venerdì 31 gennaio 2020

In piedi nel caos


"In piedi nel caos" di Véronique Olmi. Traduzione di Monica Capuani, regìa di Elio De Capitani. Con Cristina Crippa, Angelo Di Genio, Carolina Cametti, Marco Bonadei. Scene e costumi di Carlo Sala; suono di GIuseppe Marzoli; luci di Nando Frigerio. Produzione Teatro dell'Elfo. Al Teatro Elfo/Puccini di Milano fino al 2 febbraio.
"Non sarà una passeggiata - mi aveva avvertito Elio De Capitani, incontrato al bar del teatro prima dello spettacolo di cui è regista -. Ci ho messo tutto me stesso, e questo ho chiesto agli attori" e così è stato: impegnativo e coinvolgente sia per il pubblico della Sala Fassbinder, raccolta e col pubblico pressoché in scena, sia per gli interpreti, in particolare Katia (un'appassionata e intensa Carolina Cametti, autrice di una prestazione a dir poco atletica per l'energia profusa, per cui non stupisce che dopo due ore e un quarto fosse stremata), giovane moglie di Yuri (Antonio Di Genio), tornato con una gamba in frantumi dalla guerra sporca condotta dal governo russo in Cecenia negli anni Novanta, che come quasi tutti i reduci si rifiuta di parlare di quanto ha vissuto durante un'esperienza che si sforza di dimenticare con massicce dosi di alcol scadente, non riuscendo più a comunicare né a parole, né fisicamente con la giovane moglie. Un angosciante dramma d'amore, dunque, che si svolge a Mosca, nel 1995, all'interno di una kommunalka, un appartamento condiviso di sovietica memoria, quella incarnata da babushka (Cristina Crippa), la figlia dei nobili ex proprietari espropriati e spediti in Siberia in epoca staliniana, che ne è una sorta di governante. Un altro inquilino è Grisha (Marco Bonadei), un traffichino punk abbastanza losco con cui Katia innesca un rapporto ambiguo e sessualmente compensativo per la mancanza di desiderio del marito, da cui rimane incinta e a cui chiede, quando questi a sua volta verrà arruolato per la guerra, di raccontare quello che vi avviene, ossia ciò che per Yuri rappresenta l'indicibile: la verità. Sono questi i quattro personaggi che animano la scena, rappresentata da una cucina squallida, dove echeggiano rumori, girano scarafaggi, ma sembrano molti di più, anche perché ce ne sono altri che vengono soltanto nominati, a cominciare dal padre di Yuri, ex bolscevico, immobilizzato a letto, accudito da Katia, la cui sopravvivenza è indispensabile perché titolare di una pensione senza cui il ménage della kommunalka non potrebbe tirare avanti. Sferzate di luce, suoni cupi e talvolta ossessivi, il tutto rende l'atmosfera angosciosa: i lati più oscuri e anche sordidi dei personaggi, con le loro esigenze e rimostranze reciproche vengono a contrasto in maniera particolarmente intensa a causa della convivenza forzata, eppure rimane sempre in vita una speranza di miglioramento in ognuno di essi, nonostante tutto. L'esistenza umana è una lotta, ricordare è indispensabile ma lo è anche saper dimenticare, per sopravvivere e andare avanti. Tratto da una pièce dell'autrice francese Véronique Olmi, che avendo anche ascendenze slave conosce bene le caratteristiche dello "spirito russo", il dramma ha comunque una valenza universale ed è di rara intensità. Scenografia più che realistica, luci e suoni esemplari, interpretazioni di altissimo livello ed intensità. Grazie Maestro e grazie a tutti gli Elfi

martedì 28 gennaio 2020

1917

"1917" di Sam Mendes. Con George McKay, Dean-Charles Chapman, Mark Strong, Andrew Scott, Richard Madden, Claire Duburcq, Colin Firth, Benedict Cumberbatch e altri. GB 2019 ★★★★
Tutto il criticume  a straparlare di "unico piano sequenza" lungo 110', già di per sé un'idiozia, al di là delle "cuciture", per quanto quasi (appunto: quasi) impercettibili in fase di montaggio, cosa non poi così miracolosa utilizzando il formato digitale e le moderne diavolerie offerte dall'informatica, anche perché, raccontando una vicenda che avviene nell'arco delle 24 ore, si passa dalla luce, al buio e di nuovo alla luce dell'alba. E' il solito luogocomunismo, come quello dell'attore feticcio: quando comincia uno, gli altri seguono a ruota. Bastava dire che Sam Mendes, il poliedrico regista inglese la cui carriera sta a dimostrare che è un maestro dietro l'obiettivo e a usare le immagini per coinvolgere lo spettatore, ha seguito passo per passo, camera in spalla all'occorrenza, i due protagonisti, due caporali inglesi incaricati della missione pressoché suicida di portare un dispaccio urgentissimo, attraversando le linee abbandonate dai tedeschi nelle Fiandre nella primavera del 1917, ma disseminate da trappole, che annulli l'ordine di attaccare impartito per il giorno successivo al comandante di un altro settore del fronte salvando così la vita di 1600 soldati tra cui il fratello di uno dei due: la ritirata del nemico era puramente strategica, un tranello, e non c'è altro modo di comunicarlo ai commilitoni se non rischiando la pelle dei due ragazzi. Il risultato è che chi assiste è immerso nell'azione dei due soldati, esperti in mappe, una parossistica corsa contro il tempo con continui colpi di scena, col paradosso che una sfibrante guerra di posizione, dominata dalla frustrazione dell'orrenda, inimmaginabile vita delle trincee, viene evocata attraverso il movimento continuo, ad attraversarle una dopo l'altra; superare i reticolati, crateri pieni di cadaveri, le terre di nessuno, città fantasma, cunicoli, fiumi, boschi. Un film che non potrebbe essere più pacifista di così, che prende allo stomaco precipitando chi guarda, munito di una sorta di "terzo occhio", nell'orrore, e facendogli vivere addosso l'ansia insopportabile dei due ragazzi e di chi ha vissuto il conflitto che ha cambiato per sempre tutti i parametri della guerra: tra questi Alfred Mendes, scrittore, nonno del regista, dai cui racconti è tratta la sceneggiatura, peraltro ridotta all'essenziale, della pellicola. Tutto funziona: dalla ricostruzione estremamente accurata dell'ambiente, alla scelta degli interpreti, tutti attori britannici, volti noti e meno noti che però hanno già avuto modo di lavorare assieme e risultano affiatati quanto convincenti. Un film per non dimenticare i macelli di quel conflitto maledetto, ben più incomprensibile di quello che lo ha seguito, che ha cambiato la faccia di questo nostro Continente, e di cui andremo avanti a pagare le conseguenze nefaste. 

