venerdì 25 giugno 2021

La vita che verrà - Herself

"La vita che verrà - Herself" (Herself) di Phyllida Lloyd. Con Clare Dunne, Harriert Walter, Conleth Hill, Ian Lloyd Anderson, Ericka Roe, Rebecca O'Mara, Molly McCann, Ruby Rose O'Hara e altri. Irlanda 2020 ★★★=

Benché le prime immagini del film mostrino un quadretto famigliare quasi idilliaco, con  una al centro giovane madre, Sandra come ce n'è tante a Dublino ma caratterizzata da una voglia sotto l'occhio sinistro come la sua interprete (e autrice della prima stesura della sceneggiatura, Clare Dunne), la realtà è un'altra: la donna, non un esempio di trasparenza e di chiarezza di idee, aveva già intenzione di andarsene dalla casa coniugale per proteggere sé stessa e le due figlie dalle violenze del marito, Greg, che quando scopre che ha messo dei soldi da parte per realizzare il suo scopo la picchia fino a farla finire in ospedale. Sandra tiene duro, si arrabatta tra pulizie a casa di una dottoressa dove già lavorava sua madre prima di morire e in un pub e finisce per soggiornare in una camera d'albergo vicino all'aeroporto sovvenzionata dai servizi sociali e  perché non può permettersi un'abitazione a causa dei prezzi folli che imperversano anche nella capitale irlandese, resistendoe alle lusinghe del marito Gary, che assicura di essere cambiato, tornato a vivere dai genitori e che pure deve incrociare quando va a portargli le bambine, ma soprattutto Emma, la più piccola, è terrorizzata dal padre perché ha assistito, non notata la lui, al pestaggio, e non vuole vederlo, diventando così motivo di contesa legale. L'intento di Sandra, che pure incappa in qualche sbavatura burocratica, è soprattutto quello di proteggere le due piccole, oltre alla decisione ferrea di dare una svolta definitiva alla sua vita, senza farsi fregare da rimpianti e ricatti affettivi, simboleggiata dalla messa in cantiere di una nuova casa sul terreno concessole dalla dottoressa presso cui lavora, Peggy O' Toole (la brava Herriet Walter, il personaggio più riuscito dal film), quando scopre, su un video diffuso in rete, che è possibile farlo con una spesa attorno ai 30 mila euro e dopo che si è messa in contatto con l'uomo che lo ha diffuso e autore del progetto. Riuscirà nell'intento grazie alla lavoro prestato gratuitamente nei fine settimana da un gruppo di volontari di vario genere raccolti in maniera abbastanza casuale grazie a un sentimento di solidarietà, ma qui si cade un po' troppo sul melenso e sul buonista andante, e benché non vi sia, causa sorpresa finale, che non svelo, lo happy end che, in dirittura di arrivo della pellicola, ci si poteva aspettare come inevitabile, la svolta comunque nella vita di Sandra è fatta e sarà definitiva. Gli intenti sono buoni, la storia sta abbastanza in piedi, l'interpretazione della Dunne è partecipata e convinta (bravissime anche le due bambine) ma c'è qualcosa che tiene distante e non coinvolge lo spettatore, o almeno me: ci andrei piano a definire la regista Phyllida Lloyd l'equivalente femminile di Ken Loach, altra pasta e un modo benpiù determinato e preciso di mettere il dito nella piaga. Si guadagna comunque la sufficienza.

mercoledì 23 giugno 2021

I profumi di Madame Walberg

"I profumi di Madame Walberg" (Les parfums) di Gregory Magne. Con Emmanuelle Devos, Grégory Montel, Gustave Kervern, Sergi Lopez, Zelie Rixon, Pauline Moulène. Francia 2020 ★★★★+

I titolisti nostrani, che si tratti di film o di giornali non fa differenza, sono proprio degli idioti integrali, tetragoni a qualsiasi avviso li metta in guardia di fare la consueta cagata: tutta la prima parte del film si regge sul fatto che la apparentemente spocchiosa Anne Walberg, esperta in fiuto, nel senso che la particolare e prodigiosa sensibilità olfattiva delle narici di cui è dotata sia il talento naturale su cui si regge la sua carriera di creatrice di profumi o anche, all'occorrenza, di correttivi ai cattivi odori, insista a farsi chiamare signorina ossia, in francese, Mademoiselle. Niente: loro si inventano Madame. Come del resto noti "critici" che recensiscono spettacoli che non hanno visto e perfino che non si sono nemmeno tenuti, oppure famosi cronisti che pubblicano interviste mai fatte: il cosiddetto "giornalismo" italiano è pieno di queste chicche, benché il nostro sia uno dei pochissimi Paesi al mondo in cui esista tuttora un "ordine" professionale a tutela di questa categoria. Ma torniamo alla buona signorina Walberg, interpretata con straordinaria misura dalla bravissima Emmanuelle Devos, una di quelle attrici che predilige la discrezione la cui cinematografia non è sconfinata ma in compenso di alta qualità: evidentemente le sue scelte sono sempre ben calibrate e meditate, perché non sbaglia mai film e quando c'è lei si va sempre sul sicuro, come con Emma Stone, tratto distintivo delle persone intelligenti. La sua Anne, che vive in un mondo particolare ed elitario, fatto di bocce di essenze di ogni genere, di cui ha una conoscenza sterminata e che viaggia sempre con una valigia particolare che ne contiene un vasto campionario, più che spocchiosa è timida, introversa, terrorizzata, anche se non ne dà mostra, di perdere il suo particolare talento, ossia di ricadere in episodi di anosmia, che l'ha già colpita una volta in passato creandole non pochi problemi con una grande casa USA che ha poi rotto un ricco contratto con lei. I suoi interessi sono "curati" da un'agente famelica, e il destino la fa incontrare con un'altra anima solitaria e fondamentalmente insicura, Guillaume, qui reso con grande misura e sensibilità da Grégory Montel, uno dei protagonisti della serie Chiami il mio agente!, una delle migliori e più spassose serie TV viste finora sui canali in streaming, separato dalla moglie con una figlia di 10 anni, che vive in un appartamento troppo piccolo per ospitarla e condividerne l'affido con l'ex moglie, e lavora come autista di limousine: gli rimangono solo tre punti di patente e il suo burbero capo gli affibbia proprio Madame Walberg, nota per essere una cliente incontentabile e che chiede di cambiarli ogni volta. Alla prima esperienza, chiusa piuttosto bruscamente, si beccano immediatamente ma, come spesso accade, si fiutano e si intendono, essendo fatti della stessa pasta e, a sorpresa, alla successiva occasione la Walberg chiede che sia espressamente e solo Guillaume a scarrozzarla nella prossima missione di lavoro. Non scoppierà l'amour passion, come sarebbe ovvio aspettarsi trattandosi di una commedia, ma qualcosa in più e di ben più solido: non solo l'accettazione reciproca ma un'intesa profonda, in cui uno sarà capace di infondere fiducia e sicurezza nell'altro. Diventeranno inseparabili e lo happy end ci sarà, ma non quello più scontato. Una bella storia, raccontata con garbo e intelligenza, per niente banale. Un ottimo film che concilia col cinema. 

