lunedì 31 maggio 2021

Hong Kong Express

"Hong Kong Express" (重慶森林/Chonqin senlin) di Wong Kar-way. Con Tony Chiu-Wai Leung, Takeshi Kaneshiro, Brigitte Lin, Faye Wong, Valerie Chow e altri. Hong Kong 1994 ★★★★★

Girato con una troupe e un cast ridotti all'osso ma di altissimo livello durante le pause di lavorazione di Ashes of Time (1994), film dalla lunga gestazione, questo fresco, piccolo, malinconico sognante capolavoro contiene già, anche se diversamente miscelati, tutti gli elementi del film che ha dato a Wong Kar-way la fama in Occidente, il recentemente rivisto In the Mood for Love. A cominciare dal rapporto con il tempo (cruciale in una Hong Kong che tre anni dopo sarebbe stata "restituita" alla madrepatria Cina). Protagonisti di due storie d'amore parallele, ambientate nelle Chungking Mansions, un complesso di cinque blocchi di edifici su Nathan Road, a Kowloon, sulla terraferma, il vero cuore della città, che ospita appartamenti, piccoli alberghi e svariate attività commerciali, sono due poliziotti, identificati soltanto col numero di matricola, entrambi abbandonati dalle rispettive ragazze. Il primo, 223, non se ne fa una ragione, corre a perdifiato non appena ne ha occasione per scaricare liquidi, convinto così di evitare le lacrime, e divora ossessivamente barattoli di ananas sciroppato con una scadenza ben precisa: un anno dal giorno in cui è stato lasciato, quando sa che sarà disponibile a innamorarsi di nuovo. Scintilla che scoppierà puntualmente quando incapperà in una misteriosa donna con una parrucca bionda dall'attività notturna e frenetica, coinvolta, cosa che ignora, in traffici di droga. Ebbene sì, le due solitudini si incontreranno al banco di un bar e pur non "consumando", ma dormendo insieme in una camera d'albergo perché distrutti dalla stanchezza, un amore sarà, anche se solo platonico e senza un futuro, ma vero. Il secondo (il grandissimo Tony Chiu-Wai Leung), 663, a sua volta abbandonato da una hostess, mentre attende invano il suo ritorno, parla con gli oggetti che ha intorno, perfino gli indumenti, e non si accorge che la giovane commessa del fast food che frequenta quotidianamente, cugina del proprietario che sa delle sue sventure, si innamora di lui e, preso com'è dalle sua fissazioni e dalle sue abitudini, nemmeno che la ragazza di nascosto entra nel suo appartamento e glielo sistema e abbellisce, instaurando con gli stessi oggetti un rapporto che le consente di entrare nei pensieri e nella mente di lui: quando finalmente le chiederà un appuntamento, sarà forse troppo tardi... Due mediometraggi, più notturno il primo, più solare il secondo, grazie anche alla protagonista, Faye Wong, ottima cantante molto nota a Hong Kong e dintorni, che nel film interpreta in cinese la magnifica Dreams dei Cranberries, scritta e cantata da Dolores O' Riordan (non sfigurando per nulla). In un cinema di dettagli, gesti, suggestioni e atmosfere, le colonne sonore hanno una parte significativa, e l'altro pezzo che viene riproposto ripetutamente è, non a caso, California Dreaming dei Mamas and Papas, in versione originale, quindi di dimensione onirica si parla ma attraverso la vita reale e pulsante di una città "sospesa" come Hong Kong, in balia di un destino ignoto. Un altro film che rimane dentro a lungo. Siamo a livelli di eccellenza in attesa dei prossimi film in arrivo grazie alla sempre benemerita Tucker Film di Udine, che ha organizzato la rassegna Una questione di stile - Il cinema di Wong Kar-wai in versione restaurata, per fortuna rigorosamente proposta esclusivamente in sala.  

sabato 29 maggio 2021

Maternal

"Maternal" (Hogar) di Maura Delpero.Con Lidiya Liberman, Renata Palminiello, Denise Carrizo, Agustina Malale, Marta Lubos. Livia Fernán e altri. Italia, Argentina 2019 ★★★★

