mercoledì 30 marzo 2022

Spencer

"Spencer" di Palbo Larraín. Con Kristen Stewart, Timothy Spall, Jack Farthing, Sean Harris, Jack Nielenm Freddy Spry, Stella Gonet, Richard Sammel e altri. Germania, Cile, Gran Bretagna 2021 ★★★★

Sono sei mesi, da quando è stato presentato, senza suscitare particolari entusiasmi, alla 78ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia, che prima di ogni film in sala si viene bombardati dal trailer di Spencer, e solo a vedere la figura sempre ingobbita, le movenze e le espressioni nevrasteniche di Lady D, il personaggio inventato dai media per imbesuire una volta di più centinaia di milioni di babbei in giro per il globo dietro alla favola della bella principessa infelice, l'icona pop dei "favolosi anni Ottanta", quelli che hanno definitivamente spappolato il cervello all'umanità intera, globalizzando la mancanza di prospettiva del cosiddetto Occidente, mi ero ripromesso di evitarlo come la peste, salvo scoprire, soltanto qualche giorno fa, che autore ne è Pablo Larraín. Sicuro che anche questa volta, come già in Jackie (e, prima, in Neruda), avesse utilizzato lo schermo del biopic per raccontare, o meglio immaginare, un personaggio attraverso un momento cruciale della sua esistenza: nel caso di Jacqueline Kennedy, in seguito Onassis, si trattava dei cinque giorni successivi all'attentato in cui rimase ucciso suo marito, e soprattutto l'intervista a Life, in cui costruì non soltanto mito di JFK ma anche il suo; nel caso di Diana Spencer, principessa del Galles, i tre giorni a cavallo del Natale del 1991, trascorsi a Sandringham House nel Norfolk, una delle residenze di campagna della famiglia reale, vicinissima peraltro a quella mezzo in rovina di Sandringham Park, appartenuta alla famiglia Spencer, dove Diana era nata e aveva trascorso l'infanzia; un soggiorno tormentato, durante il quale decise definitivamente di separarsi da Carlo, sposato dieci anni prima: il matrimonio del secolo, le cui immagini ci hanno perseguitato fino alla nausea e nutrito il voyeurismo di centinaia di milioni di persone. Scelta perfetta quella di Kristen Stewart, giunta alla fama per la saga di Twilight, ad impersonare i tormenti, le visioni, i dialoghi immaginari di Diana in quei giorni in cui ancora una volta dovette sottoporsi ai rituali di una famiglia, e di un ruolo, che non erano solo pubblici ma anche privati: perfino gli abiti da indossare per il tè, la cene, le colazioni, i pranzi le erano prescritti. Nessun sentimento doveva trasparire, ognuno conscio prigioniero del suo ruolo, una cosa che alla giovane donna e madre stava stretta, alle prese, per di più, con un marito fedifrago (Charles detto "Tampax") e tanto idiota e insensibile da fare lo stesso regalo, una collana di perle, a lei e alla sua amante, Camilla Parker-Bowles, peraltro presente alla messa di Natale. Il tutto in un'atmosfera irreale, fredda, tesa (manco i termosifoni venivano accesi), contraddistinta da riti demenziali, come quello del peso appena dopo l'arrivo e subito dopo la partenza, un'attenzione davvero delicata per una persona notoriamente in preda a disturbi alimentari come Diana, sottolineata da un commento musicale quasi ossessivo, da thriller, affidato a Jonny Greenwood, immaginando Diana presa dai suoi pensieri e umori ondivaghi, tra coscienza del ruolo e desiderio di libertà, alla ricerca non solo di conforto ma di confronto, che più facilmente trovava nel personale di servizio (la "gente comune" che l'amava e venerava) che nella famiglia e, tantomeno, nei funzionari, i servi sciocchi, della Corona. Brava l'attrice, davvero, a rendere tutte le contraddizioni di un personaggio così complesso e, alla fine indifeso. Ed è proprio il diverso rapporto coi media a segnare, a mio modo di vedere, la sua sorte: Jackie Kennedy li conosceva, li dominava e li utilizzava; Diana era, al contrario, stata fagocitata, inventata e manipolata a loro piacimento e ai loro scopi, e questo, direttamente o meno, l'avrebbe pagato con la vita. Rispetto a Jackie e a Neruda il film è forse meno incisivo, e i diversi piani di lettura a cui i film di Larraín ci avevano abituali in precedenza, sono qui  più confusi, ma tale era, del resto, anche Diana Spencer, che già nella prima scena, mentre giunge per conto suo e all'insaputa della scorta dalle parti  Sandringham a bordo di una Porsche Carrera, dice di non sapere dove trovarsi e chiede informazioni in tal senso in un'area di servizio dove le gente la guarda entrare come se fosse un'apparizione dell'altro mondo. Troverà sé stessa in un KFF di fronte con vista su Westminster e la Tower Bridge dopo essere fuggita dal maniero nel pomeriggio di quel Santo Stefano e aver ordinato del pollo fritto al drive-in identificandosi con il suo cognome: Spencer. Non Windsor. Qualche anno dopo, troverà anche la sua fine, ma questo il film non lo dice. Semmai fa presagire una sorte di cui tutti sappiamo l'esito, ma non la verità. Nonostante tutte le perplessità e i pregiudizi iniziali, in quota a una donna che, per quanto giovane e ingenua avrebbe dovuto capire da sola in quali guai si stese cacciando sposando non solo un imbecille, ma entrando a fare parte di una famiglia di sepolcri imbiancati, un film non banale e comunque ben fatto, per nulla agiografico e che fa pensare. Soprattutto alle manipolazion mediatiche, quanto mai attuali. 