martedì 22 giugno 2021

La nostra storia

"La nostra storia" (El olvido que seremos) di Fernando Trueba. Con Javier Cámara, Nicolas Reyes Cano, Juan Pablo Orrego, Patricia Tamayo, María Teresa Barreto, Laura Londoño, Elizabeth Minotta, Kami Zea, Daniela Abad, Aida Morales e altri. Colombia 2020 ★★½

Come vuole la regola, più alte sono le aspettative e più forte è la delusione, ed è quel che accade in questo film sulla figura di Héctor Abad Gómez, tratto dal libro edito nel 2006 scritto dal figlio Hector Gómez Faciolince, medico di Medellín attivo dagli anni Sessanta agli Ottanta, professore universitario pensionato anzitempo per il suo impegno sociale e ucciso proprio per questo dai paramilitari nel 1987 durante la guerra civile che ha tormentato la Colombia per più di mezzo secolo in maniera più o meno strisciante e non ancora del tutto risolta. Forse perché non c'è nulla di spettacolare, a parte  l'epilogo, nella vita di quest'uomo, reso in maniera impeccabile dal bravissimo Javier Cámara, un uomo saggio, generoso, intelligente, ironico, padre amorevole di una famiglia numerosa: ben 5 figlie e un solo maschio, quello che porta il suo nome e che gli ha dedicato il libro che ne racconta la storia. Quello che si vede è il ritratto di una famiglia della classe medio alta colombiana, dove un uomo di scienza, che pure avendo una moglie nipote di un cardinale rimane un laico e un agnostico, e che per di più si batte per migliorare le condizioni igieniche dei rioni degradati in cui vive buona parte della popolazione più povera, facendo analizzare le acque e propugnando un sistema di fognature decente, oltre a promuovere campagne di vaccinazione di massa, è visto con sospetto per il suo attivismo, che pure, in un primo momento, non ha alcuna coloritura politica. Anzi: Abad viene attaccato da destra perché "comunista" e da sinistra perché conservatore, tanto per cambiare, non appartenendo ad alcuna parrocchia. In questo sostanziale quadretto di famiglia perfetta, dove si insinua pure il dramma della morte di una delle ragazze per un melanoma della pelle, tutto è esemplare, fin troppo, quasi, e pare di assistere, a tratti, a una delle tipiche telenovelas sudamericane; anche le interpretazioni, sia delle ragazze, sia del figlio in età matura (Juan Pablo Orrego è meno espressivo di un carciofo), lasciano piuttosto a desiderare, mentre il meglio lo danno i ragazzini che interpretano Hector a 10 anni e la sorellina più piccola. In compenso è resa bene l'ambientazione e la  vita di una famiglia borghese locale in quella parte del secolo scorso. Il racconto non avviene in maniera lineare, anzi: inizia a Torino nel 1983 dove il figlio Hector è andato a studiare letteratura all'università e dove viene raggiunto dall'invito a rientrare in Colombia per assistere al discorso di addio del padre alla facoltà dove insegnava, il tutto in bianco e nero, mentre gli anni Settanta, quelli felici della famiglia Abad, vengono resi con fulgidi colori che rendono il calore tropicale, per tornare al bianco e nero degli ultimi 4 anni di vita del dottore, arrivato a candidarsi a sindaco della città  pur al corrente dei rischi che avrebbe corso. Sotto alcuni aspetti La nostra storia mi ha ricordato Roma di Alfonso Cuarón, dove la scelta del bianco e nero era funzionale al racconto e che pure esso, descrivendo la vita di una famiglia benestante dall'interno, rendeva bene l'idea di un'intera società, mentre qui le cose sono più schematiche da un lato e più agiografiche dall'altro. Credo dipenda anche dal fatto che sia il regista, sia l''interprete principale, il pur ottimo Cámara, siano spagnoli e non latinoamericani: c'è qualcosa di troppo meccanico e distanziato che frena la partecipazione dello spettatore. Oltre alla lentezza, alla ripetitività, all'indugiare sulle carinerie, manca il mordente che, a mio parere, avrebbe dato la mano di qualcuno nato e cresciuto nella realtà colombiana, e quel Paese, e i suoi vicini, non mancano certo di talenti cinematograficamente all'altezza, per cui la scelta è stata, a mio avviso, perdente. Di positivo rimane l'omaggio a una persona degna affinché la sua vicenda umana non cada nell'oblio, come lui stesso aveva previsto come inevitabile in un suo scritto, e come del resto esprime, al solito meglio, il titolo originale: L'oblio che saremo (che ci avvolgerà). 