sabato 25 gennaio 2020

Richard Jewell

"Richard Jewell" di Clint Eastwood. Con Paul Walter Hauser, Sam Rockwell, Kathy Bates, Olivia Wilde, Nina Arianda, Jon Hamm, Dexter Tills, Wayne Duvall e altri. USA 2019 ★★★★½
Il Grande Vecchio del cinema USA, a 89 anni suonati, rimane sempre una garanzia e torna dietro la macchina da presa, stavolta senza recitare lui stesso da protagonista ma affidandone il ruolo a un volto semisconosciuto, Paul Walter Hauser (già apprezzato in Tonya), che interpreta Richard Jewell, protagonista di una storia vera e molto americana: eroe per tre giorni per aver impedito che l'esplosione di una bomba piazzata in uno zainetto sotto a una panchina del Centennial Olympic Park ad Atlanta durante un concerto che si teneva in concomitanza coi Giochi del 1996 avesse conseguenze ben più gravi di quelle che ha avuto (due morti e alcune decine di feriti) e poi azzannato per tre mesi da una stampa cinica e gaglioffa perché sospettato di esserne l'autore. Il tutto per una soffiata da parte di un ispettore dell'FBI (Jon Hamm: perfetto) a una ambiziosa cronista affamata di scoop (Olivia Wilde: brava davvero) secondo cui Jewell, un trentenne della Georgia sovrappeso e mammone, con la vocazione di proteggere il prossimo, da sempre desideroso di entrare in polizia e con un'ammirazione incondizionata (e suicida) verso i tutori dell'ordine, potesse corrispondere al profilo psicologico dell'aspirante eroe da poliziotto fallito qual era ritenuto: per questo si sarebbe fatto assumere come guardia di sicurezza dall'AT&T, una delle aziende che sponsorizzava i giochi, piazzando lui stesso l'ordigno. Facendo ricerche (a senso unico) sul suo passato erano emersi alcuni suoi eccessi di zelo quando era sorvegliante presso un campus universitario e da lì in poi gli avvoltoi dell'informazione stampata e televisiva si sono scatenati assediando la villetta dove abitava con la madre, mentre l'FBI e le altre polizie procedevano con perquisizioni a tappeto, analisi di ogni traccia possibile, reiterati tentativi di ingannarlo e fargli rilasciare dichiarazioni compromettenti, a cui Jewell rischiò più volte di abboccare proprio per la fiducia che nutriva in chiunque incarnasse l'autorità se non lo avesse bloccato Watson Bryant (nel film l'ottimo Sam Rockwell), un avvocato che aveva conosciuto una decina d'anni prima in uno dei suoi lavori precedenti, l'unico che non lo avesse preso in giro per la sua mole e le sue aspirazioni apparentemente infantili: invece che "palla di lardo" o "sfigato" l'aveva soprannominato "radar" per la sua meticolosità e capacità di osservazione. Fu la sua fortuna ricordarsi di lui e rivolgersi a questo legale di provincia per un consiglio su un contratto che gli era stato subito proposto per un libro nei giorni immediatamente successivi all'attentato, quando era ancora idolatrato dai media: gli bastò un colloquio a quattr'occhi e la verifica del tempo occorrente per il percorso che Jewell avrebbe dovuto fare sul luogo dell'attentato se avesse collocato lui lo zaino con l'esplosivo per essere certo della sua innocenza, mentre il suo cliente fino all'ultimo rimase incredulo di fronte al fatto che simili abusi e tanto accanimento da parte dei giornalisti nei suoi confronti potesse accadere proprio nella "sua" America. Ancora una volta Clint Eastwood racconta una storia vera ed emblematica, basandosi su un articolo che la scrittrice e giornalista Marie Brenner scrisse sulla vicenda nel febbraio del 1997 per Vanity Fair, (suoi anche i pezzi alla base dei soggetti di Insider di Michael Mann e il recente A Private War), che mette il dito nella piaga di un'informazione sensazionalista, senza scrupoli, criminalmente superficiale, quanto mai attuale in tempi di gogne mediatiche, per non parlare dei "poteri forti" che agiscono per conto (e all'ombra, nonché spesso all'insaputa) del governo. Ritmo, rigore, essenzialità, potenza delle immagini e scelta degli interpreti (degna di menzione Kathy Bates nel ruolo di Bo Jewell, la madre) come sempre i punti di forza del grande Clint, il bluesman del cinema, che colpisce sempre dritto al cuore. Avercene di uomini della sua coerenza, coraggio, lucidità. Meglio un onesto conservatore (mai reazionario e men che mai razzista) come lui che racconta il suo a Paese per quello che è, nelle sue contraddizioni, che decine decine di Sundancefestivalieri "indie" che rappresentano quella frangia minoritaria che è convinta di esserne la parte migliore: anche il pur grande (non sempre) Woody Allen ha questo difetto. Quella che, con la sua presunzione, andando dietro ai vari Clinton e Obama ha consentito il trionfo di Bush prima e, come se non fosse bastato, Trump oggi, pronto a fare il bis. Richard Jewell riuscì alla fine a entrare in polizia e morì d'infarto a 44 anni, nel 2007. 

