sabato 29 gennaio 2022

Quel giorno tu sarai

"Quel giorno tu sarai" (Evolution) di Kornél Mundruczó. Con Lili Monori, Annamária Láng, Goya Rego, Padmé Handemir, Jule Böwe e altri. Germania, Ungheria 2021 ★★★★+

Uscito nelle sale italiane in coincidenza con il Giorno della memoria, il 27 gennaio (e in anteprima come film d’apertura del 33esimo Trieste Film Festival venerdì 21) Evolution è un film dal forte impatto emotivo, a tratti perfino disturbante per l’insistenza su particolari sgradevoli che, di primo acchito, fanno venire il dubbio di un certo compiacimento da parte del regista per una sorta di estetica del brutto, anzi: dello sporco. Così non è. Il tema è il rapporto di una famiglia ungherese di origine ebraica con l’eredità dell’Olocausto, il cui filo conduttore è Eva, nata nel campo di concentramento di Auschwitz/Birkenau, rinvenuta e salvata da una squadra di volontari polacchi mandati dai russi a ripulire e igienizzare le camere a gas: è questa la prima delle tre parti della pellicola, dove nelle finte docce dove operano, armati di spazzolini e secchi d’acqua tre addetti, non viene pronunciata una parola: che si tratti di un Lager lo si capisce solo da una ripresa dall’alto in dissolvenza che chiude la scena. Nella seconda ritroviamo Eva, com’era stata chiamata dai suoi soccorritori, ormai anziana, nel suo appartamento di Budapest, recalcitrante a partecipare a una cerimonia, per la quale la figlia Lena è giunta apposta da Berlino, dove vive (o è "fuggita" causa anche in non facili rapporto con la madre), in occasione della quale le verrà conferito un riconoscimento in denaro, una sorta di risarcimento, in quanto vittima. Per ottenerlo, ha dovuto ancora una volta di dimostrare di essere ebrea alle autorità, questa volta della sinagoga, così come i suoi genitori avevano dovuto cercare di provare di non esserlo a quelle naziste: giustamente la donna, che non ha mai dato una grande importanza alle sue origini, mette in discussione la logica della schedatura e catalogazione delle persone che, ricorrendo a criteri arbitrari non potendo utilizzare dati biologici o genetici per inventare categorie diverse, come la razza, per attribuire cittadinanza e diritti, ignorano l'individuo in quanto tale; a sua volta Lena ha un rapporto conflittuale con la propria ebraicità: trattandosi di una famiglia profondamente laica, non c’è neppure un’appartenenza religiosa a fare da collante. Tutta questa seconda parte è girata in una unica sequenza, in sostanza un atto teatrale, memorabile per la straordinaria interpretazione di Lili Monori che, nella parte dell’anziana scrittrice che era diventata Eva, tra vuoti di memoria dovuti all’età, sprazzi di totale lucidità, aspetti che preferisce sorvolare, racconta la storia della sua famiglia, o almeno quello che è riuscita o ha voluto ricostruire, e la propria. La terza e ultima si svolge ai giorni nostri a Berlino, e vede protagonista il figlio adolescente di Lena, Jonas, interpretato dal bravissimo, a sua volta, Goya Rego, rimandato a casa da scuola per un incendio dalle causa oscure (un attentato di tipo razzista?), un ragazzo un po' distante dai suoi coetanei, che si sente addosso la stigmate del diverso e non sa perché, dato che in lui la "identità ebraica", se ne esiste una, è del tutto diluita. A parte i conflitti generazionali con la madre, della cui "identità" irrisolta già sappiamo, riesce a legare con una sua coetanea presumibilmente di origine turca e dunque musulmana (per nulla praticante o credente) ma, come lui, prima di tutto berlinese e tedesca di oggi. Ben girato e meglio ancora interpretato, con la presenza  simbolica e costante dell'elemento acqua a fare da trait-d'union, è un bellissimo film sull'identità, che invita a porsi domande e a riflettere, come già mi era parso di rilevare nell'altro film di Kornél Mundruczó che avevo visto, Una luna chiamata Europa. Lasciato sedimentare qualche giorno, "lavora" dentro e conquista alla distanza.

mercoledì 26 gennaio 2022

E' andato tutto bene

 