sabato 19 giugno 2021

Oldboy

"Oldboy" (올드보이) di Park Chan-wook. Con Choi Min-sik, Ji tae-Ju, Hye-jeong Kang, Dae han-Ji, Oh Dal-soo, Byeong-ok Kim e altri. Corea del Sud, 2003 ★★★★

Oscuro, claustrofobico, ossessivo ed eccessivo, riemerge dal passato in versione restaurata un caposaldo del nuovo cinema coreano, tratto da un manga giapponese, e premiato nel 2004 al Festival di Cannes col Gran Premio Speciale della giuria presieduta, non a caso, da Quentin Tarantino per l'occasione. L'avevo visto ai tempi e, per quanto possa essere disturbante, non ho perso l'occasione per apprezzarlo una seconda volta, a 15 anni di distanza, rimanendone nuovamente turbato: perché è impossibile non rimanere coinvolti in questo viaggio nell'allucinazione e nei meandri malati della psiche umana. Dae-su è un autentico cretino, vacuo, dalla parlantina irrefrenabile, che troviamo in stato di fermo in una stazione di polizia dove con la sua logorrea infastidisce chiunque abbia a portata di voce, fermato per ubriachezza molesta proprio nel giorno del quarto compleanno della figlia, che aveva puntualmente dimenticato preferendo la bottiglia ma portando con sé due ali d'angelo di cartone che le aveva preso per regalo: recuperato da un suo amico e vecchio compagno di studi che ha garantito per lui, sparisce misteriosamente una volta varcata la soglia del commissariato. Scomparso, in realtà sequestrato da sconosciuti e recluso, per ben 15 anni, in una cella che ha l'aspetto di una stanza d'albergo piuttosto squallida, situata in una sorta di prigione privata situata in un grattacielo della metropoli. Ne ignora la ragione, pur avendo la coscienza sporca, e trascorre tutto quel tempo, durante il quale scopre che la moglie è stata uccisa e che lui è ritenuto il sicuro responsabile, coltivando un desiderio di vendetta che diventa esplosivo e cresce col passare del tempo. Una volta fuori, cerca il responsabile della sua detenzione e brutalizzerà chiunque troverà sul suo cammino, ma scoprirà presto che non di vera libertà si tratta, ma di essere tutt'ora, e ancora di più, impigliato nella rete tesa dal suo persecutore: un suo vecchio compagno di scuola, Woo Jin, che lo induce, passo per passo, a scoprire le ragioni della punizione che ha deciso di infliggergli. Ovviamente non è il caso di svelare altro, ma si va a finire in un implacabile intreccio incestuoso, e la vera vendetta è quella del rapitore, un atto di "giustizia", di cui è disposto a pagare il prezzo con la vita, per dimostrare la profonda verità di un proverbio la cui validità è universale: ne uccide più la lingua che la spada. Nonostante l'argomento, la violenza, la cupezza, regìa perfetta, interpreti perfetti, tensione allo spasimo, fotografia eccezionale. Non me la sento di consigliarlo a chiunque perché non è una passeggiata: però è grande cinema.

mercoledì 16 giugno 2021

Comedians

"Comedians" di Gabriele Salvatores. Con Natalino Balasso, Alessandro Besentini, Marco Bonadei, Christian De Sica, Walter Leonardi, Giulio Pranno, Francesco Villa, Vincenzo Zampa e altri. Italia 2021 ★★★★