lunedì 28 marzo 2022

ll legionario

"ll legionario" di Hleb Papou. Con Germano Gentile, Maurizio Bousso, Marco Falaguasta, Ilir Jaçellari, Simona Senzacqua, Giancarlo Porchacchia, Hedy Krissane e altri. Italia, Francia 2021 ★★★★

Gran bella sorpresa il film d'esordio di questo giovane regista d'origine bielorussa ma cresciuto in Italia, che non a caso ha vinto il Pardo d'Oro per la regia al 74° Festival di Locarno dell'anno scorso nella sezione "Cineasti del presente", manifestazione che rimane una tra le più serie e credibili. Si tratta della rielaborazione e trasformazione in lungometraggio del "corto" dallo stesso titolo che Papou aveva presentato per l'esame finale al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma nel 2016, e che già aveva ricevuto un'ottima accoglienza nei festival in cui era stato presentato. Girato con piglio sicuro e mostrando grande dimestichezza con le scene d'azione e sostenuto da un ritmo narrativo serrato (Stefano Sollima e in particolare il suo ACAB, che raccontava le vicende di un gruppo di agenti in servizio presso il reparto mobile della capitale, sono stati senz'altro un punto di riferimento sia da un punto di vista tecnico, sia dell'ambiente umano) racconta la storia di Daniel, di genitori africani ma italiano, anzi, romano a tutti gli effetti, celerino, perfettamente integrato, nonostante il colore della pelle, nella squadra d'appartenenza dove vige un sistema di fratellanza molto stretto e fatto di solidarietà come di complicità: per questo, e per condurre un'esistenza tranquilla e "normale", ha taciuto, ma non rimosso, i legami famigliari e di essere cresciuto in un grande palazzo a San Giovanni (realmente esistente, così come a fatti reali sono ispirate molte situazioni che si vengono a verificare), nel centro della città, occupato per oltre 15 anni da un nutrito e combattivo comitato di inquilini, in cerca di legittimazione del proprio operato, che poi consiste nel diritto di ognuno, dichiarato come tale ma per nulla garantito nei fatti da uno Stato cialtrone e assente, di avere un alloggio in cui vivere dignitosamente, e capeggiato, proprio da Patrick, suo fratello, con cui ha un rapporto conflittuale proprio per la scelta di fare il poliziotto e per avere così tradito la lotta. Ovvio che i suoi sistemi di riferimento entrino in crisi quando al reparto viene ordinato di effettuale lo sgombero dell'immobile: da un lato perfino sua madre gli rinfaccia di avere dimenticato la famiglia, a differenza del fratello, quando preferisce rimanere nel palazzo occupato anziché accettare l'ospitalità di Daniel e della moglie, peraltro in attesa del primo figlio; dall'altro i suoi colleghi cominciano a sospettare che possa essere lui la "talpa" che ha avvertito gli occupanti dell'imminenza di un'operazione di sgombero, in un primo momento abortita all'ultimo momento; ma il giorno in cui verrà effettuata definitivamente, sarà per Daniel quello cruciale in tutti i sensi. Ottimo da un punto di vista registico, il film può risultare un po' acerbo in sede di sceneggiatura, con dinamiche, come quella della contrapposizione tra fratelli, abbastanza prevedibili, ma ha comunque il merito di mettere a fuoco realtà scomode, su cui non si chiude un occhio ma due, come quella di centinaia di migliaia di persone, nella stragrande maggioranza lavoratori legali, che in questo Paese non possono fruire di un'abitazione, e non si stratta solo di nuove realtà multietniche, che ormai non si possono nemmeno chiamare recenti, esistendo da almeno una quarantina d'anni, perché in tale situazione si trovano anche moltissimi italiani, e non solo di seconda generazione. Bravissimo Germano Gentile, in grado di rendere con misura e attenzione i turbamenti di Daniel, il protagonista. Complimenti e auguri per la carriera a Hleb Papou: io scommetto su una sua conferma alla prossima occasione, perché al ragazzo la stoffa non manca, e nemmeno il coraggio. 

sabato 26 marzo 2022

Monaco - Sull'orlo della guerra

"Monaco - Sull'orlo della guerra" (Munich: The Edge of War) di Christian Schwochow. Con George MacKay, Jannis Niewöhner, Jeremy Irons, Alex Jennings, Ulrich Matthes, Sandra Hüller, August Diehl, Liv Lisa Fries, Jessica Bron Findlay, Anilj Mohindra e altri. GB 2021 ★★★+