Come si evince dal titolo, tema del film è la maternità nei suoi differenti aspetti e significati, come emergono in modo contraddittorio e inaspettato in un luogo del tutto particolare, dove si incontrano esperienze e prospettive del tutto diverse quando non opposte: in questo caso un hogar, in castigliano "focolare", istituzione piuttosto diffusa in Argentina, una casa famiglia gestita a Buenos Aires da suore all'interno di un convento, che ospita ragazze madri adolescenti e senza mezzi coi loro bimbi, di bassa estrazione e spesso problematiche. Come Lu(ciana), irrequieta e difficile da gestire a differenza di Fatima, la sua amica e compagna di stanza, che oltre ad avere già un figlio di 4-5 anni è nuovamente incinta e partorirà lì. Mentre Lu entra ed esce dall'istituto, cercando invano un futuro all'esterno con uomo inaffidabile che per di più non le risparmia botte, e trascurando Nina, una dolcissima bimba di quattro anni, arriva dall'Italia suor Paola, giovane, bella, in procinto di prendere i voti perpetui, e sarà lei a prendersene cura e a instaurare un rapporto, propriamente materno con la piccola. Anche in senso fisico, tattile, rassicurante: un paradosso, se si tiene presente che sta per negarsi definitivamente la possibilità di diventare madre biologicamente. Il tutto in un crescendo inaspettato, che sconvolge le regole e mette in crisi sia lei sia l'istituzione e il ruolo stesso di queste donne col velo, che pure sono madri a modo loro, nel senso spirituale, e perché votate a "prendersi cura". Ad assicurare che non si cada né nel mélo né nell'ambiguità e nel torbido provvede la solida formazione documentaristica di Maura Delpero, qui all'esordio (ottimo) nel lungometraggio, che tratta un argomento che potrebbe avere aspetti anche scabrosi con sobrietà e rigore, senza alcuna retorica, facendo parlare anche piccoli, normalissimi gesti e situazioni, a affidandosi alla recitazione misurata e naturale della brava Lidiya Liberman, attrice ucraina e italiana di adozione, apprezzata anche di recente in una breve ma intensa parte de Il cattivo poeta. Un film sorprendente, che si fa apprezzare sia per l'originalità dell'idea, sia per l'equilibrio con cui viene trattato, in modo obiettivo e senza dare giudizi, un tema assai poco frequentato nel cinema.

giovedì 27 maggio 2021

The Human Voice

"The Human Voice" di Pedro Almodóvar. Con Tilda Swinton, Agustín, Miguel e Pablo Almodóvar, Diego Pajuelo. USA, Spagna 2020 ★★★★½

Film corto a prezzo pieno, è stato detto, come se un lavoro artistico si giudicasse a partire dalla durata, e scordandosi certi tediosi e inguardabili mattoni che superano inutilmente le tre ore per non dire niente. In ogni caso ne vale la pena, perché è un merito, se il geniaccio manchego, che difficilmente sbaglia un colpo, è riuscito a condensare in 30 soli minuti, in compenso intensi ed esemplari, un tema che ricorre da sempre nei suoi film: il tormento della passione assieme all'abisso della sofferenza per l'abbandono, rielaborando l'omonimo e celebre monologo di Jean Cocteau, già citato in alcune delle sue pellicole più note. Sul set, un appartamento moderno arredato con sobria eleganza che è montato in un hangar, si muovono due esseri, una donna e un cane, entrambi lasciati dallo stesso uomo. Lei non riesce a farsene una ragione, passa le ore in un'altalena di alti e bassi di umore, tra propositi di vendetta e accettazione supina della realtà, fantasie di suicidio e scoppi d'ira: sono passati tre giorni da quando se ne è andato, senza dare più sue notizie, si impasticca per riuscire a dormire e non sente squillare il cellulare proprio mentre lui finalmente la chiama. Quando riesce a parlare all'uomo, si sente solo la voce di lei, che nell'attesa che passi a prendere le sue cose (compreso il cane), le ha sistemate nelle valige, ed è uscita una sola volta di casa, unica scena in esterno, per andare in un negozio di ferramenta a comprare un'ascia e una tanica da riempire di benzina: il fuoco, alla fine, avrà un effetto catartico e purificatore. Lei è interpretata da un'attrice strepitosa, Tilda Swinton, e sentirla recitare vale da solo il prezzo del biglietto, soprattutto per come pronuncia, essendo britannica e di origini scozzesi, senza massacrarlo, l'inglese, rendendolo perfettamente intellegibile anche a chi, come me, è un po' fuori esercizio: non mi sono perso una parola, cose che risulta difficile quando a parlarlo è un americano per non dire un australiano, a meno di non aver frequentato delle ottime scuole di dizione. Una vera chicca. 

mercoledì 26 maggio 2021

Il cattivo poeta

"Il cattivo poeta" di Gianluca Jodice. Con Sergio Castellitto, Francesco Patané, Tommaso Ragno, Clotilde Courau, Lidiya Liberman, Fausto Russo Alesi, Massimiliano Rossi, Elena Bucci, Lino Musella, Paolo Graziosi e altri. Italia 2020 ★★★★

