamente, ovunque. E' il 1995 quando l'adolescente Alja Bašić, nel corso del conflitto jugoslavo, lascia il suo villaggio, e l'amata sorella Mirsada, in Bosnia per emigrare in Slovenia, dove rimarrà, come centinaia di altri conterranei, a lavorare in miniera, formandosi una famiglia. Nel 2007, nel pieno di un periodo di conversioni industriali e ristrutturazioni societarie, proprio lui verrà incaricato, per la sua esperienza, di ispezionare una miniera di carbone chiusa dalla fine della seconda guerra mondiale e stilare un rapporto che certifichi che è vuota, prima che i nuovi amministratori (i tipici, arroganti mannagger e tagliatori di teste uguali dappertutto) la mettano in vendita. Peccato che vuota non è, perché Alja Bašić, così si chiama il minatore magnificamente interpretato da Leon Lučev, vi scopre le fosse che contenevano i resti di oltre 4000 rifugiati civili, e non militari nazisti o collaborazionisti come qualcuno aveva fatto intendere, minimizzando, spediti dagli inglesi dai campi profughi in Austria verso Trieste e rimasti vittime di una strage compiuta dai vincitori nella località della Slovenia centrale in cui è stata mirabilmente girata la pellicola dalla regista Hanna Slak. La polizia, le autorità e la popolazione locale sanno, ma tacciono: salvo l'anziano Lojze, un emigrato in Australia di ritorno che in quella oscura e dimenticata vicenda ha perso una parte della famiglia, per anni alla ricerca delle prove. Pur invitato a lasciar perdere, e poi minacciato, Alja continua a estrarre dalla miniera e ad accumulare testimonianze della sua scoperta: indumenti, scarpe, trecce di capelli, e denuncia immediatamente i ritrovamenti alle autorità, che però prima cominciano a far sentire il fiato sul collo a lui e alla famiglia per questioni burocratiche pretestuose (viene qui accennata la vergognosa vicenda degli izbrizani, raccontata nell'altro bel film presentato al Trieste Film Festival di quest'anno, I cancellati) fino ad arrestarlo. Alja però non abbasserà la testa, questa volta, e troverà il modo e la forza di spiegare alla figlia Elma, peraltro coinvolta nelle proteste di lavoratori e studenti che nel decennio scorso hanno percorso la Slovenia, i motivi della sua ostinazione, ossia che è l'unico superstite maschio della strage di Srebrenica, avvenuta nel 1995, in cui la sorella Mirsada, divenuta nel frattempo maestra di scuola, perse la vita per aver tentato di salvare i suoi alunni. Lo chiameranno anche un film minimalista, ma è un gioiello raro, un film potente come pochi, asciutto, intenso, vero. Chi ne è l'autore, e anche chi lo interpreta, sa di cosa parla. E usa un linguaggio universale, comprensibile per chi vuol capire, e non dimenticare.