mercoledì 22 gennaio 2020

31 Trieste Film Festival - Fuori concorso


Giornata di proclamazione dei vincitori, ieri, al Trieste Film Festival, mentre il programma prosegue oggi con una sezione speciale, intitolata 1990-2020 Time Will Tell, dedicata alla Germania a trent'anni dalla riunificazione e domani con la riproposizione di tutte le pellicole che si sono aggiudicate un premio in questa edizione. La cerimonia di premiazione, avvenuta alle 20, è stata stringata e ridotta all'essenziale, e il pubblico riconoscente rende merito di ciò all'organizzazione, anzi: ai Bravi Organizzatori e Conduttori, preceduta nel pomeriggio da due film fuori concorso, Heidi e V Krag, entrambi anteprima italiane, e seguita da un terzo, La Gomera, in uscita in febbraio e già presentato in novembre al Torino Film Festival oltre che, la scorsa primavera, a Cannes in concorso per la Palma d'Oro. Elemento comune: le attitudini della polizia dei rispettivi Paesi, Romania e Bulgaria.
Primo della serie "Heidi" di Catalin Mitulescu, con Gheorghe Visu, Catalina Mihai, Bogdan Dumitrache, Ada Condescu, Florin Zamfirescu e altri, Romania 2019. Visoiu, un anziano, smaliziato ed esperto sbirro in procinto di andare in pensione, viene incaricato di scovare, nella zona che pattuglia da una vita e conosce come le sue tasche alla periferia di Bucarest, due prostitute per convincerle a testimoniare in un processo a un gruppo di mafiosi locali; ovviamente le scova subito, ma con una in particolare, Heidi, si instaura un rapporto ambiguo, di scambio di favori ma anche in qualche modo protettivo: la ragazza finirà male e lui, che opera spesso e volentieri anche oltre i limiti del regolamento, perfino sospettato di essere il possibile assassino: anche se fosse vero, il procuratore che indaga non è però certo meglio di lui. Ben fatto, mi ha ricordato a tratti Indagine su un cittadino al di ogni sospetto, che però era un capolavoro assoluto. Il secondo è stato "V krag" (La ronda) di Stephan Komandarev, con Ivan Barnev, Assen Blatechki, Stoyan Doychev, Vassil Vassilev-Zouek, Irini Jambonas, Stefan Dernolyubov e altri, Bulgaria, Serbia, Francia 2019. Quello che mi è piaciuto di più, anche per la prestazioni di interpreti di gran calibro tra cui spicca Ivan Barnev, coprotagonista di Bashtata, il lungometraggio vincitore del festival, che è venuto a presentare di persona.
E' un classico film "tutto in una notte" che segue tre coppie di agenti in pattuglia a Sofia: ci sono l'ex comunista e il neoliberista, accomunati dal cinismo e dall'avidità di quattrini; la "bella e la bestia", due quarantenni che hanno anche una sorta di relazione, di cui si apprezza il lato umano che emerge nonostante  il necessario cinismo che bisogna esercitare nel loro mestiere e di fronte a certe situazioni, specie impreviste, che però fanno emergere ricordi, dubbi, remore di coscienza e senso morale; infine l'anziano e il neofita, col primo che si nasconde dietro il regolamento per tirare a campare ed evitare rogne e il secondo che, benché veda tanti suoi coetanei che appena possono abbandonano la Bulgaria per cercare fortuna altrove preferisce rimanere e fare qualcosa che ritiene utile, usando però il buon senso. Una storia circolare, che ci permette anche di avere uno spaccato sulla società bulgara attuale e sulla sua capitale: ci sono azione, umanità, ironia, denuncia. E non pochi spunti di riflessione. Terzo e ultimo, a chiusura della serata al Politeama Rossetti, 
"La Gomera" di Corneliu Porumboiu, con Vlad Ivanov, Catrinel Marlon, Rodica Lazar, Sabin Tambrea, Agusti Villalonga, Antonio Buil e altri, Romania, Francia, Germania 2019, un noir classico nella trama, che però, tra una citazione e l'altra, fatte con molta autoironia, spazia anche in altri generi le cui tracce tarantiniane fanno sentire nel suo elemento chi scrive.
Anche qui abbiamo un poliziotto corrotto: Cristi, egente della squadra narcotici, un tipo strano, ambiguo, taciturno, figlio a quanto pare di un alto dirigente del regime di Ceausescu e con una madre ingombrante, sospettato e messo sotto stretta sorveglianza da una odiosa e avida procuratrice il cui vero obiettivo non è la giustizia o incastrarlo, ma arrivare, tramite lui, al bottino di 30 milioni di euro derivante da traffico di droga fatto scomparire da uno spacciatore rumeno a una banda di grossi trafficanti spagnoli. Sta a Cristi aiutare a a far fuggire dalla prigione di Bucarest il rumeno, e per farlo viene inviato a La Gomera, isola delle Canarie, per essere addestrato all'uso del Silbo, curioso linguaggio "fischiato" con cui i locali comunicano sulle lunghe distanze, e così non essere "intercettabile" e comprensibile dalle onnipresenti cimici piazzate dalla magistrata. Come in ogni buon noir non può mancare la femme fatale (Catrinel Marlon) e i due protagonisti, abbastanza a sorpresa, si riveleranno fuori da ogni finzione proprio nel luogo più finto di tutti di una città già artificiale per conto suo come Singapore.  Un omaggio al cinema che è finzione per antonomasia da parte del regista. Decisamente divertente. 

martedì 21 gennaio 2020

31 Trieste Film Festival - And the winner is...


..."BASHTATA" (Il padre / The Father) di Kristina Grozeva e Petar Valchanov. Con Ivan Barnev, Ivan Savov, Tanya Shahova, Hristov Nedkov, Nikolay Todorov, Boyan Doychhinovo, Margita Gosheva e altri (BG, GR 2019), a cui va il Il Premio Trieste per il miglior lungometraggio in concorso (€ 5.000) votato dal pubblico, "elaborazione di un lutto attraverso il viaggio assurdo e sgangherato di un padre e di un figlio, tra sensi di colpa e legami da riallacciare" scrive il sito ufficiale del TSFF, che elenca anche i vincitori delle altre sezioni del festival mentre, sempre per i lungometraggi il Premio InCE (Iniziativa Centro Europa, € 3000) va a Marko Škop per Nech je svetlo (Sia fatta luce), con Milan Ondrik, Zuzana Konečná, František Beleš, Lubomir Paulović, Katarina Kormanaková e altri, SK, CZ 2019 con la seguente motivazione: "Per la sua attenzione critica verso la società, per la capacità di metterci in guardia dai pericoli degli estremismi e della connivenza tra poteri forti; per l’attenzione rivolta alla formazione dei più giovani ponendo educazione e cultura come unica risposta contro intolleranza e razzismo"; verdetti che condivido, con une lieve preferenza personale per il secondo film. Peccato non essere riuscito a seguire anche i cortometraggi, ma considerato il programma toccava scegliere: alla prossima!