Ottimo esordio nel lungometraggio del regista napoletano già autore di corti e documentari di alta qualità, con un film importante, incentrato sugli ultimi anni di vita di un personaggio controverso, tanto noto quanto poco conosciuto, come Gabriele D'Annunzio e i suoi rapporti con il fascismo, di cui pure era stato per certi versi un ispiratore (o meglio: il regime ne aveva succhiato e adattato ai suoi fini propagandistici molte immagini retoriche nonché la stessa propensione allo spettacolo, certo non la profondità, raffinatezza e criticità di pensiero). Perno del racconto è il personaggio del giovane federale di Brescia, Giovanni Comini, incaricato dal segretario del PNF Starace dalla primavera del 1936 a tenere sotto sorveglianza il Vate, ormai confinato da 15 anni al Vittoriale, sul Lago di Garda, e a comunicargli qualsivoglia dettaglio. Il comandante è ormai una reliquia di sé stesso, vecchio, avvilito, deluso dalla piega che stanno prendendo le cose e soprattutto dall'attrazione fatale del vecchio "amico" Mussolini nei confronti di Hitler, ritenuto non solo uno zotico e un pagliaccio, ma l'emblema del nemico storico di quell'Italia per cui D'Annunzio si è sempre battuto. Esemplificata dall'Impresa di Fiume, di cui a Natale dell'anno scorso cadeva il centesimo anniversario del tragico epilogo (il film avrebbe dovuto uscire allora nelle sale), di cui il poeta e letterato abruzzese fu protagonista e tradito dalle ambiguità dell'allora amico Mussolini, che aveva appena fondato, nel 1919, il movimento fascista. Nell'affascinante ambientazione del Vittoriale, feticcio lasciato dal regime come concessione al vecchio poeta, ma irriducibile libero pensatore, in compagnia  ad alcuni "reduci" dell'impresa ma circondato da sbirri e spie dell'OVRA per osservarne mosse e pensieri, prende corpo la relazione tra D'Annunzio e il giovane alto funzionario che lo dovrebbe tenere a bada, e che per quanto sia un fascista di provata fede (ché mai avrebbe ricevuto altrimenti l'incarico), essendo una persona intelligente e sensibile non subisce soltanto il fascino del D'Annunzio, ma ne intuisce le ragioni e ne fa propri i dubbi. Che sono essenzialmente quelli che hanno a che vedere col rapporto tra la libertà del pensiero e il potere. Grande merito del film è di non estetizzare per nulla un personaggio estetizzante per definizione come D'Annunzio, mettendogli anzi in bocca, tramite il bravissimo e perfettamente calzante nel ruolo Sergio Castellitto in versione coupé (nel senso della chioma), soltanto parole che effettivamente aveva pronunciato: protagonista sì, ma non assoluto. Non lo è nemmeno Comini, che peraltro pagò, con il mancato rinnovo dell'incarico, l'aver segnalato al partito la contrarietà della Federazione bresciana all'entrata in guerra a fianco della Germania. Lo è, invece, l'atmosfera cupa di quegli anni, e le immagini la rendono, grazie a una fotografia eccellente e a una ricostruzione ambientale di prim'ordine, palpabile e angosciosa. Peccato che nemmeno nei licei venga studiato quel periodo storico e che di quel che accadde a Fiume tra il 1919 e il 1920 forse un italiano du 100 ne abbia una pur vaga idea. Bravi gli interpreti, impeccabile la regia, ottima la fotografia, bel film.

lunedì 24 maggio 2021

Gloria Mundi

"(sic transit) Gloria Mundi" di Robert Guédigain. Con Ariane Ascaride, Jean-Pierre Darroussin, Gérard Meylan, Anaïs Demoustier, Robinson Stévenin, Lola Naymark, Grégoire Leprince-Ringuet, Angelica Sarre e altri. Francia 2019 ★★★-