Periodo felice, almeno per me, questo della riapertura delle sale cinematografiche dopo il progressivo allentamento delle "restrizioni da pandemia": se Happy Together mi aveva profondamente emozionato perché racconta, con occhi diversi ma non troppo dissimili (same same but different usano dire gli orientali), una realtà che conservo viva nei miei ricordi con una coincidenza di tempi sorprendente di presenza nella stessa città in cui fu girato, altrettanto lo fa questo Comedians di Gabriele Salvatores, versione cinematografica di uno spettacolo teatrale che lo stesso regista aveva tratto da un testo del drammaturgo inglese Trevor Griffiths per il Teatro dell'Elfo nel lontano 1986 e che avevo regolarmente visto quando gli spettacoli della compagnia si tenevano ancora nella sua sede primaria in Via Ciro Menotti, prima di trasferirsi in Corso di Porta Romana, a 50 metri da dove abitavo: non me lo sarei mai perso, anche in considerazione che metà degli interpreti, Claudio Bisio, Antonio Catania e Paolo Rossi oltre a Elio De Capitani, che era anche alla sua prima regìa, lo erano stati anche di Nemico di classe di Nigel Williams, altro scrittore inglese, successo epocale dell'Elfo tre anni prima. Insomma, due film che stuzzicano dei ricordi personali che mi porto dentro nel profondo. La trama è presto detta: sono i 58 minuti, praticamente il "riscaldamento dei muscoli" che precedono lo spettacolo di chiusura di una classe di sei aspiranti comici, tutti sopraffatti e stufi dei diversi lavori che fanno, diretti dall'appassionato insegnante e attore Eddie Berni (Natalino Balasso) di uno di quei corsi di materie varie organizzati dal Comune di Milano per adulti (e non solo) negli istituti scolastici in orario serale, molto diffusi e popolari fino a vent'anni fa, quando ancora ci abitavo, spettacolo che si sarebbe tenuto in un locale alla presenza di un altro comico Bernardo Celli (Christian De Sica) diventato manager e talent scout, come si dice oggi, che avrebbe premiato il vincitore con un contratto per la sua agenzia e un'apparizione in TV; già la scelta di questi due attori tanto conosciuti quanto diversi è stata particolarmente azzeccata e paradigmatica del vero tema dello spettacolo, ossia il senso della comicità e se e in quale modo attraverso di essa si possa raccontare il mondo, ossia fare del teatro politico, che cioè incida sulle coscienze e sulla realtà pur rimanendo divertente, argomento che l'autore originario nonché i membri della stessa compagnia teatrale hanno dibattuto all'infinito al loro interno da quando hanno iniziato la loro attività. Durante quest'ora in cui si ripassa il programma che ciascuno degli allievi/attori presenterà, emergono tensioni personali e visioni, nonché motivazioni, diametralmente opposte e gli spunti di riflessione, in soli 90' di film, sono molteplici e tutti suggestivi. Tutti bravissimi gli interpreti: si conferma estremamente promettente ed espressivo, e vorrei avere presto l'occasione di vederlo all'opera in teatro, il giovane Giulio Pranno, che già mi aveva impressionato in Tutto il mio folle amore, Marco Bonadei lo conosco bene dalle produzioni dell'Elfo, della cui compagnia fa parte; gli altri, più televisivi ma tutti di formazione teatrale, mi erano noti più che altro di fama. Bene, bravi, grazie: regia impeccabile di Gabriele Salvatores (sa sempre come divertire facendo pensare, a proposito dell'argomento del film e del testo da cui è tratto) però il teatro è un'altra cosa, e in questo anno e mezzo è quello che mi è mancato di più.

domenica 13 giugno 2021

Happy Together

"Happy Together" (春光乍洩)di Wong Kar-wai. Con Tony-Wai Leung, Leslie Cheung, Chen Chang, Gregory Dayton, Sirley Kwan e altri. Hong Kong 1997 ★★★★★