"E' andato tutto bene" (Tout s’est bien passé) di François Ozon. Con Sophie Marceau, André Dussollier, Géraldine Pailhas, Charlotte Rampling, Éric Caravaca, Grégory Gadebois, Hanna Schygulla e altri. Francia 2021 ★★★★

Già con Grazie a dio il mio regista francese preferito aveva ampiamente rimediato al “buco dell’Ozon” di Doppio amore, un “topicco” per me inspiegabile per uno del suo livello, e qui conferma di essere tornato pienamente sé stesso portando sullo schermo il romanzo autobiografico di Emmanuèlle Bernheim, amica e collaboratrice (sue tre sceneggiature per il Nostro) scomparsa nel 2017, in cui raccontava il conflitto scatenato nella sua coscienza dalla richiesta del padre, ottuagenario rimasto colpito da un ictus che gli ha causato un’emiparesi, di aiutarlo a farla finita. Industriale di successo, collezionista d’arte, capriccioso, egocentrico, egoista, bon vivant, non aveva mai negato, ma anzi rivendicato la propria omosessualità e misoginia rovinando l’esistenza a sua moglie, pure lei malata (di Parkinsons) nonché perennemente depressa, e fregandosene delle figlie, salvo ricorrere a loro in caso di necessità. Emmanuèlle, che non a caso non ha voluto figli e convive con Serge, critico cinematografico, ha sempre avuto un rapporto problematico col padre ma, più forte di lui di carattere, riesce a tenergli testa; Pascale, un po’ più giovane, la figlia negletta, un rapporto col padre non l’ha mai avuto e ha messo su una famiglia tradizionale, e suo figlio, giovane musicista, è il cocco del nonno, ma pure lei è coinvolta nella vicenda. Benché addolorate, le due sorelle non se la sentono di negare l’ultima volontà all’uomo, e siccome nel caso del suicidio assistito le norme francesi sono pressoché identiche a quelle italiane, sono costrette a intraprendere tutto l’iter per farlo giungere in tutta sicurezza in Svizzera, sfuggendo alle innumerevoli trappole legali e burocratiche frapposte dallo Stato, in ossequio alla religione e a una morale ipocrita e bigotta, a impedire la realizzazione della libera volontà dell’individuo, che assume aspetti tragicomici; mettiamoci il gusto di François Ozon a dissezionare e mettere in evidenza i lati disfunzionali dei rapporti famigliari, e ne viene fuori un film che offre un quadro realistico e credibile di situazioni concrete, che si verificano quotidianamente anche in Italia, venate dall’ironia e dallo scetticismo di fondo che nel regista parigino non mancano mai e che rende i suoi film anche più crudi e spiazzanti gradevoli oltre che, sempre, formalmente ed esteticamente ineccepibili, grazie anche a interpreti scelti accuratamente ad hoc: se Sophie Marceau nei panni di Emmanuèlle e Géraldine Pailhas in quelli di Pascale sono bravissime, il vecchio André Dussollier, un Venerabile Maestro, è addirittura strepitoso nel rendere la stronzaggine profonda ma anche tutte le debolezze e l’infantilismo del vecchio Bernheim, e fa piacere rivedere anche Hanna Schygulla nella parte di un’ex magistrata svizzera che presiede un’associazione di accompagnamento alla morte volontaria. Insomma, il “buco dell’Ozon” pare essersi definitivamente chiuso…

venerdì 21 gennaio 2022

America Latina

"America Latina" di Damiano e Fabio D'Innocenzo. Con Elio Germano, Astrid Casali, Sara Ciocca, Maurizio Lastrico, Carlotta Gamba, Federica Pala, Federico Dini, Massimo Wertmüller e altri. Italia, 2021 ★★★★