Pur essendo il cinema di Guédigain prettamente politico, sulle orme di Ken Loach ma con visuale francese, e avendo spesso per oggetto le conseguenze sociali della disgregazione della coscienza di classe in seguito alla globalizzazione, il regista marsigliese non è un mistico della sfiga come i belgi fratelli Dardenne e, preferendo usare i toni della commedia anziché quelli della tragedia incombente e del senso di colpa ubiquo, ogni incontro con l'affiatato gruppo di collaboratori che lo segue fedelmente, capitanato dalla moglie Ariane Ascaride, fa sempre piacere, come un pranzo di famiglia a distanza temporale di sicurezza, giusto per vedere come stanno gli altri membri del clan: il cast è quindi pressoché identico a quello del suo ultimo film uscito in Italia, La casa sul mare. Protagonista è sempre Marsiglia e una famiglia, anzi tre, e un episodio che le lega: una nascita, quella della Gloria che dà il titolo al film, da una coppia di giovani precari, lei, Mathilda, commessa in prova, lui che si è indebitato per acquistare un'automobile e mettersi in proprio come autista di Uber e, per tirare avanti e crescere la bimba devono affidarsi ai genitori di lei, Sylvie, che lavora di notte in una ditta di pulizie, e Richard, autista di mezzi pubblici. Ed è proprio quest'ultimo, patrigno di Mathlida e che la considera più figlia dell'altra che ha avuto con Sylvie a convincere la moglie a comunicare la nascita a Daniel, l'ex compagno a padre biologico di Mathilda, che sta scontando gli ultimi mesi di una lunga condanna per omicidio a Rennes. Così, quando questi esce, ormai anziano e rassegnato all'idea di aver buttato via un'intera esistenza, a cominciare dal rapporto con moglie e figlia, per difendere un amico, compagno di bisbocce e piccoli furti, torna in città per conoscere la nipotina, succedono un po' di cose. Che non sto a raccontare, salvo per sottolineare che, questa volta, la sceneggiatura è troppo fragile e prevedibile nell'affastellarsi di coincidenze e disvelamenti troppo rapidi per essere credibili. Tutto un equilibrio, per quanto fragile, va in pezzi; il non detto diventa palese; il redento si assume una colpa che non ha commesso per porre un qualche rimedio e tutto in qualche modo si sistema ma non potrà mai essere come prima. Un po' troppo in una volta sola, ma va dato atto che Guédigain non è per nulla indulgente con i suoi "antieroi", né con i genitori che pur si prodigano a tenere in piedi la baracca, né tantomeno con le due coppie di giovani, Mathlida e Nicolas da un lato, la sua sorellastra e il cognato bell'imbusto e imbroglione dall'altro, privi di qualsiasi solidarietà ed etica, con in mente solo il mito dei soldi facili e senza sforzo, risultato anche di un'educazione del tutto fallimentare. Perché è vero: se i giovani non sono incazzati e non glie ne frega più niente di cercare di cambiare il mondo o almeno evitare che vada all'aria, gran parte della responsabilità va alle generazioni che li hanno preceduti, a cominciare dalla mia, che è poi quella del regista. Detto questo, non è il suo migliore film, ma si fa comunque vedere. 

sabato 22 maggio 2021

Alida

"Alida" di Mimmo Verdesca. Voce narrante di Giovanna Mezzogiorno. Con Alida Valli, Pierpaolo De Mejo, Piero Tosi, Livia SIlvi, Mariù Pascoli, Tatiana Farnese, Larry De Mejo, Carlo De Mejio, Maurizio Ponzi, Charlotte Rampling, Bernardo Bertolucci, Vanessa Redgrave, Thierry Frémaux, Marco Tullio Giordana, Dario Argento, Roberto Benigni, Maria Laura De Mejo, Felice Laudadio, Margarethe Von Trotta. Italia 2020 ★★★★

Quasi in coincidenza con il centenario della nascita (Pola, 31 maggio 1921) esce questo affettuoso, dovuto omaggio alla più grande e completa, a mio parere, attrice cinematografica (e non solo) italiana: Alida Valli. L'iniziativa è di suo nipote Pierpaolo di Mejo, figlio di Carlo, a sua volta attore e primogenito di Alida, scomparso nel 2015, che collaborando con il regista Mimmo Verdesca apre gli archivi di famiglia e ne ricostruisce la figura attraverso reperti di ogni tipo: fotografie, filmati privati e interviste pubbliche, spezzoni dei suoi film più famosi ma soprattutto la corrispondenza, tenuta in ordine rigoroso, con la famiglia e con i colleghi, dai quali tutti fu apprezzata, e furono moltissimi, in Italia, negli USA e in Francia, ma a emergere non è soltanto la statura dell'artista, quanto, e soprattutto, la donna modernissima e fuori da qualsiasi stereotipo, che ha sempre difeso con forza la propria indipendenza. Nata Altenburger (Il nome d'arte Valli fu scelto dall'elenco telefonico) figlia di un professore di filosofia trentino e di una musicista istriana, di una bellezza abbagliante, malinconica e al contempo altera in qualunque età della sua vita, uno sguardo a dir poco magnetico (ma anche la voce non scherzava: cantava lei Ma l'amore no, la canzone più famosa degli anni Quaranta) ebbe successo fin da giovanissima dopo aver frequentato il Centro Sperimentale di Cinematografia avendo da subito ruoli da protagonista (Mille lire al mese è del 1938), fino a diventare l'attrice simbolo del cinema fascista, rifiutandosi però di seguirlo nella sua fase repubblichina: si nascose a Roma fino alla sua liberazione nel 1944; ha recitato con tutti i maggiori registi italiani ed ebbe anche una fase holliwoodiana, scritturata nel 1947 dal celebre produttore David Selznik, che voleva farne la Ingrid Bergman italiana: ruppe il contratto, accettando di pagare una penale pesantissima, perché non sopportava le regole dello show biz USA, la pretesa di controllo totale sulla propria vita e il tributo da pagare a un divismo mai cercato e voluto. Di quel periodo, comunque, film indimenticabili come Il caso Paradine di Alfred Hitchcock e Il terzo uomo di Carol Reed. Rientrata in Italia tornò subito al lavoro con, tra gli altri, Soldati, Visconti (Senso), Pontecorvo e fu coinvolta nello scandalo Montesi per la sua relazione con Piero Piccioni (poi completamente scagionato): era il terzo uomo della sua vita, dopo l'aviatore Carlo Cugnasca, abbattuto nel 1941 a Tobruk e Oscar De Mejo, musicista come Piccioni, sposato e padre dei suoi due figli, da cui aveva divorziato. Abbandonò per un periodo i set dedicandosi al teatro e formando una compagnia propria con Tino Buazzelli e Raoul Grassilli, per tornare alla grande al cinema con Antonioni nel 1957 (Il grido). Ebbe anche un periodo francese, e non smise mai di lavorare, tra cinema, teatro e televisione, voluta (e benvoluta) da tutti i registi più significativi, tra cui Vadim, Brusati, Chabrol, Pasolini, i due Bertolucci, Zurlini, Bava, Ponzi, Giordana, Argento, fino a poco prima della morte, a Roma, nel 2006. Tutti ne hanno serbato un bellissimo ricordo come persona, riservata, intelligente, sensibile, schietta, che nulla concedeva al divismo, grande lavoratrice e grande tempra, di carattere ma anche dolce e alla mano. Per me, la più bella e la più brava. Forse anche per le comuni origini, nonché segno zodiacale, ne sono sempre stato perdutamente innamorato. Quindi, un film che non mi sarei perso per nessun motivo. Lo consiglio. 