31 Trieste Film Festival - 3ª round


Terzo e ultimo giorno di proiezione di lungometraggi in gara: per una questione di orari e per non rischiare un'overdose, e non per un rigurgito filo serbo come si potrebbe sospettare da parte mia, ho rinunciato a "Zana" di Antoneta Kastrati, Kosovo-Albania 2019, che altri clienti del festival mi assicurano invece sarebbe valso la pena. Tant'è: la sequenza temporale dei film visti ieri riproduce il mio indice di gradimento in ordine decrescente.
Primo posto sul podio per "Oleg" di Juris Kursietis, Lettonia, Belgio, Lituania, Francia 2019, che oltre a essere un bel film, ha il merito di mettere il dito nella piaga di situazioni di cui tutti sanno, autorità e media, ma pochi parlano e, meno ancora, a cominciare da polizia e magistratura (per non parlare dei politici, ignavi quando non utili idioti) affrontano: ossia dello sfruttamento di immigrati da parte di altri immigrati in ambito comunitario, e stavolta non nella solita Gran Bretagna (peraltro levatasi di torno con le conseguenze che si potranno valutare tra qualche tempo), in Francia o in Italia, quanto nel cuore stesso della UE, ossia Bruxelles. Oleg è un giovane macellaio con passaporto lettone ma non cittadino di quello Stato, perché appartenente alla consistente minoranza russa (che, nella capitale Riga, è numericamente quasi pari agli indigeni) che ottiene un permesso esclusivamente per essere assunto da una ditta di lavorazione delle carni; un collega lo accusa ingiustamente di avergli causato l'amputazione di un dito e viene licenziato, e finisce così nelle grinfie di un malfattore polacco, che lo circuisce assicurandogli di volerlo aiutare e riducendolo in una condizione di quasi schiavitù, affidandogli mansioni umilianti e compromettenti, non pagandolo, sequestrandogli i documenti, cosa che peraltro fa anche con i suoi connazionali. E' della odissea di questo poveraccio che parla Oleg, della responsabilità di chi è al corrente di queste vicende ma preferisce ignorarle, perché alla fine fa comodo così, e lo fa in maniera efficace soprattutto con le immagini, spesso livide, e seguendo il protagonista, che si vede come una sorta di agnello sacrificale abbandonato perfino dal dio in cui crede, l'ottimo Valentin Novopolskij, camera in spalla rendendone l'angoscia e la condizione claustrofobica.
Secondo posto per "Oroslan" di Matjaž Ivanišin, Slovenia-Repubblica Ceca 2019, il cui inizio, con lunghe inquadrature fisse sul paesaggio, le case, le attività quotidiane di un villaggio abitato dalla minoranza slovena appena passato il confine con l'Ungheria, in una giornata invernale lasciano presagire una triste e noiosa flagellatura di zebedei, ma invece sono funzionali a un'idea originale: far rivivere Oroslan, il nome di un anziano che viveva da solo trovato morto nella sua casa, attraverso il racconto, qualche mese dopo e durante dei suoi compaesani, fatto dagli autentici abitanti del villaggio che si sono improvvisati attori, contribuendo non soltanto coi loro volti, il loro linguaggio (spesso un'ibridazione sloveno-magiara) e i loro modi allo spunto dato al regista e sceneggiatore da un racconto di Zdravko Duša e ambientato invece appena oltre il nostro confine, a Tolmino. Oroslan (peraltro un esperto e rinomato macellaio come l'Oleg del film precedente) finisce per essere dunque una presenza assente, mai evocata nemmeno in fotografia, un'immagine creata dal racconto orale di chi lo conosceva da vivo, un'idea suggestiva e originale del regista e sceneggiatore sloveno, il quale confeziona  una pellicola che non si lascia definire e che si colloca tra la finzione e il documentario, come spesso avviene per i lavori di Ivanišin.
Terzo posto per "Kot w scianie" (Un gatto nel muro) di Mina Mileva e Vesela Kazakova, Bulgaria 2019, che era il film da cui mi aspettavo di più e per cui ho avevo rinunciato a Zana di cui dicevo all'inizio, che vuole essere originale e pure divertente ma alla fine, mettendo troppa carne sul fuoco e in maniera velleitaria e usando uno stile troppo indie per i miei gusti, e quindi manierato, finisce in un guazzabuglio in cui si vuole ficcare a ogni costo ingredienti eterogenei e dove a dominare sono invece la confusione e la gara a chi urla di più. Non mancano spunti e trovate simpatiche, ma pure una serie di luoghi comuni frusti in una storia, anche questa ispirata ad avvenimenti reali, nella fattispecie un fatto accaduto a una delle due registe, di due fratelli bulgari che vivono in un condominio popolare in via di ristrutturazione a Londra, architetto e barista in un pub con un figlio lei, accademico in storia e installatore di antenne paraboliche avventizio lui, che mette insieme aspirazioni frustrate, pregiudizi razziali e non, il mito di Londra come una sorta di Mecca per "sfondare", una realtà di uno squallore raro, il tutto innescato da un povero micio che, disorientato dal casino creato per contenderselo, va a rifugiarsi nel buco non otturato nel muro risultato di un lavoro fatto col culo da chi ha installato la caldaia nella casa della protagonista (suo fratello, peraltro). Piuttosto bravi gli interpreti, a cominciare dal gatto, che risultano alla fine più simpatici del film. 

lunedì 20 gennaio 2020

31 Trieste Film Festival - 2° round


Seconda giornata di proiezioni, e quattro i titoli in gara: mi sono limitato a tre, saltando "Lillian", dell'austriaco Andreas Horvath, che racconta l'incredibile viaggio di ritorno in patria di Lillian Alling, un'emigrata russa a New York, avvenuto nel 1927 via terra, attraversando il Continente Nordamericano fino all'Alaska per varcare lo Stretto di Bering: a tutt'oggi risulta dispersa. In programma alle 22, ho preferito rinunciarvi per arrivare relativamente risposato alla tirata che mi aspetta domani. Su registri diversi, e tutti e tre i film a cui ho assistito ieri, da un punto di vista prevalentemente ma non esclusivamente femminile, parlano di rapporti, d'amore e di famiglia e, qualitativamente, piuttosto alto, si equivalgono. Il primo a essere proiettato è stato
Asimetrija (Asimmetria), di Maša Nešković, 36 enne esordiente regista belgradese, una coproduzione di Serbia-Slovenia e Italia 2019. Con un montaggio suggestivo, intreccia le diverse fasi di un relazione sentimentale nello stesso momento (una calda estate dai tempi sospesi) e nella stessa città (la bella capitale serba): in fieri da parte di due adolescenti; l'innamoramento nel caso di due giovani vicini di casa che prima di incontrarsi di persona si "conoscono" attraverso i suoni prodotti nelle rispettive abitazioni e le incursioni di un gatto (animale onnipresente nell'universo balcanico); la separazione (forse momentanea, come da auspicio dell'autrice presente in sala, che ha parlato di una sceneggiatura aperta da completarsi da parte dello spettatore) separazione di una coppia di mezza età dopo vent'anni di matrimonio: in tutti e tre i casi il legame è profondo ed è presente l'aspetto della cura e dell'attenzione all'altro; di spessore le interpretazioni, più toccanti quelle dei sue separandi e stupefacente, per naturalezza, quella dei due ragazzini, che hanno contribuito non poco a modificare la parte a loro assegnata durante le riprese coi loro suggerimenti e la loro spontaneità, come ha tenuto a sottolineare Maša Nešković, specie il ragazzo, completamente digiuno di recitazione: un vero talento naturale. 
Il secondo "Bashtata" (Il padre), di Kristina Grozeva e Petar Valchanov, Bulgaria-Grecia 2019,
prendendo spunto da un episodio realmente accaduto, racconta in chiave tra il grottesco e il comico, e con tocchi di umor nero, il rapporto tra un padre artista, egocentrico e visionario e il figlio realista, pubblicitario e incapace di uscire da un ruolo di dipendenza fino a quando non riesce a comunicare, davanti a una marea di mele cotogne da trasformare un squisita confettura (anche questa, come il gatto, una presenzasimbolica molto balcanica). Dopo il funerale della rispettiva moglie e madre, il telefono cellulare di quest'ultima continua a suonare su quello della zia e vicina di casa: per scoprire l'arcano e rimettersi in contatto con la consorte e scoprire il senso dell'ultima telefonata tra di loro, rimasta a metà perché lui l'aveva interrotta per un diverbio, Vasili, un pittore che nega di essere divenuto tale e famoso a suo tempo col sostegno di un parente che era stato un alto dirigente dell'allora partito comunista al potere, vuole a tutti i costi recarsi da una sorta di santone e costringe di fatto il figlio Pavel, oberato da rogne sul lavoro e dalle continue chiamate della moglie, nella fase finale di una gravidanza delicata per via dell'età matura, a seguirlo nella demenziale avventura, purché non si cacci nei guai. Decisamente divertente e bene interpretato da Ivan Barnev (che ha presentato il film) e Ivan Savov (scelti senza nemmeno fare un provino) mentre per la grande Margita Gosheva basta la presenza in voce (quella della moglie di Pavel: per il resto è una pellicola tutta al maschile, anche se la figura femminile è immanente), Bashtata dipinge efficacemente anche altri aspetti della realtà bulgara, dalla sostituzione, nella creduloneria delle gente, del potere comunista con ogni sorta di ciarlatani e truffatori, ai guasti nei rapporti e nella comprensione dovuti alla comunicazione per mezzo esclusivamente telefonico, che è invece un fenomeno planetario.