Adattamento dell'omonimo romanzo dell'inglese Robert Harris, già giornalista della BBC e autore di bestseller da cui sono stati tratti film di successo come Fatherland, Archangel, Il Ghostwriter, L'uomo nell'ombra fino al recente L'ufficiale e la spia, gli ultimi due diretti da Roman Polanski, disponibile su Netflix, è un film ben fatto, molto britannico, ispirato a personaggi reali e ambientato (tra l'altro con grande cura dei dettagli) in un momento storico ben preciso: la Conferenza di Monaco tenutasi il 29 e 30 settembre del 1938 (e i frenetici giorni che la precedettero) che sancì l'accordo fra Hitler, Chamberlain, Mussolini e Deladier che permise alla Germania l'annessione di vasti territori della Cecoslovacchia (i Sudeti, abitati prevalentemente da tedeschi) senza che nelle trattative fosse coinvolto un solo rappresentante del Paese interessato, per quanto fosse alleato di Gran Bretagna e Francia, e che, in nome della controversa politica dell'Appeasement, consenti di rinviare, peraltro di un solo anno, lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale (e forse permise, almeno ai britannici, di prepararsi ad affrontarla e resistere fino all'intervento dell'URSS da una parte e degli USA dall'altra). Ma questa è storia, mentre nel film viene raccontata la vicenda di due amici, che si conoscevano dai tempi in cui, fino a sei anni prima, studiavano entrambi a Oxford: l'inglese Hugh Legat, divenuto funzionario a Downing Street, e Paul von Hartmann, finito nel corpo diplomatico tedesco ed entrato a far parte di un circolo di resistenti al regime. Quest'ultimo entra in possesso di un documento segreto che prova le vere mire espansionistiche del Führer e le sue intenzioni di dominio sull'Europa e farà di tutto per farli avere al primo ministro inglese, in modo che eviti di firmare patti col dittatore tedesco e incoraggiare così una rivolta contro di lui che è nell'aria, perché anche in Germania si vuole evitare la guerra a cui sicuramente porterà la sua folle volontà di dominio. Per farlo, riesce a fare in modo che sia lui sia il suo vecchio amico (con cui c'era stata una rottura per motivi politici nel 1932, quando Hugh fu suo ospite in vacanza proprio a Monaco) facciano parte delle rispettive delegazioni. La storia si fa intricata e avventurosa e non sto nemmeno a riassumerla, e al di là degli aspetti romanzati e alcuni francamente poco credibili, la trama sta comunque in piedi e il racconto procede spedito e coinvolgente, come nei migliori film di spionaggio e d'azione. La tensione non manca, come nemmeno i colpo di scena, né il lato mélo ma senza esagerare: rimane un film sobrio e che restituisce efficacemente i dilemmi morali e politici di quell'epoca, peraltro attualissimi proprio con quel che sta accadendo nel momento attuale e sempre nel cuore dell'Europa. Tutti all'altezza gli interpreti, a cominciare dai personaggi principali, ma su tutti Jeremy Irons nella parte di Chamberlain e lo spettrale Ulrich Matthes in quella di Hitler, inoltre una menzione marita la sempre brava e misurata Sandra Hüller nei panni dell'amante di Paul nonché funzionaria del ministero Helen Winter, anche lei una cospiratrice. Insomma, una pellicola soddisfacente, da vedere se in grado di accedere alla piattaforma.

giovedì 24 marzo 2022

The Batman

"The Batman" di Matt Reeves. Con Robert Pattinson, Zoë Kravitz, Paul Dano, Jeffrey Wright, John Turturro, Colin Farrel, Peter Sarsgraard, Andy Serkis, Jayme Lawson. USA 2022 ★★★★

Non siamo ai livelli (altissimi) della Trilogia del Cavaliere Oscuro di Christopher Nolan, conclusasi proprio dieci anni fa con Il ritorno, e sicuramente la critica militonta e intellettualoide storcerà il naso sulla necessità di un altro film sull'uomo-pipistrello, un "topone volante", come lo chiamerebbe qualcuno di mia conoscenza, ma il gradimento del pubblico sembra proprio dare ragione alla scommessa di chi ha affidato a Matt Reeves questo film sui primi anni della carriera di Batman, ancora non particolarmente attrezzato e tecnologizzato, e col suo mentore Alfred in secondo piano rispetto all'eminenza grigia interpretato nella Trilogia di Nolan da Michael Caine, e inizialmente più vendicatore che giustiziere, sebbene già collabori col tenente di polizia James Gordon, e intervenga non solo per castigare violenti e cattivi (senza accopparli, per non mettersi al loro livello, ma non risparmiando cazzottoni e pedate micidiali), ma anche nelle indagini su oscuri omicidi di personaggi potenti quanto ambigui in una già corrottissima Gotham City, più buia e piovosa che mai (torna alla mente la Los Angeles di Blade Runner, ma qui siamo di palesemente a New York). Indagini che conducono a un serial killer, che alza vieppiù il tiro e lascia oscuri messaggi tramiti indovinelli e per questo chiamato L'Enigmista (Paul Dano è perfetto per renderne la lucida follia, determinata a ripulire la città dai poteri sempre più marcescenti), anche utilizzando video che manda a giornali e televisioni, rivolti proprio a Batman e sempre più personali, dato che riguardano il suo alter ego, Bruce Wayne, il miliardario e filantropo rimasto orfano dopo aver assistito al brutale assassinio dei propri genitori, e che ha deciso di mascherarsi da pipistrello per terrorizzare malfattori e criminali e proteggere una città fuori controllo, sempre più corrotta e violenta. Durante le indagini, che lo mettono in contatto con il mondo malavitoso, nei locali gestiti da Il Pinguino (un irriconoscibile Colin Farrell) a servizio di uno dei boss malavitosi della città, Carmine Falcone (un grande John Turturro), entra in contatto con Seline (Zoë Kravitz, sufficientemente convincente), ossia Cat Woman, una ladra che a sua volta ha sete di vendetta, iniziando una collaborazione alquanto tormentata ma alla fine positiva. Non mi dilungo sulla trama, per non rivelarla oltre a chi decidesse guardare il film, limitandomi ad alcune considerazioni. La scelta del "vampiresco" Robert Pattinson nei panni di un tormentato e tenebroso Batman/Bruce Wayne si rivela assai più azzeccata di quella di Ben Affleck in Batman v Superman del 2016, l'ultimo (fallito) precedente del nostro personaggio in versione cinematografica; la fotografia è eccezionale e rende Gotham City di una cupezza assoluta e irridemibile; le scene d'azione sono relativamente poche e non particolarmente spettacolari, al di là dell'inseguimento a bordo di una Bat Mobile ancora rudimentale da parte del nostro eroe allo sfregiato Pinguino, ma questo non guasta perché contribuisce ad accentuare l'atmosfera noir, intimista e tormentata; la colonna sonora è ottima e le tre ore di durata del film non si sentono: la pellicola ha retto tranquillamente la mia personale prova-orologio e sono uscito dalla sala soddisfatto e piacevolmente sorpreso. Ovviamente, deve piacere il genere.