giovedì 20 maggio 2021

In the Mood for Love

"In the Mood for Love" (花樣年華花样年华/Faa yeung nin wa) di Wong Kar-way. Con Tony Chiu-Wai Leung, Maggie Cheung, Rebecca Pan, Lai Chen, Li Gong, Tung Cho 'Joe' Cheung. Cina (Hong Kong), 2000 ★★★★★

L'uscita in edizione restaurata in K4 di questo film di 20 anni fa, è l'occasione buona per rifarsi gli occhi e rendersi della quantità immensa di ciarpame che ha inondato sale e canali in streaming, e dell'abisso che si è aperto nel frattempo anche con i migliori prodotti attuali: dalle prime immagini, che ci riportano con una fedeltà impressionante alla Hong Kong del 1962 immergendoci immediatamente nelle sua atmosfere di vita quotidiana, ci si rende conto di quanto siano suggestive e importanti per raccontare, attraverso une serie di sequenze mai più lunghe di qualche minuto, ma in compenso ricchissime di particolari quanto un quadro fiammingo, una storia d'amore che non si realizza e lo scorrere inesorabile del tempo. Il signor Chow, giornalista, e la signora Chan, segretaria di un'azienda, sono vicini di stanza uno degli alveari della città allora ancora colonia della Gran Bretagna, e si incontrano negli angusti spazi comuni, nei corridoi e sulla scale: i rispettivi coniugi li vediamo soltanto una volta, di spalle, perché sono per lo più in viaggio. Spesso in Giappone, per lavoro, il signor Chan, e guarda caso altrettanto spesso la signora Chow, che lavora nell'agenzia di viaggio di cui si serve l'uomo d'affari. Ci vorrà un po' di tempo, e qualche incontro discreto, perché il signor Chow e la signora Chan si rendano conto che i rispettivi coniugi sono amanti, e proprio mentre si domandano reciprocamente come sia potuto accadere, cercando di entrare nella mente dei due fedifraghi e immaginandosi i loro discorsi, ed esercitandosi anche perfino a chiedere loro chiarimenti al momento opportuno, anche tra loro si insinua il sentimiento, a cui però resistono perché, pur sapendo perfettamente di amarsi, non vogliono "essere come loro". Finale e unica scena in esterno con il signor Chow che, quattro anni dopo, inviato in Cambogia per la visita del generale De Gaulle a Phnom Penh, si aggira tra le rovine dei templi di Ankgor Wat, ossia la testimonianza di un passato sepolto per secoli e miracolosamente tornato alla luce, fuori da qualsiasi dimensione temporale, e affida il suo segreto al pertugio in un muro. Il tutto raccontato in maniera magistrale e lineare, affidandosi alla recitazione raffinatissima e discreta di due interpreti straordinari e alla ripetizione di gesti minimi, discretissimi, cenni, occhiate che bastano a evocare una sensualità raffinata senza nemmeno doverla accennare; con il fondamentale accompagnamento di una colonna sonora altrettanto elegante e affidata spesso alla voce di Nat King Cole e curata da Michael Galasso. Wong Kar-way è tra i più grandi registi di Hong Kong, già fucina di film di qualità e, in vista dell'imminente 23° Far East Film Festival di Udine, il CEC-Cinema Visionario, per il ritorno in sala dopo le recenti restrizioni, ha organizzato una rassegna dei suoi film migliori: garantito che non me ne perderò uno. 