Il terzo, infine, "Odnaždj v Trubčevske" (C'era una volta a Trubčevsk) di Larisa Sadilova, Russia 2019 è la storia di un adulterio in una piccola città (molto caratteristica, peraltro) della Russia Sud-Occidentale: la coppia di fedifraghi, vicini di casa, trova il modo di frequentarsi durante  il percorso che lui, camionista, fa con una certa regolarità da Brjansk a Mosca, dove lei racconta alla famiglia di andare in corriera, a vendere capi d'abbigliamento, dai guanti ai cappellini ai maglioni, confezionai a mano (lo spunto alla regista e scenografa è venuta dall'essere venuta a conoscenza di un fatto vero: lei si faceva lasciare lungo il percorso in un luogo prestabilito e lui la raccoglieva passando come se fosse un'autostoppista); per un motivo o per l'altro c'è sempre qualche intoppo e in una piccola comunità dove tutti si conoscono è inevitabile che le tresche vengano prima o poi alla luce: tanto per cambiare sarà la donna a prendere una decisione, mentre l'uomo è in affanno, indeciso e assalito dai sensi di colpa e sarà lei ad averla vinta, ma non come ci si potrebbe immaginare. Bel film, che ha anche il pregio di mostrarci una Russia vera, diversa da quella in formato cartolina, è alla fine quello che mi è piaciuto di più dei tre e quello a cui ho asegnato il voto più alto della giornata. 

domenica 19 gennaio 2020

31 Trieste Film Festival - 1° round


E' entrata nel vivo ieri la 31ª edizione del Trieste Film Festival, progetto di grande successo di Alpe Adria Cinema, dopo la serata inaugurale di venerdì 17 con la presentazione fuori concorso, di A Hidden Life di Terrence Malick, a cui ho rinunciato con sollievo perché non posseggo lo stomaco per reggere 173' dei micidiali pipponi del regista statunitense, questa volta in formato esportazione, nel raccontare la vicenda dell'obiettore di coscienza austriaco Joseph Jägerstätter, condannato a morte dai nazisti per tradimento nel 1943. Dei tre film in gara fra i lungometraggi proiettati ieri, il migliore mi è sembrato "Nech je svetlo" (Che sia fatta luce), di Marc Škop, Solvacchia-Repubblica Ceca, 
che ha messo tutta la sua esperienza di ottimo documetarista per raccontare con estremo realismo la vicenda di Milan, gastarbeiter come muratore nella vicina Baviera, che al ritorno per le ferie natalizie nel suo villaggio natale dell'Alta Slovacchia viene a sapere che il figlio maggiore, un adolescente che frequenta il liceo, è coinvolto nella morte di un compagno, suicida dopo essere stato vittima di un rito iniziatico da parte di un gruppo paramilitare di impronta reazionaria e nazionalista, che monopolizza, bullizzandola, tutta la gioventù del paese, anche con la connivenza della chiesa locale: fenomeno che, assicura il regista, coinvolge tutta la Slovacchia, specie nelle zone rurali ma che è presente anche nella capitale Bratislava, dove si mimetizza più facilmente; alcune inchieste hanno portato all'uccisione dei cronisti che le avevano condotte, tanto da far ipotizzare l'esistenza di una sorta di Stato nello Stato che pone il silenziatore su tutto. Oltre a mettere in luce (come da titolo) una vicenda-tipo, Škop illustra anche la vita di queste comunità periferiche, il ruolo delle donne, che quando non vanno in Austria a fare le badanti si occupano della produzione casearia integrando così le rimesse dei mariti che vanno a fare gli stagionali all'estero ma parla soprattutto del ruolo dell'educazione e dell'esempio dei genitori: Milan ha avuto e ha tuttora un rapporto difficile con una sorte di padre-padrone, e voluto avere con i suoi una relazione completamente diversa, ma la sua esperienza ha lasciato tracce velenose. Un film con molti spunti che vengono tutti trattati con equilibrio, lineare, pulito, che va all'essenziale, scarnificato: non a caso il regista ha preferito lasciarlo senza commento musicale. Notevole interpretazione di Milan Kondrik nei panni dell'omonimo protagonista, ma anche di Zuzana Konečná in quelli della moglie (omonima anche lei). Secondo film, di buon livello ma un po' meno convincente "Monstri (Mostri)" - Romania,opera prima del comunque promettente rumeno Marius Olteanu,
che racconta il modo in cui una coppia sulla quarantina, dopo dieci anni di convivenza, affronta per l'appunto i propri "mostri": pur amandosi e rispettandosi, non potrebbero avere esigenze profonde più diverse, che vengono illustrate in modo suggestivo, seguendo prima Dana e poi Arthur, i due protagonisti (inquadrandoli con un formato verticale che esalta i primi piani, e così sottolinea anche le notevoli interpretazioni, rispettivamente, di Judith State, già apprezzata nell'ottimo Sieranevada e Cristian Popa) in una nottata a Bucarest che precede il chiarimento (quando l'inquadratura a tutto campo, nel formato consueto, li ritrae insieme) e il momento della decisione se continuare la convivenza o affrontare quella che sarebbe, nella loro condizione, la più grande prova d'amore reciproca ossia di lasciarsi. Terzo e ultimo film in concorso della giornata Ivana cea Groaznica (Ivana la Terribile) - Romania-Serbia, di tono opposto ai precedenti, apparentemente giocoso e caotico (si notano tracce di Kusturica: si tratta del il comune spirito serbo che anima il film) ma che si occupa anche qui di relazioni: sia quelle famigliari, sentimentali e amicali della protagonista, che è la stessa bravissima regista e attrice Ivana Mladenović, sia quelle dei due Paesi confinanti, Serbia (dove Ivana è nata, a Kladovo, città di frontiera sul Danubio) e Romania (ha studiato, vive e lavora a Bucarest) e, con esse, i conflitti, anche generazionali.
Lo fa, prendendo spunto da un problema di salute personale, per cui aveva deciso di trascorrere l'estate di due anni fa nella cittadina natale, coinvolgendo tutta la sua vera famiglia e la cerchia di amici e conoscenti (il padre veterinario, la madre casalinga e coi piedi per terra, la nonna, la cui casa è stata realmente invasa dalla troupe, arrivata in buona parte dalla Romania, e dove è stato girato il film: eccezionale, e spassosi quanto realistici i dialoghi). Il risultato è un "casino" ben organizzato, una baraonda al contempo divertente e profonda, che fa ridere quanto fa riflettere. La pellicola, che è all'altezza della prima anche se di genere completamente diverso, ha avuto un'ottimo successo a Locarno ed è purtroppo l'ultima occasione per vedere all'opera Anca Pop, coetanea di Ivana, che interpreta sé stessa: un personaggio rock decisamente notevole della scena rumena, tragicamente scomparsa nel dicembre del 2018, annegata dopo essere finita in macchina nel Danubio, il fiume che divide, ma unisce pure i due Paesi. 