lunedì 21 marzo 2022

Il male non esiste

"Il male non esiste" (Sheitan vojud nadarad) di Mohammad Rasoulov. Con Ehsan Mirhosseini, Shaghayegh Shoorian, Kaveh Ahangar, Alireza Zareparast Salar Khamseh, Darya Moghbeli, Mahtab Servati, Baran Rasoulof, Mohammad Valizadegan, Shahi Jila. Germania, Repubblica Ceca, Iran, 2020 ★★★★★

Vincitore dell'Orso d'Oro alla 70ª edizione del festival  di Berlino del 2020, premio che il regista iraniano non ha potuto ritirare di persona in quanto trattenuto in patria per essere considerato un oppositore del regine teocratico, esce nelle sale italiane soltanto ora uno dei migliori film visti nella presente stagione, tale non solo per il tema che affronta, la pena di morte a seconda della prospettiva di chi è incaricato di eseguirla, ma anche della corresponsabilità con uno Stato oppressore da un lato e il valore testimoniale del rifiuto di eseguire un ordine, pagandone le conseguenze, per rimanere fedele ai propri principi morali. E' proprio per renderli complici che il regime degli ayatollah, così come quelli più tirannici succedutisi nella storia di un'umanità che non ha mai finito di corrompersi abbastanza e di rifiutarsi di trarre insegnamento dalle bestialità del passato, come testimoniano le vicende di queste settimane, costringe i soldati di leva a eseguire le condanne alla pena capitale, ricompensandoli magari con qualche giorno di licenza. Come succede al militare che ne ha ottenuti tre per recarsi dalla famiglie della fidanzata per chiederla in sposa nel giorno del suo compleanno, salvo scoprire che la ragazza, suo fratello e i genitori sono sconvolti perché un loro amico, intellettuale avverso al regime, è da poco stato giustiziato. Un altro disgraziato si rifiuta di eseguire la sentenza e gli riesce una rocambolesca fuga dall'istituto di pena con l'aiuto della sua ragazza e, forse, riuscirà e scamparla. Altri due episodi (ognuno dura circa 35 minuti girati con maestria, in un crescendo inesorabile, di rara efficacia sia visiva sia per i dialoghi) vedono un secondino, un uomo mite, premuroso con la propria moglie e la figlia, marito e padre esemplare, che rientra al lavoro e procede a impiccagioni seriali come se si trovasse ad avvitare un bullone a una catena di montaggio e un medico che vive in una sorta di esilio interno in una località sperduta per tenersi alla larga dai guai che riceve la visita di una nipote che vive in Germania: è un malato terminale e vuole comunicarle una verità che sconvolgerà la vita della ragazza. Il regista non giudica, propone dei dubbi e deciderà lo spettatore, se vuole farlo, a seconda dei suoi principi etici. Un film esemplare per chiarezza, fluidità del racconto, ritmo, coinvolgimento, a cui è impossibile restare indifferenti e che obbliga a ragionare e a prendere una posizione. Come se non bastassero trama e la pulizia dei quattro episodi che compongono questo maestrale mosaico della condizione umana, interpreti perfetti e anche un sottofondo musicale perfettamente adeguato. Assolutamente consigliato. 

martedì 15 marzo 2022

C'era una volta il crimine

"C'era una volta il crimine" di Massimiliano Bruno. Con Marco Giallini, Gianmarco Tognazzi, Giampaolo Morelli, Carolina Crescentini, Massimiliano Bruno, Giulia Bevilacqua, Edorardo Leo, Ilenia Pastorelli, Duccio Camerini, Rolando Ravello e altri. Italia 2022 ★★★