giovedì 7 novembre 2019

Downton Abbey

"Downton Abbey" di Michael Engler. Con Hugh Bonneville, Jim Carter, Michelle Dockery, Allen Leech, Robert James-Collier, Elizabeth McGovern, Maggie Smith, Imelda Staunton, Penelope Wilton, Tuppence Middleton, Brendan Coyle e altri. GB 2019 ★★★½
Pur essendo un buon fruitore di serie televisive, non ho mai visto finora una puntata di Downton Abbey, produzione britannica di 52 puntate per 6 stagioni, che narra le vicende ambientate in piena Belle Epoque, tra il 1912 e il 1926, dell'aristocratica famiglia Crawley, proprietaria terriera e di una sontuosa dimora nello Yorkshire e della sua numerosa servitù, di cui questo film dello stesso autore, e con pressoché per intero il medesimo cast, è il sequel collocato nel 1927, quando si immagina che la coppia reale, ossia Giorgio V e la regina Mary, i nonni dell'attuale Elisebetta II, abbia soggiornato nel maniero in occasione di una parata e di un ballo per un giorno e una notte, portando con sé il proprio esercito di lacché e addetti alle varie funzioni, i quali entreranno inevitabilmente in conflitto con la servitù locale dei Crawley, che farà del suo meglio per dimostrare, come i suoi padroni, di essere all'altezza della situazione. Nulla che valga la pena di svelare sulla trama: si tratta del consueto autoincensamento da parte degli inglesi di sé stessi e dei bei tempi andati e di una giustificazione del loro innato classismo che perlomeno ha il pregio dell'autoironia e di un umorismo tutto particolare e quasi universalmente apprezzato. Se lo si prende come un divertissement, quale è, considerata la dimestichezza britannica con l'argomento, la capacità di raccontare storie, la tradizione teatrale e l'altissimo livello degli interpreti e l'abilità nel promuovere quello che da sempre è il primo prodotto d'esportazione delle isole d'Oltre Manica, ossia la Famiglia Reale, il film è quanto di più godibile e rassicurante si possa immaginare, e quindi il modo ideale per trascorrere due ore rilassanti in una sala cinematografica, unendo l'utile di ascoltare e ripassare la lingua di Shakespeare non deturpata da pronunce che la rendono indigesta come quella americana, australiana o di altri territori del Commonwealth, al dilettevole di una commediola ben fatta, con un'attenzione ai dettagli maniacale nell'ambientazione d'epoca come nel linguaggio utilizzato dai diversi personaggi a seconda della classe d'appartenenza; scambi di battutte intelligenti e a volte fulminanti; l'inevitabile happy end (anzi: un happy end multiplo, dato che tutte le sottostorie hanno il migliore degli esiti possibile, che peraltro sono forieri di un ulteriore sequel su grande schermo). L'ironia vuole che la Royal Family, il massimo del brit sia d'origine tedesca; che il film si chiuda con un ballo sulle note di walzer viennesi e che gli altri due maggiori prodotti d'esportazione dal Regno Unito da un secolo in qua siano una band musicale di Liverpool i cui due fondatori, Lennon e McCartney, sono di chiare origini irlandesi e la Mini Minor, progettata da un greco, l'ignegner Issigonis. 

martedì 5 novembre 2019

L'uomo del labirinto

"L'uomo del labirinto" di Donato Carrisi. Con Toni Servillo, Dustin Hoffman, Valentina Billè, Vinicio Marchioni, Caterina Shulha, Orlando Cinque a altri. Italia 2019 ★★★½
Se possibile, la trama, circolare e anzi labirintica come la realtà (virtuale?) in cui si è ritrovata Samantha Andretti, un'adolescente rapita e tenuta prigioniera per 15 anni nelle mani di un sequestratore in vena di mental games (un po' come Carrisi stesso...), è ancora più intricata che nel film d'esordio del regista e autore, anch'esso tratto da un suo romanzo, La ragazza nella nebbia; anche in questo caso abbiamo a che fare con una misteriosa sparizione, e con una doppia indagine: quella condotta da un investigatore privato in fin di vita, Toni Servillo nei panni di Bruno Genco, specializzato in recupero crediti e sopraffatto dai sensi di colpa per non essere riuscito ad aiutare la famiglia che l'aveva incaricato di ritrovare la figlia, dopo che viene annunciato che Samantha era stata ritrovata, e quella svolta da uno psichiatra, nelle vesti di profiler, un Dustin Hoffman all'altezza della sua fama nei panni del dottor Green, nella mente della giovane donna, ricoverata dopo essere stata ritrovata in una palude, con una gamba rotta e, a dire del medico, imbottita di sostanze psicotrope in grado di alterare i suoi ricordi, alla ricerca ci chi l'abbia tenuta prigioniera. Visto che è inutile, oltre che improbo, tentare di fare un sunto della vicenda, riguardante tutta una serie di sparizioni di "figli del buio" che, una volta ritrovati dopo essere stati rapiti, sembrano essere rinati lasciando sconcertati gli stessi genitori, e lascia aperta la strada a interpretazioni diverse anche dopo aver visto il film, tanto vale concentrarsi sull'esito di questa seconda avventura cinematografica di Carrisi, che a mio parere è di livello molto buono anche se non mi ha così coinvolto e colpito come la precedente, nel qual caso ha però contato molto l'effetto sorpresa. Qui mi è piaciuta, oltre alle interpretazioni di Servillo, Hoffman e Marchioni (meno convincente quella degli altri, specialmente della Billè), l'ambientazione in un tempo sospeso, in una realtà a tratti distopica, in un'epoca che fluttua tra un futuro immediato, il presente e un passato che ricorda atmosfere che vanno dagli anni Trenta, come nei gialli chandleriani, agli anni Settanta passando per i Cinquanta; una fotografia estremante efficace, a tratti sgranata e dai colori saturi, un ritmo sostenuto accompagnato da una colonna sonora costruita con effetti e suoni che contribuiscono a tenere alta la tensione. Magari alla fine ci si raccapezza poco ma l'emozione è assicurata e il risultato voluto dal regista è ottenuto l'attenzione rimane viva fino all'ultimo, e si esce dalla sala soddisfatti. 