mercoledì 15 gennaio 2020

Hammamet

"Hammamet" di Gianni Amelio. Con Pierfrancesco Favino, Livia Rossi, Luca Filippi, Silvia Cohen, Alberto Paradossi, Renato Carpenteri, Roberto De Francesco, Omero Antonutti, Giuseppe Cederna, Claudia Gerini. Italia 2020 ★★★★-
Sono stato fin da prima della sua fondazione sostenitore, abbonato e lettore de Il Fatto Quotidiano, ma quando diventa il capofila di tutti quelli che giudicano l'ultimo film di Gianni Amelio l'agiografia da santo laico per Craxi e una sua totale assoluzione non sono d'accordo. Sono nato a Milano, conosco piuttosto bene ambiente e personaggi del riformismo ambrosiano prima e della città da bere berlusconizzata grazie all'avvento e all'appoggio di Craxi alla guida del PSI poi, quella dei ruggenti anni Ottanta che a mio parere sono stati l'avvio del disfacimento probabilmente irreversibile di questo Paese da tutti i punti di vista, facendomi odiare la città dove pure ho vissuto per oltre due terzi della mia vita. Pur avendo in qualche occasione votato socialista (non c'era altra scelta, se volevi contrastare in qualche modo il viscido e ammorbante strapotere democristiano, di cui il PCI era a mio avviso al contempo sia la condizione, o ragion d'essere, sia il corrispettivo - il clericalismo rosso, lo chiamavo, a tratti fascismo rosso - a meno di non buttare il voto nel velleitarismo dell'estrema sinistra o darlo a Pannella), non ho mai sopportato Craxi e quelli di cui si circondava, eppure questa santificazione del Cinghialone io non l'ho proprio percepita. Com'è noto la pellicola ricostruisce gli ultimi mesi di vita dell'ex leader socialista nel suo buen retiro di Hammamet in Tunisia dopo esservisi rifugiato fuggendo dall'Italia in seguito a due condanne definitive riportate in seguito alle inchieste su Tangentopoli, pur senza chiamare col suo nome né il personaggio principale, interpretato magistralmente da Pierfrancesco Favino, né i suoi famigliari né i pochi personaggi che lo vengono a trovare o che avevano a che fare con lui: all'inizio del film, quando viene ricostruito il congresso del 1989 all'ex Ansaldo di Milano, quello della "piramide"di Panseca, una delle archistar del craxismo rampante di allora, appare Vincenzo, una specie di filo conduttore del film, un ex operaio che intravede l'inizio della fine proprio nel momento del trionfo del Capo, il quale, pur essendo stato messo a fare il cassiere della tangenti, funge da coscienza critica: si può identificare in Primo Moroni, poi suicida, e come lui più o meno tutti gli altri sono individuabili, ma non è questo il punto: Amelio ritrae l'uomo Craxi per quello che era in un momento particolare, definitivo della sua vita, quando non è più l'uomo di potere ma semplicemente, per l'appunto, un uomo, sé stesso. Sempre più malato (al diabete di cui soffriva già da qualche anno si erano aggiunti gotta, scompensi cardiaci e pure un tumore), rancoroso, disorientato. Di cui il regista non edulcora i tratti sgradevoli del carattere, che erano tanti: iracondo, volubile, sarcastico, egoista, capriccioso, ma anche tanto, troppo insicuro, nonostante le apparenze. Mai una volta nel film si sente pronunciare la parola esilio, oppure esule: è Craxi-Favino a dire, una sola volta, di essere stato giudicato in contumacia, nulla più. Interessante, credibile è il modo in cui vengono rappresentati i rapporti interpersonali, a cominciare da quelli famigliari con la moglie, che da una vita sopporta serenamente rassegnata i suoi lunatismi, così simile ad Anna Craxi, mentre la figlia Stefania deve ringraziare Amelio di averla fatta interpretare da Livia Rossi dandole il nome di Anita (come la moglie di Garibaldi, personaggio amato da Craxi) che ne attenua l'arrogante sgradevolezza tanto caratteriale quanto fisica; il figlio che inutilmente cerca un rapporto col padre e al contempo una dimensione propria; l'amante che non lo abbandona nella disgrazia, non lo tradisce e va a Tunisi per rivederlo un'ultima volta; e poi il vecchio democristiano che rendendogli visita da "ex avversario, mai nemico", gli consiglia di rientrare in patria, ché tanto alla fine gli italiani dimenticano e perdonano tutto (altra duetto memorabile, quello tra Favino e Carpenteri). Meno convincenti altre figure, a cominciare da Fausto (e Luca Filippi che lo interpreta: imbarazzante), il figlio di Vincenzo, che penetra nella villa clandestinamente e poi viene accolto da colui che ritiene responsabile del suicidio del padre, combattuto tra vendetta e testimonianza, che filma le dichiarazioni dell'ex politico con una telecamerina e al contempo porta nello zainetto la pistola con cui vuole vendicare il padre: finirà in manicomio, anni dopo; così come il flash back eccessivamente simbolista in cui a Craxi compare in sogno il padre (Omero Antonutti nella sua ultima parte prima del recente decesso) e il sé stesso bambino discolo che spacca i vetri del collegio con una fionda: probabilmente l'ultimo sogno prima di accasciarsi su una sedia a rotelle e spirare, il 19 gennaio del 2000, giusto 20 anni prima dell'uscita del film nelle sale. Che non è il migliore di quelli di Amelio, però Favino da solo vale il prezzo del biglietto, e comunque ha il merito di dirci qualcosa di noi raccontando una figura politica che, nel bene o nel male, ha avuto un ruolo importante nella nostra storia recente e  rispetto alla quale, come alle altre della sua epoca, gli epigoni attuali sono dei nani, altro che quelli che, assieme alle ballerine, facevano parte dell'entourage del fu Benedetto Craxi detto Bettino. Ottima la fotografia, le riprese sono state fatte nella residenza tunisina dei Craxi, messa a disposizione dalla famiglia; la colonna sonora, di Nicola Piovani, si compone di un solo pezzo, l'Internazionale, via via sempre più destrutturata fino al disfacimento, come quello del PSI, del suo ultimo leader e della politica in questo Paese.

domenica 12 gennaio 2020

Giornate budapestifere


Inizio dell'anno all'insegna della memoria, grata, nei confronti del mai abbastanza rimpianto Impero austro-ungarico e della nostalgia neanche troppo immaginaria per una civiltà che sì, si poteva chiamare europea, almeno da un punto di vista culturale, cosa che oggi non è, sia per il risorgere dei nazionalismi che, scatenando il primo conflitto mondiale (e creando le premesse del secondo nonché il definitivo avvento dell'egemonia americana), avevano causato la dissoluzione della monarchia danubiana e, di conseguenza, l'elemento che consentiva la coesistenza degli Stati del Vecchio Continente in una situazione di relativo equilibrio; sia perché, se non le persone (salvo per i cittadini dell'area Schengen), sicuramente le idee circolavano molto più velocemente e proficuamente un secolo fa di quanto non facciano ora nell'era di internet e della comunicazione immediata, e la conoscenza reciproca, pur nella diversità (probabilmente proprio grazie al suo riconoscimento, mentre oggi si fa di tutto per negarla), era molto più profonda allora, senza la necessità di dover teorizzare la tolleranza a ogni costo, come fosse un obbligo morale. 