Incombono tempi cupi, il desiderio di distrarsi dal bombardamento mediatico di notizie false e tendenziose (nei fatti la censura di guerra, al di là dell'abituale autocensura dell'informazione italiana di suo) e di sottrarsi alla dilagante idiozia diffusa da ogni possibile media si fa necessità per mantenere un minimo di equilibrio mentale, quindi ben venga la terza puntata, prevedibilmente l'ultima, della saga ideata da Massimiliano Bruno e che aveva preso il via con Non ci resta che il crimine: saltato il secondo capitolo, Ritorno al crimine, sono passato direttamente al terzo, e le considerazioni sull'intera operazione, e il relativo giudizio, rimangono in linea con quello detto nella prima occasione, tre anni fa. Nella composizione della banda di criminali allo sbaraglio che viaggiano nel tempo, all'imbranato Sebastiano interpretato da Alessandro Gassman è subentrato Claudio Ranieri (Morelli), uno studioso di storia contemporanea, insegnante precario in un liceo recuperato dalla cugina Lorella, appena esonerato per avere aggredito (giustamente) a testate uno studente particolarmente ignorante e strafottente, e le sue approfondite competenze in materia saranno necessarie a Moreno (Giallini) e Giuseppe (Tognazzi) per districarsi nell'epoca in cui saranno catapultati questa volta, l'estate del 1943 attorno alla fatidica data dell'armistizio (l'otto settembre), con la missione di rubare ai nazisti la Gioconda, nascosta in una cassa in un castello vicino a Parigi. Riescono nell'impresa, ma "bucano" ben tre appuntamenti con il portale spazio-temporale che li riporterà al giorno d'oggi: prima a Camogli, dove verranno nascosti nella casa della futura nonna di Moreno Adele (Crescentini): ma i nazisti porteranno con sé la piccola Monica, sua figlia nonché madre dello stesso Moreno, che così sarà costretto a recuperarla per... poter nascere a sua volta; lì vicino incontreranno Sandro Pertini a capo di un gruppo di partigiani; poi Caserta, dove si imbatteranno nel Re codardo, in procinto di fuggire a Brindisi con l'infame Badoglio, infine Isernia, per non dimenticare che esiste il Molise: non lontano, a Campo Imperatore, è agli arresti il Duce, in procinto di essere liberato per ordine di Hitler da Skorzeny per essere portato al Nord e messo a capo della Repubblica di Salò. Fughe, inseguimenti, gustosi gli incontri coi personaggi storici, con notazioni non banali: non è tutta "caciara" banale, insomma. Arrivati a Napoli e recuperata la bambina, sono saltati tutti i "ponti" per poter tornare al presente ma in loro soccorso dal futuro arriveranno Gianfranco (il nerd informatico interpretato da Bruno) e Lorella (la sua compagna, Bevilacqua) che, utilizzando il portale del 1982, hanno recuperato anche Renatino (Leo) e Sabrina (Pastorelli, la madre di Lorella da giovane) e forse riusciranno a salvare anche i nostri eroi, anticipando di alcuni giorni le Quattro Giornate di Napoli... I sequel di solito perdono qualcosa rispetto al primo episodio ma qui non molto: rimane una favola ed è un gioco, ma non mancano spunti di riflessione, volendoli vedere, e la valutazione rimane complessivamente positiva, anche grazie all'affiatamento degli interpreti, che rende le cosa più facili al regista, e a una ricostruzione d'epoca piuttosto accurata considerando il tipo di film. Una boccata d'aria che comunque in questo periodo non può che fare bene. 

venerdì 11 marzo 2022

Il ritratto del Duca

"Il ritratto del Duca" (The Duke) di Roger Michell. Con Jim Broadbent, Helen Mirren, Fionn Whiethead, Matthew Goode, Craig Conway, Heather Craney, Jack Bandeira, Aimée Kelly e altri. GB 2020 ★★★★

E' il film che ci vuole, con l'aria che tira, e purtroppo è l'ultimo della carriera di Roger Michell, regista sudafricano ma dallo stile quanto mai "british", famoso per aver girato Notting Hill e purtroppo deceduto nel settembre dell'anno scorso. Trae ispirazione da un fatto vero avvenuto nel 1961, il furto del ritratto del Duca di Wellington di Francisco Goya, acquisito per la somma allora astronomica di 140 mila sterline dal governo inglese, affinché non cadesse in mani straniere. La cosa aveva mandato fuori dai gangheri Kempton Bunton (Jim Broadbent, straordinario per bravura e simpatia) da Newcastle, tipico inglese del Nord appartenente alla working class ma dotato di una buona cultura da autodidatta, una sorta di Robin Hood in età di pensione che combatte per la giustizia sociale e questioni di principio: autodidatta, scrive drammi per la BBC che nessuno vuole produrre, e conduce una battaglia per l'abolizione  dell'obbligo di pagare il canone per anziani e reduci di guerra: è una delle tante della sua vita, per questioni di sacrosanto principio. La controparte ce l'ha in famiglia: Dorothy detta Dolly, una Helen Mirren all'altezza del collega, sensata, coi piedi per terra, che sopporta le bizzarrie del marito e aiuta il bilancio famigliare facendo le pulizie presso la casa di un consigliere comunale: i duetti verbali tra i due sono semplicemente deliziosi; a completare il quadro, un figlio che fa tramacci poco chiari fuori città, e quello minore, Jack, carpentiere nautico, che è l'autore del furto, dopo averne sentito parlare in TV e dal padre, scandalizzato dal fatto che il governo abbia speso del danaro pubblico per quel quadro invece di investirlo per aiutare i più bisognosi. Dopo aver scoperto che il Goya era in casa sua, Kempton decide di coprire il figlio e chiede un riscatto alle autorità: renderà il quadro (che esse sono convinte essere stato rubato su commissione da parte di una banda di professionisti, probabilmente italiani e con preparazione militare...) se investiranno 140 mila sterline a fini sociali. Renderà il dipinto e verrà scoperto, finendo sotto processo ma, con la sua simpatia e il suo buon senso, riuscirà a conquistare la giuria (oltre ai magistrati, agli avvocati e al pubblico presente in aula) e se la caverà con poco, mentre la polizia si guarderà bene dall'approfondire le vere responsabilità del furto e, per non fare ulteriori figure di merda, eviterà di incolpare il giovane Jack. Humour tipicamente inglese, sceneggiatura perfetta e attenzione maniacale alle battute, tutti gli interpreti sono di altissimo livello, oltre ai due citati, un film scanzonato però mai banale, leggero ma non stupido. In UK sanno fare cinema, o almeno quello che piace a me e quello che ci vuole per respirare aria fresca in questi tempi difficili, di rara idiozia collettiva e di grande confusione mentale. Il film giusto al momento giusto. Thank you and Rest in Peace, dear Roger. 