domenica 3 novembre 2019

L'età giovane

"L'età giovane" (Le jeune Ahmed) di Jean-Pierre e Luc Dardennne. Con Idir Ben Addi, Olivier Bonnaud, Myriem Akheddiou, Victoria Bluck, Claire Bodson e altri. Belgio 2019 ★★★½
Apposta sono andato a vedere un film come Sole che la critica militonta fa rientrare nel genere dardennesco, con l'ultimo film dei due letali fratelli belgi: il cui immutabile stile minimalista (nella recitazione degli interpreti, nell'ambientazione, per una volta meno sordida del solito) si conferma ancora una volta pur se il consueto schema, colpa/confessione, in questa occasione viene sostituito da un tema di sicura attualità nel loro Paese così come in Francia: la radicalizzazione in senso islamista di giovani cittadini, ormai europei a tutti gli effetti, che non si possono nemmeno più definire immigrati di seconda o terza generazione. Per quanto in maniera schematica e didascalica, questa volta lo fanno senza moralismo e condiscendenza nel confronti del personaggio principale, il giovane Ahmed del titolo originale, un tredicenne cresciuto in una famiglia normalissima irretito da un imam che lo mette contro la sua insegnante (laica) di arabo, definita un'apostata perché intenzionata a insegnare la lingua utilizzando strumenti diversi dal solo corano e, come se non bastasse, convive con un ebreo. Ci riesce in poco tempo perché Ahmed vive nel mito di un cugino morto martire del jihad, da qualche tempo segue ossessivamente tutti i rituali della religione musulmana e non esita a definire puttana la sorella maggiore che non usa il velo e la madre, presumibilmente cristiana, che considera un'alcolizzata e infedele perché beve un po' di vino a pasto, e un debole il padre, di cui è rimasto orfano, per non essere stato in grado di educarle adeguatamente e correggerle in tempo: fatto sta che decide di agire da solo e accoltella, ferendola, l'insegnante. Finisce in una sorta di riformatorio dove educatori e psicologi non riescono a schiodarlo dalle sue posizioni anche se lui finge di aver compreso la gravità del suo gesto e mostra segni di ravvedimento, soprattutto dopo che viene mandato ad aiutare una famiglia di contadini che alleva animali (magistrale ed emblematica la descrizione di come interagisce con loro) in una fattoria e coltiva i terreni circostanti; lì conosce Louise, sua coetanea, e ha i primi turbamenti adolescenziali: il suo credo ostinato sarà più forte della tempesta ormonale, alla proposta di un bacio da parte della ragazza risponderà con la richiesta di diventare musulmana, e quando si presenterà l'occasione andrà a cercare di completare l'opera tentando di accoppare la malcapitata insegnante dopo aver provato a entrare nella sua abitazione scavalcando un davanzale: finisce per cadere di schiena e benché si intuisca che con buone probabilità rimarrà paralizzato, francamente non sono riuscito a provare una gran pena (i Dardenne come sempre, e questa volta per fortuna, scelgono protagonisti incapaci di suscitare la benché minima empatia). Com'è stato detto, il film vuole essere una critica ai cattivi maestri che manipolano i più giovani ed esposti, ma lo è anche nei confronti di una religione particolarmente intollerante e invasiva. Parente stretta peraltro delle altre due che derivano dal Libro. E di ideologie convinte di poter forgiare l'Uomo Nuovo,  rifiutandosi di fare ci conti con quel che è. Per una volta, sufficienza piena.