Terzo film dei “gemelli terribili” del cinema italiano, e terzo centro, dopo La terra dell’abbastanza e Favolacce, e come per quest’ultimo hanno affidato il ruolo di protagonista a uno strepitoso Elio Germano, quanto mai inquietante nei panni di uno scrupoloso e pacato dentista di successo che opera nel capoluogo pontino e vive, con la giovane e affettuosa moglie Laura (Astrid Casali, davvero brava), le due figlie e i suoi cani in una originale villa con piscina circondata pressoché dal nulla. Una famiglia ideale e una vita perfetta in uno spazio a sua misura, ciò che apparentemente ha sempre desiderato. Uniche piccole deviazioni, le chiacchierate e le relative “birrette” con l’amico Simone, titolare di una concessionaria d’auto, e qualche psicofarmaco e goccetto di qualcosa di più forte all’occorrenza, specie dopo che una sera, scendendo in cantina, che a differenza dell’impeccabile resto dell’abitazione sembra un immondezzaio più che un ripostiglio, scoprendovi, imbavagliata e incatenata a un palo e semi immersa in una pozza d’acqua, una ragazza incapace di esprimersi se non con rantoli e grida tanto è in preda al terrore. Chi è? Come è finita lì? Perché? Per Massimo è un flash. Non lo comunica alle donne della famiglia, né chiede aiuto, ma inizia una difficoltosa escursione nella propria mente per cercare quelle risposte che è impossibile trovare a meno di non scavare nel proprio lato oscuro. Inutlie, oltre che inopportuno, svelare altro sulla trama perché si tratta, per l’appunto, di un viaggio nella psiche allucinata di un uomo che vive in preda ai sensi di colpa e di inadeguatezza, reso non attraverso suggestive e colorate immagini psichedeliche magari accompagnate da suoni suadenti, ma di oggetti ordinari, acqua che scorre, squallore. Siamo nel campo dell’inspiegabile, dove bene e male, bellezza e bruttura, sano e malato, reale e immaginario si confondono: gli autori non si pronunciano e meno che mai giudicano, lasciano semmai indizi, tracce, a libera interpretazione dello spettatore, che in 90 coinvolgenti e stranianti minuti troverà da sé, forse, una soluzione per questa sorta di giallo metafisico, ammesso che abbia un senso dare una pur vaga definizione di questo altro bel lavoro dei D’Innocenzo. Che questa volta non ha bisogno di sottotitoli perché la dizione degli attori è perfettamente intellegibile anche dai non laziali. Bravi tutti, e rimango in fiduciosa attesa della prossima invenzione dei due giovani e meritevoli fratelli cineasti.



lunedì 17 gennaio 2022

The King's Man - Le origini

"The King's Man - Le origini" (the King's Man) di Matthew Vaughn, Con Ralph Fiennes, Harris Dickinson, Djimon Hounsou, Gemma Arterton, Rhys Ifans, Daniel BrühlMetthew Goode, Tom Hollander, Charles Dance, Stanley Tucci e altri. GB, USA 2021 ★★★

Chi si era divertito vedendo trasposte sullo schermo le mirabolanti avventure del superservizio segreto inglese indipendente (e molto chic) creato per garantire la pace (ché di quelli alle dipendenze dei vari governi, al contrario, non c'è da fidarsi, ché semmai la fomentano) tratte dall'omonimo fumetto della Marvel Kingmans - Secret Service (2014) Kingmans - Il cerchio d'oro (2017) non rimarrà deluso da questo prequel che ne racconta le origini facendole risalire ai tempi della Prima Guerra Mondiale su iniziativa di un nobile, il Duca di Oxford (Ralph Fiennes), un ex militare "pentito" tramutatosi in  volontario della Croce Rossa che, dopo aver assistito all'inizio del secolo agli orrori della guerra anglo-boera in Sudafrica e avervi perso la moglie, crea una rete di intelligence basata sul personale domestico al servizio dei potenti dell'epoca, dai tre cugini regnanti rispettivamente in Gran Bretagna (Giorgio V), Germania (Guglielmo II) e Russia (Nicola II) al presidente USA Woodrow Wilson, prima per cercare di sventare il conflitto, poi per dirigerlo nella direzione auspicata dagli inglesi, che se la stanno vedendo brutta, con il ritiro della Russia dalla Triplice Intesa in seguito alla Rivoluzione del 1917 e il non interventismo americano: si ipotizza che in questo senso abbia lavorato un altrettanto segreto conciliabolo, una sorta di Spectre ante litteram, guidato dal Pastore, uno scozzese che detesta gli inglesi, impersonati da Re Giorgio, se possibile ancora più di un irlandese. La sua identità sarà svelata soltanto nelle scene finali del film, dopo che abbiamo seguito le vicende casalinghe del Duca di Oxford, alle prese con il figlio (rimasto orfano di madre 12 anni prima dello scoppio della guerra) che vuole arruolarsi volontario nell'esercito mentre il padre (come anche il regista Matthew Vaughn e noi con lui) non condivide il motto latino dulce et decorum est pro patria mori e fa di tutto per evitarlo, e quelle dei vari personaggi storici che circondano i  litigiosi regnanti di allora, da Lord Kitchener, il segretario di stato britannico per la guerra, al consigliere del Kaiser tedesco, A Gavrilo Princip, l'attentatore di Sarajevo, da Rasputin, poi "sostituito" da Lenin, perfino Mata Hari, che ha girato un film compromettente con il presidente americano, tutti agli ordini del misterioso Pastore con lo scopo ultimo di distruggere il sovrano inglese. Superfluo riassumere la trama, fantastica sì ma fino a un certo punto, che porta alla nascita dei Kingmans nelle stanze segrete della sede della più famosa sartoria di Savile Road a Londra, un gruppo di gentiluomini e gentildonne che portano il nome in codice dei cavalieri della Tavola Rotonda, da Artù a Merlino a Ginevra e Lancillotto, come ben sanno gli appassionati delle precedenti puntate della saga, ma anche chi non la conosce, può godersi due ore abbondanti di spettacolo, a tratti dissacrante, intriso di humour ovviamente british, e di spirito pacifista. Rimane un film tratto da un fumetto, con tanti effetti speciali ma un'ottima ambientazione d'epoca e bravi interpreti. Insomma divertimento ben confezionato e relax garantito. 