La vicenda è semplice e lineare: Yiu-Fai e Po-wing sono una coppia omosessuale di Hong Kong dai caratteri diametralmente opposti, ma coinvolta in un rapporto ad alta tensione erotica ed emotiva che, tra crisi e nuovi inizi ("ricominciamo" è la parola dominante del film) decide di recarsi agli antipodi della ex colonia inglese (tornata alla madrepatria proprio nell'anno di uscita del film), a Buenos Aires, per uno dei tanti "nuovi inizi". La suggestione è stata una lampada, che si portano dietro, che raffigura le cascate di Iguazú, il luogo che vogliono vedere insieme. Yiu-Fai (il grande e sempre misuratissimo Tony-Wai Leung, l'attore da sempre sodale artistico del regista) è il più posato, ragionevole dei due: a lui viene affidato il compito della voce narrante; Po-wing capriccioso, egocentrista. Il primo per sopravvivere lavora come procacciatore di clienti in una (a me ben nota) milonga di San Telmo; il secondo si prostituisce, all'insaputa del compagno (finché non se ne accorge). Anche nella città in riva al Rio de la Plata si lasciano e si riprendono, Yiu-Fai si prende cura e ospita l'amico nel suo tugurio alla Boca (in un ex conventillo, le pensioni per emigrati che abbondavano nel celebre barrio "genovese" della città), quando questi rimane ferito in una rissa, ed è quello il periodo che ricorda come il più bello del loro rapporto: quando poteva assisterlo (e, pensava, controllarlo). I soldi mancano, per tornare a Hong Kong: i tempi si allungano, il rapporto si sfilaccia; Yiu-Fai decide di rimpatriare, non prima però di essere andato a vedere le cascate di Iguazú, pur se da solo, e per farlo si impiega in un ristorante (cinese) dove conosce un altro espatriato, più giovane, Chang, arrivato in Argentina da Taiwan per dissapori coi genitori, e con lui instaura  un rapporto su basi di amicizia ma senza coinvolgimento erotico, che pure aleggia nell'aria. Questi a sua volta, prima di tornare a Taipei, dove la famiglia gestisce un ristorante di strada nel celebre mercato notturno, per conto suo andrà ad Ushuaia per visitare il faro della città più meridionale al mondo. E' attorno a questa trama, in cui la parte erotica, per giunta omosessuale, a forte carica sensuale ma per nulla sconcia e volgare (siamo nel 1997) si svolge e conclude nella primissima scena, che Wong Kar-wai costruisce come sempre un autentico capolavoro fatto di dettagli, annidati nei gesti e nelle parole dei personaggi, che si accompagnano all'accuratezza delle inquadrature, spesso audaci e visionarie ma altrettanto capaci di rendere la realtà, curate dal suo fido fotografo Christopher Doyle, australiano naturalizzato cinese di Hong Kong. Lo dico a ragion veduta perché quella città, e specialmente la zona in cui è stato girato il film, la conosco molto bene, e Wong Kar-wai riesce a renderla viva, esattamente per quello che era (ai tempi) molo meglio di tanti altri, perfino locali, così come ha sempre fatto con la sua Hong Kong e, in quest'occasione, anche se per poche inquadrature, con Taipei.  Il che dimostra che la sua sensibilità d'artista impareggiabile gli consente di capire i luoghi e le situazioni ovunque si trovino, e in questo caso in una città che è in tutti i sensi agli antipodi di quella in cui vive, con una lingua del tutto sconosciuta ma di cui capisce (ed esprime,  lasciando spesso le voci in originale)  il senso. Per non parlare della musicalità che, in terra di tango, ha una valenza particolare. Ma anche qui lo sguardo non è banale, turistico, cartolinesco: il regista ha subito compreso come "gira il fumo"; nella Reína del Plata, e che esistono i locali, per quanto veraci, per gli stranieri (il celebre Bar Sur, in Estados Unidos, a San Telmo, a due passi dallo storico mercato coperto, da Plaza Dorrego e dall'Almacén Don Manolo, reso immortale da Quino nelle strisce di Mafalda), ma anche, col suo Club de Barrio 3 Amigos, la Buenos Aires "scesa dai bastimenti", i reietti del Vecchio Continente, che l'ha resa la seconda città più italiana al mondo dopo San Paolo del Brasile (e prima di Roma) e l'Argentina il Paese più "europeo" dell'emisfero Sud. E anche qui può esprimere la sua poesia e raccontare lo spaesamento dei due protagonisti di una storia d'amore. Significa avere uno sguardo vasto e una sensibilità pronta a cogliere tutte le sfumature, comprese quelle di una cultura estranea alla propria. Capacità universale di artista, per l'appunto. Questo film mi ha colpito particolarmente per una serie di coincidenze: premiato a Cannes nel 1997 per la miglior regìa, è stato girato in gran parte alla Boca, in riva al Riuachuelo (gita in barca sul quale, orrido fiumiciattolo di acque morte fra le più inquinate la mondo mi sono sempre rifiutato di fare, a differenza del protagonista del film) quando, per quanto miserrimo e in stato di voluto, avanzato abbandono, il quartiere era ancora frequentabile senza troppi pericoli: da una quindicina d'anni è sostanzialmente off-limits anche di giorno, a parte la zona del Caminito. All'epoca in cui era stato girato il film, che mi era sfuggito all'uscita, ero anch'io in città e, dato che era ancora in corso legale la Lira e in Argentina vigeva la folle parità Peso/Dollaro voluta dall'allora presidente Menem, un criminale, i prezzi per gli europei e gli italiani in particolare erano pressoché proibiltivi, e alloggiavo, giusto a San Telmo, in Calle Bolívar, in un ex conventillo simile a quello del film, gli unici posti in cui ai tempi si poteva pernottare per una cifra sui 30/40 dollari di allora; i luoghi citati, comprese le pizzerie al taglio e il chiosco di sigarette, bevande e generi di conforto vari li conoscevo e frequentavo tutti, perfino la citazione del faro di Ushuiaia, visitato da Chang, terzo personaggio del film, il 1° di gennaio del 1997 è una coincidenza che ha dell'incredibile: mi trovavo nella Terra del Fuoco nell'ultima settimana del 1996 dopo tre settimane in Patagonia, il 31 lo trascorsi alle "Tres Marías", sul Canale di Beagle, di fronte all'isola di Navarino, prima di prendere l'aereo per Punta Arenas e Santiago de Chile, il giorno dopo. E questo lo ricordo benissimo. Adesso e grazie a questo film che, oltre a essere un capolavoro di suo, per me riveste un significato del tutto speciale e mi fa ritenere Wong Kar-wai una sorta di gemello spirituale. 

venerdì 11 giugno 2021

Corpus Christi

"Corpus Christi" (Boze Cialo) di Jan Komasa. Con Bartosz Bielenia, Eliza Rycembel, Aleksandra Konieczna, Tonas Zitiel, Barbara Kurzaj, Tomas Zitiek, Leszek Likota, Lukasz Simlat e altri. Polonia 2019 ★★★★½