venerdì 1 novembre 2019

Sole

"Sole" di Carlo Sironi. Con Sandra Drzymalska, Claudio Segaluscio, Bruno Buzzi, Barbara Ronchi, Vitaliano Trevisan e altri. Italia, Polonia 2019 ★★★★+
Felice e promettente esordio nel lungometraggio di Carlo Sironi, che già si era fatto notare per i "corti" Valparaiso e Cargo, peraltro figlio d'arte, e precisamente di Alberto Sironi, il "padre" di Monatlbano; e di paternità, e maternità surrogate, parla il film, presentato e accolto con favore all'ultima Mostra del Cinema di Venezia. La vicenda, al limite ma purtrroppo verosimile, è quella che vede coinvolti due giovani di poco più di vent'anni, Ermanno e Lena, entrambi orfani, col ragazzo che deve fingersi il padre naturale della creatura che la ragazza, polacca, porta in grembo e che ha intenzione di trasferirsi in Germania lasciandogli la creatura subito dopo il parto: questi sono i patti, il tutto per 8 mila euro, con la coppia (il cugino di Ermanno e sua moglie, entrambi sterili) che, in seguito alla richiesta di aiuto ai servizi sociali da parte del padre putativo, otterrebbe l'affido agevolato, previsto per legge per i parenti prossimi. Ermanno (un sorprendente e convincente Claudio Segaluscio, all'esordio pure lui) è un ragazzo taciturno, dallo sguardo triste, che sperpera i pochi soldi che ha in tasca, per lo più provenienti da traffici illeciti, in una squallida sala giochi alla slot machine, e dovrà ospitare nel suo appartamento anonimo e senza vita Lena durante l'ultimo mese di gravidanza, accudirla, accompagnarla alle visite di controllo fingendosi futuro genitore e, sostanzialmente, sorvegliandola: con Lena, una bravissima ed enigmatica Sandra Drzymalska, i rapporti sono inizialmente ridotti all'essenziale, ma col procedere dei giorni, dove la parola non arriva sopperiscono gli sguardi e le azioni, specie dopo che la ragazza ha un parto prematuro, che la costringe ad allattare per un periodo la neonata, cui è stato dato il nome Sole, al seno, impedendole di partire per Monaco come da accordi, per un compenso di ulteriori 2 mila euro che la coppia, sempre più ansiosa di entrare in possesso del suo "acquisto", e sempre più assillante, accorda a Lena. E' proprio la nascita di Sole, l'aiutare la giovane madre a nutrirla e cambiarla, a fare scattare qualcosa dentro a Ermanno, rammentandogli la sua stessa solitudine dopo aver perso anche il padre, suicidatosi dopo essersi buttato da una finestra, soprattutto dopo che assiste alla scena della cugina che tenta, invano, di nutrire Sole con latte artificiale, che la bimba rifiuta; cambia nel frattempo anche il rapporto con Lena, e le due solitudini, oltre a incontrarsi, forse riusciranno a evitare che ne soffra anche Sole e, con questo messaggio di speranza, si chiude il film. Coproduzione italo-polacca (e l'impronta intimista slava si sente, positivamente) essenziale, molto ben fotografato (il formato 4:3 è scelto per esaltare i primi piani dei protagonisti) minimalista me intenso, rigoroso sia nello stile, sia nel racconto, mi sembra confermare la buona lena di quel lato del cinema italiano cui appartengono, sulla scia del compianto Claudio Caligari, Cuori Puri, La terra dell'abbastanza (entrambi opere di esordienti) nonché il recente Ride per la regia di Valerio Mastandrea.