Con la scusa di una rapida visita-parenti e della bellissima mostra Caravaggio e Bernini allestita fino al 19 gennaio al Kunsthistorisches Museum, ho fatto prima tappa due giorni a Vienna, città che conosco piuttosto bene e dove mi reco abbastanza frequentemente, per poi spostarmi nell'altra capitale della Duplice Monarchia, Budapest, una città che ho sempre amato fin dalla prima volta in cui ci andai assieme ai miei genitori e a mio cugino Italo nel 1964, dove mancavo dalla metà degli anni Ottanta, prima della caduta del Muro di Berlino, per un soggiorno che si è protratto per un'intera settimana. 


Pest vista da Buda
Un tempo che vale la pena dedicarle, per prenderne i ritmi che, pur essendo sostenuti come in qualsiasi metropoli moderna, non sono mai esasperati e per assaporarne la dimensione, che rimane pur sempre umana, a differenza dei termitai asiatici o africani e dei non-luoghi che sono gli agglomerati urbani dell'America del Nord (e, ormai, anche di parte di quella centro-meridionale). Non che la globalizzazione, con le sue catene di negozi, che coprono tutti i settori dall'abbigliamento, all'alimentazione, ai prodotti per la casa e, ovviamente, la ristorazione, abbia risparmiato il cuore della Mitteleuropa, e che Vienna e Budapest non siano afflitte dal turismo di massa (oltre a statunitensi e asiatici, folte le schiere di italiani e spagnoli, che di solito però si muovono in piccoli gruppi di famigliari o di amici), ma in maniera meno molesta e insopportabile della vicina Praga o, peggio, di Venezia, Firenze e Roma per quanto riguarda le città d'arte italiane, o Milano per lo shopping modaiolo e l'effimero. 


Buda vista da Pest
Confesso che uno stimolo per tornarci è stato lo spot pubblicitario, che avevo giustamente supposto essere oltraggioso, della Opel per una sua vettura, guarda caso un SUV, decantandone le sospensioni che reggono perfino le strade, "notoriamente sconnesse", di Budapest: che se avesse preso di mira le condizioni di quelle di Roma o di Parigi, sicuramente peggiori di quelle della capitale magiara, avrebbe causato rivolte di popolo (sovranista) e rottura delle relazioni diplomatiche, ma trattandosi dell'Ungheria, per quanto "orbanizzata", essendo un Paese che non si perde in sciocchezze, ha dignitosamente soprasseduto. Insomma: strade in ordine, ben tenute, pulite; ubiqua presenza di piste ciclabili; mezzi pubblici che funzionano alla perfezione: quattro linee del metrò, oltre a quelle dei treni suburbani; bus blu, tram gialli e filobus rossi che, lungo percorsi razionali e corsie preferenziali, consentono di raggiungere ogni angolo della città celermente e, quando attorno alle 23 termina il servizio regolare, sono efficacemente sostituiti dalle linee notturne. Insomma, per chi ha avuto modo di verificare lo stato delle cose, la pubblicità della Opel è risultata fuori luogo e controproducente: del resto si sa che quando i tedeschi vogliono mettersi a fare i simpatici a tutti i costi, risultano perlopiù grevi e inopportuni. 


Il Mercato centrale coperto
Tornando a Budapest, mi sono preso tutto il tempo per girarla in lungo e in largo, a cominciare dai mercati (e non solo quello Centrale, al coperto, costruito nel 1897 e restaurato negli anni 90, quindi per me una novità ); rivedere i capolavori del Museo di Belle Arti, organizzato in modo esemplare, il Castello, il Parlamento, ma anche visitare per la prima volta la Casa del Terrore, ossia il palazzo di fine '800 lungo il centrale Viale Andrassy che fu sede della polizia politica prima nazista e poi comunista, trasformata nel 2002 in Museo e Monumento alla memoria: pochi ricordano, soprattutto asinistra, che un primo tentativo di sovietizzazione l'Ungheria lo subì già nel 1919 ad opera di Bela Kun, quattro mesi noti come Terrore Rosso seguiti alla sconfitta nella guerra e alla disgregazione dell'Impero, che vaccinarono per sempre il Paese da qualsiasi virus bolscevico, con la conseguenza di suscitare una reazione speculare, nota come Terrore Bianco, fino alla nascita delle Croci Frecciate filonaziste nel 1935, che portarono il Paese alla seconda sconfitta in vent'anni; quel che successe dal dopoguerra in poi, fino al 1989, e l'invasione dei Paesi Fratelli del Patto di Varsavia in risposta ai moti rivoluzionari del 1956 (a suo tempo sostenuta dal PCI e lodata dall'ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano) dovrebbe essere di dominio comune, sempre che gli attuali libri di storia contemporanea ne facciano cenno. 


Museo Casa del Terrore
Altra "prima volta", e che raccomando altrettanto vivamente, è stata una doverosa puntata al Museo Ospedale nella Roccia - Bunker Antiatomico, aperto nel 2007 e situato sotto il castello di Buda. Il primo fu costruito a partire dal 1939 e terminato nel 1944 come ospedale chirurgico d'emergenza sfruttando gli oltre 10 chilometri di grotte e cunicoli situati a una profondità tra i 10 e i 15 metri sotto la superficie collinare, si estendeva per 2300 metri quadrati ed entrò in funzione pochi mesi prima del sanguinoso assedio di Budapest da parte dell'Armata Rossa fra l'ottobre del 1944 e il febbraio del 1945 per  tornare nuovamente in funzione durante la rivoluzione del 1956; successivamente, in piena Guerra Fredda, venne esteso e reso operativo anche in caso di attacco nucleare: entrambe le parti sono oggi vedibili con una visita guidata condotta in modo esemplare. Infine, un'altra primizia  per il sottoscritto: il ricco e curatissimo Museo della Fondazione Viktor Vasarely a Obuda, da non perdere. Questo per la parte culturale e d'aggiornamento; non potevano mancare i piaceri della tavola, in un paese dalle solide tradizioni enogastronomiche, patria del gulyas (inteso come una zuppa d'origine rustega) e del pörkölt (quello che gli austriaci chiamano gulasch e noi spezzatino, con abbondante aggiunta di cipolle e paprika) accompagnato dai tipici galuska, gnocchetti di farina, uova e acqua, versione magiara degli spätzle tirolesi; 


Pörkölt e galuska
nonché delle palacsinte, al cui confronto le crêpes francesi sono un insulto alimentare insipido e cartonato e di un'infinità di dolci tra cui strudel (anche in versione salata, però), torte (la Dobos quella che apprezzo di più, mentre l'imperatrice Sissi, venerata in Ungheria come Erzsébeth ancor più che in Austria o nella natìa Baviera (a lei sono intitolati il ponte più elegante e due statue, una nel cuore di Buda e l'altra in quello di Pest), prediligeva la Gerbeau