Nome non nuovo nella sempre fiorente cinematografia polacca, Jan Komasa fa il botto con questo film profondo, potente, dalla trama inconsueta che pur trae spunto da alcuni fatti reali accaduti in Polonia e che ha per tema non tanto e non solo il modo di vivere la religione per quel Paese così profondamente cattolico, ma scava nelle contraddizioni di tutti i personaggi di un film corale ma che trae forza dall'intensa interpretazione di un giovane, bravissimo attore, Bartosz Bielenia. Che impersona Daniel, un giovane che vorrebbe entrare in seminario e diventare prete ma non può visto il suo passato in riformatorio per aver pestato a morte un rivale durante una lite furibonda: quando viene lasciato in libertà vigilata per lavorare in una segheria di un paesino distante dal luogo di reclusione, il suo sogno si realizza perché viene accolto come il nuovo assistente dell'anziano parroco, e scambiato per sacerdote per primo da quest'ultimo, dalla sua perpetua e dalla figlia di questa, Marta. Daniel sta al gioco, fino a sostituire per un periodo il titolare della parrocchia, colto da malore (anche a causa delle abbondanti libagioni ad alta gradazione alcolica) e assente per un periodo di cura, rivelando uno straordinario talento e facendosi benvolere dagli abitanti, sia quelli più giovani sia quelli più anziani. Proprio la sua conoscenza del lato oscuro dell'esistenza, fatto di droga, sesso, violenza, imbrogli, lo porta a entrare in sintonia con quello del prossimo, e quindi lo aiuta a trovare le parole giuste, sia nelle omelie, sia nelle diatribe che dividono la comunità e che richiedono il suo intervento, a cominciare dal rifiuto di quasi tutti gli abitanti di permettere le esequie in chiesa e la sepoltura in paese di un loro concittadino ritenuto responsabile di un incidente automobilistico avvenuto ancora un anno prima in cui morirono sei ragazzi coetanei della figlia della perpetua e, più o meno, di Daniel stesso e che hanno dichiarato un ostracismo totale alla sua vedova. Il falso prete, prima di essere scoperto tale da quello vero (quello cui faceva da assistente al  riformatorio) di cui ha preso il nome (e l'abito talare), riuscirà a comporre perfino questa frattura, impegnandosi allo spasimo soprattutto dopo che Marta gli avrà mostrato un video pubblicato poco prima dell'incidente che conferma, cosa che lui già sospettava, che i sei deceduti erano saliti in macchina non solo in soprannumero ma totalmente ubriachi e pieni di cocaina: nessun sospetto era venuto in questo senso ai "bravi e onesti" genitori e parenti, che anzi avevano tempestato la povera vedova del presunto colpevole di lettere minatorie e offensive, che Daniel fa rileggere una per una a chi le ha scritte. Eh già, ma dove sta la capacità di perdonare, primo insegnamento del Cristo a cui tutti si rivolgono? E perché la chiesa non è in grado di farlo con un suo fedele, non ammettendolo al sacerdozio, quando si rivela nei fatti molto più capace e umano, nelle sua contraddizioni, dei "professionisti"? Belle domande, che il film pone, fra gli altri spunti di riflessione, in un film esemplare. Da vedere. 

mercoledì 9 giugno 2021

The Father

"The Father" di Florian Zeller. Con Anthony Hopkins, Olivia Colman, Imogen Poots, Rufus Sewell, Olivia Williams, Mark Gatiss, Evie Wray. Francia, GB 2020 ★★★★

Dramma da camera, il film del francese Florian Zeller è l’adattamento cinematografico di una pièce scritta da lui stesso, elegante e al tempo stesso scomoda riflessione sui devastanti effetti della demenza senile sulla personalità degli infelici che ne soffrono nonché sull’esistenza delle persone che fanno parte del loro nucleo famigliare e sulla vita di relazione di costoro. Imperdibile se si ha la possibilità di vederlo in versione originale, per apprezzare la vera voce e la dizione di un mostro sacro come Anthony Hopkins, che interpreta il ruolo principale di un anziano affetto probabilmente dal morbo di Alzheimer, duettando con una collega all’altezza, Olivia Colman, nella parte della figlia Anne, che lo ospita nella sua casa di Londra. O almeno è quel che sembra, perché Anthony (così si chiama anche il personaggio, nato lo stesso giorno dell'attore, il 31 dicembre del 1937 nel Galles) è convinto di trovarsi nell’appartamento che abita da oltre trent’anni, e pensa che la figlia venga a trovarlo e a proporgli delle badanti con cui regolarmente litiga, perché sta manovrando per prenderne possesso. La pellicola porta lo spettatore a immedesimarsi con il punto di vista del protagonista, perché le immagini illustrano quello che lui percepisce: sprazzi di memoria che riaffiorano incongruentemente, senza che lui riesca a ordinarli in una sequenza temporale; scambi di persone, cui assegna ruoli del tutto diversi da quelli che rivestono davvero; la ferma convinzione di essere del tutto autosufficiente: a dargli questa sicurezza è proprio la familiarità che sente di avere con l’abitazione che non è solo il centro dell’azione, ma anche l’unico aggancio con la realtà (apparente) del disgraziato protagonista della triste vicenda, solo all’apparenza un gioco degli specchi e degli equivoci. La verità è un’altra e molto più dura: non solo è ospite di un ospizio e assistito da infermieri che aveva scambiato, a seconda delle circostanze, per la figlia o i generi, ma si rende conto che non sa cosa gli stia succedendo intorno, ha un terrificante crollo emotivo, piange tra le braccia dell’infermiera che lo assiste ormai da mesi invocando la madre, dicendo di sentirsi come un albero a cui sono cadute tutte le foglie, in balia degli elementi. Recitazione esemplare da parte di tutti gli attori chiamati in causa, Hopkins per primo e commovente; regìa rigorosa; un film bello quanto triste ma importante. Mi è venuto da auspicare che la visione andrebbe sconsigliata agli ultrasessantenni depressi, ipocondriaci, con incipienti problemi di memoria: inutilmente, devono avere captato telepaticamente il mio pensiero perché ero l’unico presente in sala. 

domenica 6 giugno 2021

Crudelia

"Crudelia" (Cruella) di Craig Gillespie. Con Emma Stone, Emma Thompson, Mark Strong, Paul Walter Hauser, Jamie Demetriou, Kirby Howell-Baptiste, Emily Beecham, Joel Fry e altri. USA 2021 ★★★★★