venerdì 14 gennaio 2022

Un eroe

"Un eroe" (Qahremān / A Hero) di Asghar Farhadi. Con Amir Jadidi, Sahar Goldust, Mohsen Tanabandeh, Mariam Shahdaei, Sarina Farhadi, Feresteh, Sadre Orafaiy, Ehsan Goodarzi, Alireza Jahandideh e altri. Iran, Francia 2021 ★★★★

Si può stare certi che quando Asghar Farhadi prende in mano una storia, ne cura la sceneggiatura e la traduce in immagini, dopo aver accuratamente individuato gli interpreti a cui affidare i suoi personaggi, il risultato non tradisce le aspettative che, trattandosi del maestro iraniano, sono altissime già in partenza. Dopo due film girati in trasferta, Il passato e Tutti lo sanno, rispettivamente in Francia e in Spagna, intervallati da Il cliente, ambientato a Teheran, questa volta ha scelto Shiraz, con escursioni a Marvdasht, e le rovine di Persepoli non sono lontane, per raccontare una vicenda kafkiana, nella sua circolarità inesorabile, dove ognuno dei protagonisti ha le sue ragioni ma tutti, al contempo, hanno torto e il cerchio si chiude attorno alle speranze di Rahim, un calligrafo e illustratore che per mettersi in proprio si è indebitato con l'ex cognato senza riuscire a onorare l'impegno, di uscire dalla prigione a cui è stato condannato per tre anni. Speranze che si erano accese durante una breve licenza, quando la sua nuova compagna, una logopedista che ha in cura suo figlio (che l'ex moglie gli ha lasciato in carico) gli dice di aver trovato per caso una borsa da donna contente delle monete d'oro, con il ricavato della cui vendita potrebbe rabbonire il creditore convincendolo a ritirare la denuncia. Assalito da scrupoli morali, Rahim lascia perdere e decide di restituire la borsa, andando alla ricerca di chi l'aveva smarrita, distribuendo volantini e lasciando come recapito il numero del carcere. Mal glie ne incolse, perché da qui comincia una veloce scalata agli altari, dato che una volta restituita la borsa (il cretino non si fa nemmeno lasciare una ricevuta o un indirizzo) si scatena il circo mediatico e l'uomo diventa un eroe nazionale, comparendo in TV e sui giornali, e a pavoneggiarsi per primi sono i dirigenti del carcere in cui è custodito e, a seguire, una organizzazione che si occupa di detenuti; ma siccome, come sempre nei film di Farhadi, c'è molto di non detto, o non detto del tutto, e il caso (oltre ai social media) ci mette lo zampino, altrettanto presto avviene la caduta nella polvere di Rahim "il virtuoso", che è un ingenuo pasticcione ma anche un personaggio ambiguo, con un sorriso sghembo che mi ricorda qualcuno che sta al governo qui da noi, ché uno non capisce mai se ci è o ci fa. O entrambe le cose. Alla fine sono coinvolte tre famiglie, la direzione del carcere, l'Onlus della situazione, la reputazione dell'uomo viene azzerata, tutti raccontano una qualche piccola frottola col risultato di aggrovigliare in maniera inestricabile la matassa e il poveraccio torna in galera, dove avrà tempo di riflettere sulla sua dabbenaggine. In un mare di parole e mezze menzogne, l'unico che dice le cose giuste e chiare a tutti è il bambino dislessico (cfr Il Re è nudo!), ma chi l'ascolterà mai? Una metafora della realtà, dove ognuno tira l'acqua al suo mulino senza pensare alle conseguenze, su sé stesso e tantomeno sul prossimo: vengono in mente le immortali Leggi fondamentali della stupidità umana del mai dimenticato M. C. Cipolla; meccanismi invariabili a qualunque latitudine e lungitudine e in qualsivoglia ambiente umano, ed ecco spiegato perché il cinema di Asghar Farhadi è sempre universalmente attuale. 