lunedì 17 maggio 2021

Oxygène

"Oxygène" di Alexandre Aja. Con Mélanie Laurent, Mathieu Amalric, Malik Zidi, Mark Saez, Laura Boujena. USA, Francia 2021 ★★+

A conferma che l'esposizione al vàirus che dura ormai da 15 mesi ha colpito inesorabilmente la psiche degli umani, ecco un altro claustrofobico film tra fantascienza e thriller che, come il recente Estraneo a bordo, ruota attorno alla carenza di ossigeno, in seguito a un guasto, che mette in pericolo la vita dell'equipaggio di una navicella spaziale. Qui però la protagonista è unica: la brava Mélanie Laurent, già eroina di Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino, su cui regge l'intera pellicola e che ne è anche l'unico aspetto davvero positivo, laddove nell'altro film citato le interpretazioni erano di livello penoso. Come in molti film di fantascienza la confusione regna sovrana e si fatica a seguire il filo, e forse non è nemmeno essenziale: quel che importa è il conto alla rovescia in tempo reale, quando una donna si sveglia in una capsula criogenica (qualsiasi cosa questo significhi) senza avere la minima idea di dove si trovi e sprovvista di memoria. L'unico suo interlocutore è MILO, il computer e assistente di bordo che l'aiuta (ma anche l'inganna) nel tentare di scavare nella sua memoria per trovare una soluzione. Man mano scopre di chiamarsi Elizabeth Hansen e di essere una scienziata, le immagini che a tratti compaiono nella sua sia mente la riportano a scorci del passato e alla vita matrimoniale con tale Léo, ma potrebbero anche trattarsi di allucinazioni, perché parrebbe che fosse scomparso in seguito a una pandemia (ma guarda caso) che aveva colpito l'umanità. Il tempo scorre inesorabile, tra elucubrazioni della mente e sospetti di essere manipolati da MILO (inevitabile ricordarsi di HAL in 2001 Odissea nello spazio), colloqui telefonici con la terra (situata a 68 mila chilometri di distanza), fino a scoprire di fare parte di un equipaggio "dormiente" spedito a colonizzare un pianeta distante 14 anni luce dalla terra e, infine, di essere nient'altro che un clone di sé stessa, che era la genetista che aveva reso possibile il trasferimento di memoria tra esseri viventi dopo averlo sperimentato sui ratti. Spazi ristretti; ansia da soffocamento, stati allucinatori; capsule che ricordano nella forma dei telefoni cellulari; non c'è alcun dubbio che l'esperienza del Covid-19 abbia lasciato il segno nella fantasia di autori e regista, a cui però si deve la creazione di inquadrature e immagini suggestive e un uso della macchina da presa non dozzinale che fanno in parte perdonare le soluzioni cervellotiche adottate. Vedibile in streaming su Netflix, quantomeno è guardabile, ma non arriva alla sufficienza. 

domenica 9 maggio 2021

Est - Dittatura Last Minute

"Est - Dittatura Last Minute" di Antonio Pisu. Con Matteo Gatta, Lodo Guenzi, Jacopo Costantini, Paolo Rossi Pisu, Ioana Flora, Ana Ciontea, Liviu Cheloiu e altri. Italia 2020 ★★★+