martedì 8 marzo 2022

Bosnia Express

“Bosnia Express” di Massimo d’Orzi. Italia, 2021 ★★★★+

Uscito nelle sale all'inizio del mese scorso, quando già spiravano impetuosi a Est i venti di guerra abbattutisi sull'Ucraina, ne parlo a maggior ragione oggi, 8 marzo, quando ricorre la Giornata internazionale dei diritti della donna, come da dizione ufficiale. Ispirato all'omonimo libro di Luca Leone, pubblicato per la prima volta nel 2010 (Infinito Edizioni), Bosnia Express è qualcosa di parecchio diverso da un semplice documentario, e ha più che vedere con un racconto per immagini, parole e riflessioni che richiamano le sensazioni di chi è tornato in quella terra, flagellata dal conflitto degli anni Novanta di cui ancora sopporta le conseguenze. Partendo da Trieste in direzione Sarajevo su un treno che, successivamente, farà tappa a Srebrenica, Tuzla, Stolac, Mostar e Medjugorie, nell'Erzegovina, l'intenzione iniziale era di indagare sul ruolo avuto dalle tre religioni monoteiste (quella cristiana nelle due versioni cattolica e ortodossa) che lì hanno convissuto per secoli e sotto regimi diversi, nello scatenare la guerra, fornendo argomenti e giustificazioni a nazionalismi esacerbati ed etnicismi fuori luogo, che nulla avevano a che fare con la vita quotidiana di una popolazione abituala da sempre a vivere fianco a fianco e "contaminarsi" a vicenda, specie durante il periodo della Jugoslavia di Tito, ma la macchina da presa, e i microfoni, finiscono invece per cogliere frammenti di esistenza quotidiana nei diversi aspetti di una realtà, per quanto complessa, stratificata e ancora ferita, comunque viva, che guarda avanti, e che vede protagoniste soprattutto le donne le quali, al contempo erano state le prime e maggiori vittime della guerra (colpisce il diverso modo, si direbbe rituale, di stuprarle a seconda dell'appartenenza religiosa). Si va da una scuola di danza, a un'ateneo islamico in cui due giovani studentesse dialogano sul loro futuro a Sarajevo, un teatro di marionette e una scuola di rock a Mostar, ai luoghi di culto cattolici (con escursione a Medjugorie), ortodossi e alle moschee, a un coro di donne interetnico che si raduna ed esibisce nella stazione ferroviaria di Tuzla, testimonianze di intellettuali e militari, a cominciare da Jovan Divjak, già generale della JNA (l'Armata Popolare Jugoslava) che, benché serbo, durante l'assedio di Sarajevo comandò la Difesa Territoriale (ci sono anche, in un filmato del 1995, le farneticanti dichiarazioni di Ratko Mladić nei giorni della strage di Srebrenica). E' soprattutto attraverso l'arte che si cerca un terreno comune su cui costruire una convivenza e porre le basi per il futuro, e protagoniste ne sono innanzitutto le donne. Vittime d'elezione anche delle rispettive religioni, che a loro per prime hanno imposto divieti di ogni tipo, e che, in una sorta di inspiegabile Sindrome di Stoccolma, proprio nella fede hanno cercato conforto alle loro sofferenze, alimentando così indirettamente la spirale di incomprensione e odio. La Bosnia Erzegovina è come una baklava, il dolce diffuso dai Balcani a Istanbul fino al Caucaso, a tutto il Medio Oriente e all'Asia Centrale, fatto di mille sottolissime sfoglie farcite di noci tritate e spezie, arrotolate e imbevute in miele e in acqua di rose. Dolcissimo, sì, ma anche molto amaro. Non mi ha stupito apprendere che Massimo d'Orzi, che aveva esordito col teatro giovanissimo come regista teatrale, abbia frequentato la scuola di cinema diretta da Marco Bellocchio: l'influenza del grande maestro, in questo racconto sfaccettato e poetico, si vede, eccome. 

domenica 6 marzo 2022

L'ombra del giorno

"L'ombra del giorno" di Giuseppe Piccioni. Con Riccardo Scamarcio, Benedetta Porcaroli, Lino Musella, Vincenzo Nemolato, Antonio Salines, Costantino Seghi, Valeria Bilello, Sandra Ceccarelli, Waël Sersoub e altri. Italia 2022 ★★★=