martedì 11 gennaio 2022

The Tender Bar

"The Tender Bar" di George Clooney. Con Tye Sheridan, Ben Affleck, Daniel Ranieri, Lily Rabe, Briana Middleton, Christopher Lloyd, Ron Livingston, Max Martini, Max Casella, Rhenzi Feliz e altri USA 2021 ★★★★

Tratto dal romanzo autobiografico Il bar delle grandi speranze (Piemme) del 2005 di J.R. Moerhinger, giornalista e scrittore newyorkese e già Premio Pulitzer, l'8° film da regista di George Clooney rende con tenerezza (come da titolo originale) e sensibilità le memorie d'infanzia dell'autore, che gli è vicino sia per motivi anagrafici sia sia per forma mentis: del resto Clooney è figlio di un giornalista, conosce l'ambiente della carta stampata e della televisione ed era inizialmente intenzionato a seguire le orme del padre. Non così Moehringer, figlio di un DJ radiofonico di cui fino ai 10 anni conosceva soltanto la voce quando era "on air", che da New York si trasferì con la madre a Long Island nella casa del nonno (Christopher LLoyd, il mitico Doc di Ritorno al futuro), e cresciuto nel caldo ambiente di una famiglia eccentrica, non ricca ma colta, e che trovò un degno sostituto della figura paterna nell'amato zio Charlie (Ben Affleck che fa sempre piacere vedere: misurato, autentico, quando si dice "in parte"), col vantaggio di evitare qualsiasi complesso edipico e ricevendo la sua formazione da uomo, ma ben rispettoso del genere femminile, a cominciare dalla madre, al bancone del bar che gestiva, in mezzo a una clientela popolare, prevalentemente lavoratori, e un'educazione, anche sentimentale, basata su regole chiare: rispetto di sé stesso e del prossimo e buon senso. E un grande amore per i libri (che stipano le mensole del locale, chiamato non a caso The Dickens). E senza leggerne un cospicuo numero è impensabile diventare giornalista e men che mai scrittori, vocazione che J.R. coltivava fin da bambino e che lo zio intuì subito, incoraggiandola invece di spingerlo allo sport, di cui invece era appassionato (il padre, che ogni tanto appare, incongruo e fuori tempo massimo, lo avrebbe sicuramente indirizzato alla musica, imponendogliela e con ogni probabilità facendogliela odiare). Di quei ricordi e di quell'educazione Moehringer farà tesoro, sia durante la carriera universitaria a Yale (da questa fase in poi il suo personaggio è interpretato dal bravissimo Tye Sheridan), sia quando cominciò a lavorare, cominciando dalla gavetta come fattorino, al New York Times. Solo lui, perché vinse una borsa di studio a Yale, e il nonno finto burbero hanno frequentato il college: non zio Charlie e le due sorelle, anche se avrebbero voluto, ma in casa mancavano i quattrini. Un storia di formazione e crescita (in questo c'è una qualche affinità con l'ultimo film di Sorrentino, nato però dieci anni dopo Moehringer Clooney e in Europa, anzi: a Napoli) a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta, certo molto americana ma non la sua parte malsana: la classe medio-bassa, allora era ancora viva, oggi pressoché senza voce. Caldi i colori come le atmosfere e i ricordi, dolci anche quando sono amari, a cominciare dall'amore non corrisposto per Sidney, che da J.R. non vuole più dell'amicizia e qualche ora di sesso, ma che sarà pur sempre istruttivo per il futuro del ragazzo. Clooney nei suoi film ha sempre quel suo modo gentile di dire le cose senza urlarle e senza fare proclami, una specie di "crooner" delle immagini, un grandissimi pregio al giorno d'oggi, assieme al fatto di infischiarsene del politically correct, non peritandosi di fare di Sidney, una graziosa mulatta, l'emblema della ragazza ricca che si prende gioco dell'amante povero ma sposa il suo pari grado, e dipingere la madre di lei, una nera "arrivata", come una vera stronza, il personaggio più sgradevole del film. Disponibile su Amazon Prime, merita di essere visto: riconcilia con un'America che non c'è più. 