Il tema della scoperta del mondo a Est dei nostri confini, al di là di quella che fino al 1989 era la Cortina di Ferro, non è nuovo nel cinema italiano degli anni più recenti, e ha a che fare da un lato con il provincialismo e la profonda ignoranza di materie come storia e geografia, dall'altra con la stupefazione davanti a una realtà, quella della gente normale, che comunque era differente sia da quella che veniva raccontata dalla propaganda comunista da un lato, sia da quella rinfacciata dai suoi avversari e che comunque aveva molto a che fare con quello che eravamo anche noi solo qualche decennio prima. Ciò che è diverso in quello che è stato definito l'ennesimo road movie su questo tema, è il basarsi su una vicenda vera, una vacanza organizzata nell'ottobre del 1989 da tre amici ventiquattrenni di Cesena prima dell'imminente crollo del Muro e di tutte le frontiere inter-europee, una classica "zingarata" con la scusa di fare qualche commercio nei mercatini che si tenevano nei Paesi dell'allora Patto di Varsavia in piena crisi economica e di regime: molti ricorderanno delle facili conquiste di cui si favoleggiava negli anni Settanta e Ottanta portandosi dietro in valigia collant, biancheria intima, profumi, sigarette americane, caffè, dischi, congegni elettronici e quant'altro risultava introvabile da quelle parti. Questo genere di turismo, quasi esclusivamente maschile, era peraltro tipico di quelle regioni governate dal PCI, in testa Emilia Romagna e Toscana, e non a caso: avanguardie ne furono prima i funzionari medio-piccoli dei Partitone e del mondo delle cooperative, a cui si aggiunsero in seguito imprenditori e veri e propri avventurieri (ce n'è uno anche in Est, a cui i tre ragazzi si rivolgono in un momenti di difficoltà) che vi gravitavano attorno (senza le entrature dell'apparato non si combinava niente, a Est, come ben sapevano gli Agnelli fin dai tempi del vecchio Senatore e poi di Valletta, prima e dopo la Seconda Guerra Mondiale). Una vacanza, dunque, documentata dai filmati originali girati dai tre personaggi con una videocamera, che vengono inseriti in questa pellicola gradevole, prodotta con pochi mezzi ma tanta buona volontà e sincerità, da rasentare in qualche caso l'ingenuità. I tre hanno come prima meta Budapest, salvo scoprire che di fatto i confini con l'Austria, già abbattuti nell'estate (l'Ungheria era il corridoio attraverso cui i tedeschi dell'Est raggiungevano la Repubblica Federale), hanno già cambiato la faccia del Paese (peraltro storicamente avverso a tutto ciò che viene dalla Russia) e la gente poco propensa a farsi ammaliare dalle mercanzie che si erano portati dietro. Nella capitale magiara però incontrano un esule rumeno che, sentendoli progettare di proseguire verso Bucarest, li prega di recare con sé una valigia da consegnare alla sua famiglia rimasta là: il film, che non vado a raccontare, gira attorno a questa valigia, prima gettata via per paura del suo possibile contenuto, e poi ritrovata e portata ai destinatari, ed è il modo di capire davvero come vivevano i rumeni, le loro aspettative e le loro angosce in quel periodo degli ultimi, pericolosissimi colpi di coda di un regime, criminale e paranoico, quello di Ceausescu e della sua consorte, protetto dalla famigerata Securitate, l'ultimo a resistere alle presa d'atto della realtà da parte di Gorbaciov per primo e degli alleati dell'ex URSS. Considerata la scarsezza del budget e il semidilettantismo degli interpreti, il risultato è senz'altro sopra le aspettative e il film godibile, interessante e non banale.

martedì 4 maggio 2021

Nomadland

"Nomadland" di Chloé Zhao. Con Frances McDormand, David Strathairn, Linda May, Charlene Swankie, Derrick Janis, Cat Clifford, Emily Jade Foley, Peter Spears e altri. USA 2020 ½

Miglior film, miglior regia, migliore attrice protagonista: un tris di Oscar, nell'edizione 2021, sostanzialmente un en plein. Osannato dalla critica, se ha il merito di mostrare lati degli USA particolarmente sgradevoli, su cui gli estimatori del sistema americano sorvolano, come gli effetti della crisi iniziata nel 2008 e che ha colpito soprattutto la fascia d' età dai 60 anni in su, quella dei neopensionati o pensionandi, costringendone una fetta non irrilevante a una scelta di nomadismo, è anche estremamente ambiguo, facendo capire che si tratti di una decisione presa in linea con il grande spirito di libertà e bisogno di ampi spazi che caratterizza la Nazione, lo stesso, in fondo, che animava i pionieri (quelli della corsa all'Ovest, zona battuta anche da questa pellicola che a tratti è volutamente documentaristica, ricavata com'è da un'inchiesta diventata libro di Jessica Bruder), gli stessi, ma questo non lo si dice, che a suo tempo sterminarono i nativi. Qui la protagonista è Fern, Frances McDormand, anche produttrice che, rimasta vedova, lascia la cittadina d'origine, Empire, nel Nevada, desertificata dopo che la fabbrica che ne giustificava l'esistenza ha chiuso, perdendo perfino il codice di avviamento postale (anche qui il ricordo va alle città fantasma del Far West: una consuetudine tutta a stelle e strisce abbandonare centri abitati a sé stessi per un eterno altrove in cui trovare occasioni migliori per la realizzazione del Sogno Americano). Così carica il necessario su un furgone e prende la strada, nella miglior tradizione, per l'appunto on the road, non per evadere, o cercare di combattere il sistema, no: per andare avanti a farsi il culo come stagionale tra un lavoro (si fa per dire) precario e l'altro, da Amazon nel periodo di Natale, come inserviente in di campeggio in una sorta di Jurassic Parc in estate, e così via. E, così come lei, tutto un giro di disperati, che si ritrovano qui a là lungo una sorte di circuito della sfiga scambiandosi dritte e storie di vita, va da sé dignitosi e che anzi se la raccontano (hanno perfino un guru che organizza dei raduni) di essere protagonisti di un'avventura che li porta a contatto con la propria essenza nonché con la natura invece che dei disadattati e sradicati. In sostanza giustificando un sistema che non solo li ha lasciati in braghe di tela, togliendo loro assistenza sanitaria, la casa, spesso il diritto a un minimo di pensione, sbattendoli sulla strada, ma così fetente da farla passare come una scelta di vita. In linea, va da sé, con l'essenza americana e la malintesa etica di un lavoro che, di fatto, è una forma di schiavitù. Ritmi lenti, squallore dominante (d'altronde buona parte degli USA quello è), dialoghi di una tristezza e povertà che possono essere interpretati a piacere: manifestazione di realismo estremo oppure espressione di una miseria comunicativa assoluta. Squallore estetizzante, è l'impressione che ho ricavato io di un film che forse vorrebbe commuovere, non riuscendoci; senza speranza e quasi compiaciuto di esserlo, fastidioso prima ancora che sgradevole, monocorde e noioso. Per un ritorno del cinema in sala avrei preferito qualcosa di meglio.