Se avessi nutrito soltanto un dubbio sull'andare a vedere o meno quello che si annuncia un blockbuster della Disney, sarebbe stato fugato dalla presenza, come protagonista, di Emma Stone, a maggior ragione quando a farle da contraltare ci sono, come in questo caso, la sua omonima britannica Thompson e un caratterista impeccabile come Mark Strong e a dirigerli quel Craig Gillespie di cui mi è bastato vedere Tonya per capirne le qualità: la giovane attrice americana, che sprizza talento, intelligenza e simpatia da tutti i pori, non ha mai sbagliato un film e, come si può constatare facendo una ricerca su questo blog, non ce n'è uno solo che io abbia recensito negli ultimi anni a cui abbia partecipato a cui abbia assegnato meno di 4 stelle, e due ne hanno ricevute 5 (e questo è il terzo), probabilmente per quel tocco in più che garantisce proprio lei. Un fenomeno assoluto. Qui si tratta del prequel del personaggio principale de La carica dei 101 originale del 1961 ma, soprattutto, dei due successivi film del 1996 e 2000 in cui Glenn Close interpretava, per l'appunto, Crudelia De Mon, attorniata dai suoi dalmati. Qui se ne raccontano le origini: siamo a metà anni Sessanta, in Inghilterra, e Cruella è la parte oscura, imprevedible e cattiva, che una bambina nata coi capelli metà bianchi e metà neri, dal precoce talento sartoriale, Estella Miller, fatica a tenere sotto controllo e che induce la madre Catherine a ritirarla dalla scuola prima che ne venga espulsa per trasferirsi a Londra, per permetterle di entrare nel mondo della moda. Sul percorso si ferma a chiedere un aiuto finanziario alla Baronessa von Hellman, una famosa stilista, per l'appunto, ma Estella assiste alla morte della madre, assalita dai dalmati della padrona di casa e se ne ritiene responsabile, avendo causato lo scompiglio che ne ha scatenato la ferocia. Arriva comunque a Londra, sola, e si aggrega a due ladruncoli coetanei che la adottano e vivranno tutta l'adolescenza insieme, in una casa abusiva, formando una vera e propria famiglia alternativa e arrangiandosi con furti e truffe sempre più ingegnosi ed Estella, divenuta nel frattempo la mente e la "capobanda", per non farsi riconoscere, si tingerà i capelli di rosso. Intanto sono giunti gli anni Settanta e siamo alla soglia della rivoluzione del punk: Estrella non ha abbandonato il suo sogno di entrare nel mondo dell'alta moda e riesce a farsi assumere, seppure da ragazza delle pulizie, presso i grandi magazzini Liberty di Regent Street, ma viene notata per come ha genialmente, in pieno delirio alcolico, allestito una vetrina, proprio dalla Baronessa, che l'assume per la sua casa di haute couture. Inevitabilmente l'incontro di due donne geniali e determinate crea scintille destinate alla deflagrazione di una rivalità incontenibile, il lato Cruella di Estella prende definitivamente il sopravvento in un crescendo sottolineato da una colonna sonora semplicemente strepitosa (quella che ha attraversato gli anni Sessanta e Settanta, principalmente in Inghilterra), soprattutto quando scopre che responsabile della morte di sua madre non era stata lei ma la stessa Baronessa, che a sua volta non è quella che si pensasse... Il duetto delle due Emma è di altissimo livello, il ruolo del personaggio interpretato da Strong (maggiordomo e consigliere della Baronessa ma alleato di Cruella) e il contributo dell'attore crescono col procedere della pellicola, ma la Stone è ancora una spanna sopra: come sia capace di rendere la coesistenza di due personalità in un una con tutte le possibili sfumature, di Estella/Cruella, nel frattempo diventata De Vil (e successivamente De Mon), il prevalere di una caratteristica sull'altra nell'arco non solo di una sequenza, ma di una stessa frase, di uno sguardo che cambia di intensità ed espressione nella stessa inquadratura hanno dell'incredibile. Non bastassero il divertimento, la sorpresa, i colori, la sontuosità degli arredamenti e dei vestiti, i personaggi, insomma puro spettacolo, le prestazioni attoriali dei protagonisti, soprattutto della Stone, e la colonna sonora, oltre al prezzo del biglietto meritano un grazie il regista, i suoi collaboratori e la Disney.

venerdì 4 giugno 2021

Un altro giro

"Un altro giro" (Druk) di Thomas Vinterberg. Con Mads Mikkelsen, Thomas Bo Larsen, Magnus Milang, Lars Ranthe, Marie Bonnevie, Helene Reingaard Neumann e altri. Danimarca 2020 ★★★+