Torta Gerbeau e la golosissima Erzsébet Királiné/Sissi
specialità dell'omonimo caffè di Pest dove si recava abitualmente quando era in visita in città; e il dolce nazionale per definizione, il Somloi galuska, una versione molto arricchita dei profiteroles nostrani. Per l'ulteriore benessere mentale e fisico, last but not at least, bazzicate quattro giorni su sei durante il mio soggiorno, le terme, ché Budapest già nel 1934 aveva vinto il titolo di città balneare: non risultano altre grandi città al mondo dove siano presenti oltre cento fonti di acqua termale. I primi ad accorgersene, e a costruirle  (portando così la civiltà, oltre alle strade), furono naturalmente i romani, che si insediarono ad Aquincum, nell'attuale Obuda (Buda vecchia), sulla riva destra del Danubio, di cui rimangono i resti; poi i turchi, che durante la dominazione ottomana (1541-1686) a Buda ne eressero due che sopravvivono tuttora, e sono le mie preferite: le Kiraly innanzitutto e le Rudas; le Lukacs, infine quelle più note e frequentate, Gellértsempre a Buda, e le immense Széchenyi, a Pest, quasi una città termale, in stile Art Nouveau. Molti visitatori stranieri, ovviamente, ma rimane alla larga il turistame massificato, almeno per quanto riguarda quelle più piccole, e comunque prevalenza di indigeni, tanto è un'abitudine consolidata dei budapestini quella di “passare le acque” per rilassarsi, che fa parte del loro dna. 


I bagni termali Kiraly, a Buda
Ultima notazione: è vero, l'Ungheria vota a destra, di Viktor Orban si può dire tutto il male possibile (e lo fanno anche i locali) ma fino a un certo punto: resta il fatto che sia un Paese vivibile, e la sua capitale una città aperta e ospitale dove non ho avuto alcuna sensazione di razzismo latente: abbondano, come da noi, negozi e ristoranti prevalentemente turchi e cinesi, buona rappresentanza anche di vietnamiti, molte le facce esotiche e in particolare dai tratti gitani, non mancano persone di colore ma non si vedono giovani schiavizzati dalle mafie nigeriane o senegalesi bivaccare diuturnamente davanti a supermercati, ristoranti e bar a fare la questua; non si viene assediati da torme di bangladesi che tentano di vendere rose perfino ai single o improbabili trappole volanti fluorescenti in ogni piazza vagamente frequentata, che nemmeno viene infestata da improbabili mimi immobilizzati che spuntano come funghi in un bosco dopo una pioggia estiva; molestati da musicanti ed elemosinatori da mezzo pubblico o strimpellatori da trattoria; non c'è traccia dei suq nelle stazioni della sotterranea e nemmeno a cielo aperto come a Milano o Roma e francamente non se ne sente la mancanza: non ho assistito a una rissa, a un tentativo di scippo, nemmeno a un alterco verbale nell'arco di una settimana e stando in giro tutto il giorno, eppure la presenza della polizia è molto ridotta rispetto alle nostre abitudini, sicuramente più discreta e al contempo efficace, probabilmente più seria. Però c'è sempre qualche pirla pronto a teorizzare il boicottaggio dell'Ungheria perché sono tutti fassisti e rassisti, manco fosse il Cile di Pinochet o la Birmania prima di Aung san suu kyi (ah no, questa non va più bene perché non ama gli islamici) o il Nicaragua di Daniel Ortega (ma quello invece sì perché è un compagno!) O no?


Lájos Kossuth utca

venerdì 3 gennaio 2020

Sorry We Missed You

"Sorry We Missed You" di Ken Loach. Con Kris Hitchen, Debbie Honeywood, Rhys Stone, Katie Proctor, Ross Brewster, Charlie Richmond e altri. GB, Francia, Belgio 2019 ★★★★½
Coerente, lucido, implacabile, alla bell'età di 84 anni Ken Loach mette nuovamente il dito nella piaga con chirurgica precisione, e stavolta nel mirino c'è ancora una volta la precarietà, fatta passare per indipendenza, auto organizzazione e libertà: "sii l'imprenditore di te stesso" è la vergognosa fandonia che viene spacciata dai nuovi padroni (non tanto e non solo i grandi gruppi multinazionali bensì i padroncini a cui queste subappaltano la produzione e i servizi) a lavoratori a cui è stata tolta qualsiasi tutela e addossato il rischio di attività non proprie: caso tipico quello di Ritchie, un quarantenne sposato con Abby, e con due figli adolescenti, che ha fatto mille lavori nel campo dell'edilizia e che si mette, si fa per dire, in proprio nel campo delle consegne di pacchi: al fine di lavorare con una ditta (non per, sottolinea il coordinatore, che per mentalità è peggio di un negriero, a cui l'unica cosa che importa è tenere a distanza i "collaboratori") e fare il corriere, si indebita per comprare un furgone costringendo la moglie a vendere la sua utilitaria per pagare l'anticipo obbligandola a prendere l'autobus per il suo lavoro: fare visite a domicilio  in giro per Newcastle ad anziani e disabili per conto di una ditta di servizi sociali. Loach dedica le riprese in esterno seguendo i due nelle loro massacranti giornate di lavoro, una media di 14 ore al giorno, quelle di Ritchie contingentate dalla pistola, una sorta di telefono-computer-tracciatore che dopo due minuti di inattività lo sollecita tramite dei beep a rimettersi in pista per la prossima consegna: nemmeno il tempo per pisciare, tanto che il primo consiglio che gli danno i colleghi è portarsi dietro una bottiglietta per provvedere mentre sta guidando, alternandole con quelle in interni in cui racconta la realtà famigliare con le sue crisi all'interno della propria abitazione: quello di poter accendere un mutuo per acuistare una casa di proprietà è il sogno della coppia, quello che spinge Ritchie a tentare "il grande salto"", sogno che stava per realizzarsi ma che era già stato infranto una volta dieci anni prima e andato in fumo con la crisi finanziaria del 2008, ma come se non bastassero la traversie sul lavoro, la stanchezza che mina anche il rapporto di una coppia altrimenti molto affiatata, ci si mettono anche i problemi con i figli, in particolare Seba, quindicenne liceale graffitaro ribelle e con un buon talento artistico, ma anche con la più piccola Liza Jane, che soffre moltissimo il venir meno della serenità di una famiglia fin lì sempre molto unita. Non serve raccontare la trama: la storia che il film racconta, più che verosimile è vera, anche per merito degli interpreti, che pure quando sono parzialmente professionisti come Hitchen, nel ruolo di Ritchie, hanno un solido passato di working class alle spalle, e il film va visto. Non è per nulla consolatorio, non lascia molte speranze, dice le cose come stanno: qualcosa che oggi è più che mai necessario. Ed è bene che sia così. Lunga vita a Ken Loach: avercene, come lui.