Film a due facce, da un lato realistico per come ricrea in modo più che credibile l'ambiente e i tipi umani di un'Italia che nell'arco di un quindicennio si è adeguata al fascismo, dall'altro favolistico, con uno svolgimento a tratti  improbabile, dei salti temporali e delle incongruenze che contrastano con l'accuratezza dei dettagli e della descrizione della maggior parte dei personaggi. A cominciare da quello di Luciano, interpretato con grande misura ed efficacia da Riccardo Scamarcio, qui anche nelle vesti di produttore, un reduce di guerra, da cui è tornato con una ferita alla gamba che l'ha reso zoppo, e che gestisce un ristorante nella piazza centrale di Ascoli Piceno, peraltro città natale del regista, tiepido sostenitore del fascismo, come la stragrande maggioranza dei nostri connazionali di allora, il quale non si pone troppe domande e tira avanti. Siamo nei giorni della visita a Roma di Hitler nella tarda primavera del 1938 (torna in mente Una giornata particolare di Ettore Scola, un capolavoro) e alla vigilia delle leggi razziali emanate in suo gentile omaggio, e a scombussolargli la vita e indurlo a porsi domande, e financo a rischiare la propria tranquillità e incolumità, l'arrivo di una ragazza, Anna (una convincente Benedetta Porcaroli), che gli si presenta dicendosi bisognosa di un lavoro, quale che fosse. L'assume come aiuto in prova in cucina non tardando ad accorgersi che a differenza degli altri addetti non è certo una popolana, ma che è istruita, sa tenere la contabilità, è colta (e un po' troppo emancipata per l'epoca), e così diventa prima cameriera e, benché poco fascista, sua persona di fiducia. Tra i due crescono la confidenza, il confronto, e nasce anche un rapporto che va oltre a quello professionale, cosicché Anna si rivela per quella che è davvero, suscitando in Luciano il desiderio e anche il senso di dovere di proteggerla dai pericoli incombenti. Che si estendono anche al marito di lei, che compare del tutto fuori luogo nei panni di un "resistente" francese a cui non basta una falsa identità per sfuggire alla caccia dei fascisti, e che Luciano decide, per amore di Anna, di nascondere per lunghi mesi se non qualche anno (non si capisce) nei sotterranei del suo locale, benché un gerarca locale suo amico e la milizia sospettino qualcosa e mettendo quindi a rischio la propria reputazione e la sua stessa vita: Waël Sersoub, così come il suo personaggio, oltre che inconsistente e irritante, sembra capitato lì per puro caso e aggiunge qualcosa di completamente inutile alla trama complicandola e rendendo pressoché implausibile una parte della vicenda, mentre rimane valida quella che riguarda il quadro d'epoca, con personaggi ben caratterizzati dagli attori, come il gerarca di Lino Musella, il cuoco antifascista Vincenzo Nemolato, il professore di diritto obiettore di Antonio Salines, purtroppo scomparso prima dell'uscita della pellicola, il cameriere arrivista e spione di Costantino Seghi, la soubrette di regime di Valeria Bilello. Bene insomma sul versante descrittivo di quei tempi e delle psicologie degli uomini e delle donne d'allora, a cominciare dalla figura del reduce di guerra accolto al ritorno come un paria e non come il salvatore della patria come era stato portato a credere, e che nella sua ricerca di normalità e di una vita senza scosse spera di cancellare il ricordo di aver dovuto imparare a uccidere, e non certo per scelta; il cui modo di vita viene scombussolato dall'entrata in scena di una donna fuori da suoi schemi e che ne mette in discussione le (poche) certezze. Insomma, per quanto ben girato e curato, e comunque gradevole, il film lascia a desiderare sul versante  della sceneggiatura e la credibilità della storia. A meno di non volerla considerare una sorta di favola. Senza lieto fine: diciamo sospeso... 

giovedì 3 marzo 2022

Belfast

"Belfast" di Kenneth Branagh. Con Jude Hill, Cailtrona Balfe, Ciàran Hinds, Judy Dench, Jamie Doman, Colin Morgan, Conor MacNeill, Lara McDonnel e altri. GB 2021 ★★★+