sabato 1 maggio 2021

Estraneo a bordo

"Estraneo a bordo" (Stowaway) di Joe Penna. Con Toni Colette, Anna Kendrick, Daniel Dae Kim, Ryan Hadaller. USA, Germania 2021 ★+

Sciatteria. E' quello che caratterizza questo film, vedibile in streaming su Netflix, in tutti i suoi aspetti. Dalla trama, alla sceneggiatura, alla recitazione. Sciatteria che fa il paio col modo in cui è stata combinata la missione su Marte, organizzata dalla compagnia Hyperion, con tre membri d'equipaggio: la comandante, una ricercatrice medica e un biologo, della durata prevista di due anni, per una serie di sperimentazioni tra cui la coltivazione di alghe, con una navicella inizialmente prevista per due persone e poi adattata per tre. Peccato che poco dopo aver agganciato la stazione orbitante a bordo della quale dovrebbero raggiungere il Pianeta Rosso scoprono un quarto inquilino, un giovane (nero: il clandestino, ti pareva...) che asserisce di essere un ingegnere addetto al supporto di lancio, che era rimasto incastrato in un'intercapedine, dove peraltro era alloggiato un dispositivo per la sottrazione di anidride carbonica andato distrutto, in seguito a un incidente. Diventa presto chiaro che l'ossigeno non basterà per tutti, nemmeno utilizzando le coltivazioni di alghe prima del previsto per produrne, e che toccherà sacrificare uno dei tre. In questo la Hyperion, ovvero l'azienda che ha organizzato l'impresa in modo cialtronesco e costruito la navicella con materiali di risulta (una specie di Juventus dello spazio col suo Stadium di latta e cartongesso) è stata chiara: dovrà essere l'estraneo a bordo, risultando impossibile sia tornare indietro, sia mandare un mezzo di soccorso. I tre membri originari dell'equipaggio ne parlano tra loro, escludendo il giovanotto, e la medichessa chiede di concedergli altri 10 giorni per verificare se riescono a trovare una soluzione che impedisca la sua eliminazione. Il biologo dopo un paio di giorni invece decide di dirglielo e gli passa una siringa per porre fine ai suoi giorni. Viene la geniale idea di recuperare dell'ossigeno liquido in un qualche serbatoio della stazione che prevede una passeggiata all'esterno, ovviamente qualcosa va storto, perché nel frattempo scoppia una tempesta solare, alla fine qualcuno si dovrà sacrificare e indovinate un po' chi sarà? Io non lo svelo: chi vuole saperlo guardi il film, anche se glielo sconsiglio, perché, per l'appunto, è sciatto, noioso e scombiccherato. Perché se uno decide di girare una pellicola di fantascienza, quindi che racconta qualcosa di ipotetico, deve basarsi su delle ipotesi plausibili e dunque avere una certa credibilità, e qui casca l'asino, perché per quanto negli USA tutto si faccia solo per il bizniz, non è ammissibile che un'astronave parta senza che ci si accorga che c'è un abusivo a bordo; ancora meno ammissibile che nessuno verifichi la verità di quello che il malcapitato raconta; per nulla plausibile che durante le movimentate fase di decollo, quando tutti indossano caschi e maschere d'ossigeno costui, gravemente ferito all'addome, e incastrato in un bugigattolo, non solo soprarriva ma guarisca perfettamente nell'arco di tre giorni. Se poi l'intento era di instillare un dubbio etico, il risultato è controproducente, in mezzo a questo guazzabuglio ridicolo, condito con l'immancabile buonismo un tanto al chilo e zeppo di citazioni di altri film di ben diverso livello, a cominciare dall'immancabile 2001 Odissea nello spazio. Si salva soltanto qualche immagine suggestiva e la fotografia di livello accettabile.