A un'Academy in evidente stato di depressione acuta, ridotta ad assegnare ben tre Oscar a un film di raro squallore come Nomadland, non poteva sfuggire Un altro giro per premiare il miglior film "straniero" (ossia non USA), che però ha se non altro il pregio di affrontare, con tono ironico e lieve, per quanto possa consentirlo l'indole scandinava, temi come la tristezza della crisi di mezza età, della fine delle passioni e dell'alcolismo, a cui da quelle parti d'Europa ci si abbandona spesso e volentieri per la innata incapacità di comunicare: col prossimo quanto con sé stessi, o quantomeno di viversi addosso con più leggerezza. Sicuramente in confronto all'altro è un capolavoro, per quanto Thomas Vinterberg abbia fatto, a mio avviso, meglio in Festen, poi ne Il sospetto, sempre con Mikkelsen protagonista, e con l'autobiografico e graffiante La comune. Eppure anche questa pellicola ad alto tasso alcolico, lasciato sedimentare il giudizio per qualche giorno, non è disprezzabile. Un quartetto di coetanei, tutti insegnanti nello stesso liceo di una qualche località della Danimarca, si lasciano tentare da una sperimentazione per suffragare la validità delle teorie dello psichiatra norvegese Finn Skårderud, secondo il quale l'uomo viene al mondo con una fisiologica carenza di alcol, il cui livello andrebbe mantenuto costantemente a un livello di 0,05, per ottimizzare le proprie potenzialità psicofisiche, ma soprattutto quelle relazionali, e così cominciano a bere regolarmente e "scientificamente" durante le ore di lavoro, tenendo anche un dettagliato diario sugli effetti nel tempo. Tutti e quattro, ma soprattutto Martin, interpretato da Mikkelsen, quello più in crisi, anche con la moglie, notano presto un miglioramento nel rapporto con i loro studenti e nel modo di affrontare l'esistenza, e concordano di passare alla "fase due", aumentando man mano le dosi di assunzione, con gli effetti grotteschi che lascio immaginare sia a scuola, sia nelle rispettive vite famigliari: uno dei quattro, purtroppo, precipiterà nella dipendenza, ma anche nella presa di coscienza della propria irrimediabile infelicità, e il tragico epilogo che lo riguarda consentirà agli altri tre amici e colleghi di tenere a freno la propria situazione, comunque entro binari di una controllabile disponibilità alla trasgressione: se fosse stato un film USA, la scena finale sarebbe stata una riunione di alcolisti anonimi in una triste palestra o sala riunioni, ma siccome Vinterberg non è né un bacchettone moralista né un buonista da sbarco, Martin/Mikkelsen si scatena pubblicamente in un ballo liberatorio per cui andava famoso dai tempi in cui era studente e in cui aveva finora evitato di esibirsi, e questo durante una festa di maturità degli allievi del suo liceo: a suo modo, un inno alla libertà ma anche alla capacità di prendersi la responsabilità delle proprie azioni ed emozioni. Alla fine un film simpatico e intelligente, non banale, dove forse manca un po' di mordente ma apprezzabile. 

mercoledì 2 giugno 2021

Idiota


"Idiota" di Jordi Casanovas. Traduzione di Francesca Cari in collaborazione con Francesco Fava, regìa di Roberto Rustioni. Con Roberto Rustioni e Giulia Trippetta. Aiuto regìa Francesco Piotti; scene e costumi Francesco Esposito; contributi video Pablo Solari; ideazione video Igor Renzetti; disegno Luci Gianluca Cappelletti; foto di Olimpia Nigris Cosattini. Produzione Fattore K. Al Teatro Elfo Puccini di Milano dal 25 al 30 maggio.

Recuperare questo frizzante, originale spettacolo tratto da un testo del drammaturgo catalano Jordi Casanovas, già presentato alcuni anni fa al Teatro Franco Parenti di Milano e poi in giro per l'Italia, di cui Roberto Rustioni ha curato la regìà, oltre che interpretarlo, ora riproposto al Teatro Elfo Puccini, è stata l'occasione per fare un rapido salto in città e sfruttare almeno una volta nella stagione l'abbonamento di cui sono titolare ormai da anni. Ne è valsa la pena. Pubblico dimezzato, ma partecipe e coinvolto da questa sorta di duello verbale che vede protagonista Carlos Varela, proprietaro di un bar-karaoke in serie difficoltà economiche a causa della crisi economica che imperversa ormai da anni senza vie d'uscita, il quale in cambio di un lauto compenso che lo salverebbe dal fallimento  accetta di sottoporsi a un test per un esperimento di pensiero laterale, ossia verificare la capacità di ragionare e trovare soluzioni a problemi in modo non convenzionale, ma in realtà saggiare fin dove arriva la disponibilità ad accettare le dinamiche e le pressioni di chi detiene le leve del sistema e, nel caso, il livello di corruttibilità (I.D.I.O.T.A. sarebbe in verità  l'acronimo del nome per esteso dell'esperimento). La scena è costituita dallo studio della dottoressa Ebel, di origine tedesca, interpretata da una versatile Giulia Trippetta, capace di variare dai toni spesso arroganti e freddi della scienziata a quelli ironici e ambigui della donna conscia della propria sensualità, capaci di mandare vieppiù in confusione il malcapitato, chiamato a rispondere con sincerità alle domande che gli vengono poste, vieppiù personali (quando invece la scienziata è già a conoscenza dei più intimi dettagli della sua esistenza, dai rapporti con la famiglia di Varela alla sua situazione economica) e a risolvere dei quesiti: se non risponderà secondo le aspettative, verranno via via coinvolti e puniti i suoi famigliari, da quelli più lontani, come un cugino con cui ha avuto screzi nel passato, alla madre affetta da Alzheimer ricoverata in una casa di riposo, al padre, alla moglie e alla figlia, di cui per fargli pressione gli vengono mostrati dei filmati dal vivo mentre vengono tenuti in ostaggio da degli sgherri della compagnia per cui lavora la Ebel: le cose sono state concepite in modo tale per cui la responsabilità di eventuali disgrazie che capitassero loro cadrebbe comunque sul loro disgraziato congiunto. L'idiota, per l'appunto, di cui verrà testata la capacità di resistenza alla valigetta colma di denaro, almeno 10 volte più del compenso pattuito per l'esperimento, se risponderà "correttamente" all'ultima domanda, cosa che potrà fare solo abbandonandosi senza difese alla logica della "inquirente". Una vicenda vagamente distopica che pure affonda nella realtà odierna, comunque abbondantenemte alienata e manipolata, giocata sui toni della commedia grottesca e del noir, con tanto di inserimenti multimediali tipici del teatro sperimentale e visti in altri lavori di gruppi iberici e catalani in particolare. 70 minuti di teatro brillante, pubblico attento e divertito, uno stimolo per la riflessione.