Un omaggio sentimentale e, diciamolo, ruffiano quanto basta, quello che Kenneth Branagh fa alla città in cui è nato e ha vissuto fino ai 9 anni, compiuti nel 1969, quando i Troubles, iniziati l'anno precedente con epicentro Londonderry, si spostarono nella capitale nordirlandese. Con il conflitto sullo sfondo, il regista e attore (in questa occasione anche nella veste di sceneggiatore e produttore) va al ricordo di quell'estate, che segnò anche lo sbarco dell'uomo sulla Luna, rivissuta con gli occhi di un bambino, Buddy, lo stupefacente Jude Hill, il protagonista principale di questo film in buona parte autobiografico, il quale vive col fratello maggiore e la madre (Cailtrona Balfe) in una strada dove convivono pacificamente protestanti (come Branagh) e cattolici, accomunati dall'appartenenza alla classe lavoratrice, in un tempo in cui questa aveva il sopravvento su quella a una confessione religiosa, mentre il padre lavora come carpentiere in Inghilterra e rientra ogni due settimane a trovare la famiglia e gli anziani genitori nonché amatissimi nonni di Buddy (gli impareggiabili Judy Dench e Ciàran Hinds). Mentre la situazione si inasprisce, con gli estremisti lealisti che intendono ripulire la strada dai cattolici e chiedono dedizione alla causa ai correligionari, nella mente del padre di Buddy si affaccia l'idea di emigrare per portare al sicuro la famiglia oltre che per risolvere i problemi economici che l'affliggono (anche a causa della sua propensione alle scommesse ippiche): per casa circolano dépliant allettanti su Sydney o Vancouver ma né la moglie, né i figli, soprattutto Buddy, vogliono saperne di allontanarsi da quella strada che è il loro mondo, dagli amici (nel caso del bambino il suo primo amore: Katherine, la prima della classe, cattolica) e, soprattutto, dai nonni; infine arriverà l'offerta da parte degli attuali datori di lavoro di trasferirsi in Inghilterra, che mettono a disposizione un alloggio gratuito e un lavoro sicuro e ben retribuito, accettata a malincuore dalla famiglia di Buddy mentre la situazione si fa man mano più pericolosa e incerta. Il film racconta la vita quotidiana di quel rione in quei mesi "sospesi" e le vicende infantili si incrociano con quelle degli adulti; i ricordi di Buddy sono resi in un bianco e nero di grande impatto, grazie alla superba fotografia di Haris Zambarloukos salvo quando si tratta di situazioni che hanno a che vedere con lo spettacolo (cinema, teatro o musica) e si rifanno al percorso formativo dello stesso Branagh, e in tal caso sono resi a colori. Nonostante gli eventi drammatici che segnarono l'epoca il tono è divertito, affettuoso, sdrammatizzante, in linea col carattere irlandese che accomuna le due parti in causa, e le immagini sono supportate dalla colonna sonora affidata in tutto a Van Morrison, nativo di Belfast e di famiglia protestante pure lui, che pur a tratti soverchiante da sola vale il prezzo del biglietto. Un amarcord allegro, tutto sommato, per niente retorico e sincero nonostante il gigionismo innato di Branagh. 

martedì 1 marzo 2022

Ci vuole orecchio


"Ci vuole orecchio" - Elio canta e recita Enzo Jannacci. Regia, drammaturgia e scenografia 
Giorgio Gallione; arrangiamenti musicali Paolo Silvestri. Con Elio (Stefano Belisari), Alberto Tafuri al pianoforte, Martino Malacrida alla batteria, Pietro Marinelli al basso e contrabbasso, Sophia Tomelleri al sassofono, Giulio Tullio al trombone. Al Teatro Nuovo Giovanni da Udine sabato 26 febbraio

Una presenza doverosa la mia, e un tuffo nel passato in quella Milano in cui sono nato, cresciuto e vissuto, e che nessuno meglio di Enzo Jannacci, un chirurgo prestato alla musica (o, viceversa, un "poetastro", come si definiva, prestato alla medicina) aveva saputo cantare e descrivere attraverso storie surreali e personaggi "minimi", istantanee che sono passate alla storia della città, quando era al massimo del suo fulgore in tutti i sensi, tra gli anni Sessanta e Settanta, prima di tradire la sua vocazione, ossia il primato nella produzione, nei commerci e nella cultura, possibile attraverso l'assimilazione pressoché immediata di chi vi accorreva da ogni regione d'Italia, per subire, a partire dai famigerati anni Ottanta, una mutazione genetica trasformandola prima nella Milano da Bere di craxiana memoria e della speculazione immobiliare e poi nella capitale berlusconizzata della fuffa, modaiola o finanziaria, per non parlare degli incistamenti mafiosi di varia origine. Come ho ribadito più volte in questa sede, io ho resistito fino al 2001 e poi ne sono fuggito, disgustato e furioso. Quella Milano però l'amavo, l'ho conosciuta bene, vissuta e mi è rimasta nel cuore: mi ci sono ritrovato qualche sera fa in questo spettacolo allegro e malinconico insieme, che non ha nulla di una rituale celebrazione ma è un affettuoso tributo a quel personaggio stravagante, geniale, tanto squinternato quanto coerente che era Jannacci attraverso le sue canzoni dei suoi diversi periodi, a cominciare da alcune perle degli esordi come La luna è una lampadina, T'ho compraa i calzett de seda, L'Armando, El purtava i scarp del tennis, oltre a quella che dà il titolo allo spettacolo (e lo apre) ed è in qualche modo il manifesto artistico dell'atuore (1980), passando per le meno note Parlare con i limoni e finire con Quando calerà il sipario, interpretate da chi meglio non avrebbe potuto, Elio, al secolo Stefano Belisari, uno dei pochi e degni eredi di quei "saltimbanchi" che hanno segnato un'epoca, tra cui Dario Fo, Giorgio Gaber, Beppe Viola, il "giro" del Santa Tecla, quello del Capolinea dove si suonava jazz, in parte il Derby, i Gufi, Cochi e Renato e tanti, tanti altri, "giri" che si intrecciavano e che hanno caratterizzato una fase estremamente creativa e dato via a quell'umorismo tipicamente milanese che è un unicum nel panorama nazionale. Una rivisitazione scoppiettante, dove alle parole in musica (di prim'ordine l'accompagnamento strumentale) si alternano a scattanti e puntuali testi scritti da amici e altri personaggi in qualche modo legati a Jannacci e a quella Milano. Un'ora e mezzo tirata, senza fronzoli, senza retorica. E c'è stato anche il bis. Sala gremita, pubblico soddisfatto e felice. Prossime tappe: domani a Rovereto, giovedì 3 a Guastalla, venerdì 4 a Bologna e poi di seguito...