domenica 9 gennaio 2022

Il potere del cane

"Il potere del cane" (The Power of the Dog) di Jane Campion. Con Benedict Cumberbatch, Kirsten Dunst, Jesse Plemons, Kodi Smit-McPhee, Genevieve Lemon, David Carradine e altri. Nuova Zelanda, Australia 2021 ★★★+

Non amo i western classici, tanto meno il cinema militonto, feministo o maschilisto che sia, e neanche gli americani e gli oceanici in generale alle prese con i rigurgiti della loro moralità bigotta e ipocrita che talvolta cade in contraddizione con l'altrettanto salda fede nel mito del "progresso" senza limiti all'insegna dei dané, però devo ammettere che il film non è male, per quanto a tratti pallosetto e non poco manieristico, specie nelle immagini. Indubbiamente suggestive, girate in buona parte in Nuova Zelanda, Paese d'origine della regista, e che rendono i vasti quanto spesso desolanti spazi del Montana, in cui è ambientato l'omonimo romanzo di Thomas Savage del 1967 da cui è tratto il film, che prende per titolo un oscuro versetto biblico. Phil (Cumberbatch) e George (Plemons) Burbank gestiscono un ranch con un enorme allevamento di bovini e non potrebbero essere più diversi: il primo è orgoglioso di essere il prototipo del mandriano rude e dalla scorza dura, sgradevole e selvaggio, che vive nel mito del defunto Bronco Henry, il quale l'ha iniziato al duro mestiere (e anche ad altro, come si intuirà nel corso del film), che per il posato e gentile George, che a differenza del fratello si lava ed ha un aspetto curato e ha perfino frequentato il college, pur senza laurearsi per seguire l'attività di famiglia, non è nient'altro che colui che gli ha insegnato ad andare a cavallo, non a vivere. Quando George deciderà di sposare Rose (Dunst), vedova di un medico suicida e madre di Peter (McPhee), un giovane allampanato ed effeminato che studia a sua volta medicina, proprietaria di una locanda dove viene presa di mira assieme al figlio per la sua leziosità durante una cena da Phil e i suoi mandriani, e la porterà a vivere nel ranch, l'equilibrio di Phil e del suo mondo rivolto al passato andrà in crisi (siamo nel 1925) così come il rapporto con il fratello, non direttamente ma per interposta persona: Rose. Che verrà accusata di manipolare George, di essere falsa e voler mettere mano ai quattrini di famiglia oltre che a rivoluzionarne abitudini e principi, e mette in atto una vera e propria guerra psicologica allo scopo di squinternarne tutte le certezze, e ci riesce, precipitandola nell'alcolismo, sulle orme del marito suicida. Quando nel ranch giungerà anche il giovane ed apparentemente fragile Peter per trascorrervi le vacanze estive, con lui arriverà anche la nemesi: lo sorprenderà perché sarà l'unico che abbia conosciuto fino a quel momento a scorgere nel profilo delle colline un cane che abbaia, sulle orme dell'idolatrato Bronco Henry, e da quel momento, nonostante "la partenza sbagliata, da cui nascono spesso le grandi amicizie", ne diventerà il mentore, così come Bronco Henry lo era stato per lui, scoprendo in qualche modo le carte, cosa che il sagace Peter nella sua sensibilità decisamente femminea intuisce al volo essere il suo punto debole e gioca a suo vantaggio, consumando così la sua vendetta covata fin da quando Phil lo aveva deriso e oltraggiato durante la cena di tempo prima, fedele allo scopo a cui ha improntato la sua vita fin dalla morte del padre: proteggere Rose a ogni costo. Missione compiuta e tutti vissero felici e contenti, forse. Anche se personalmente non sarei molto ottimista di come si metterebbero le cose per il gentile George se la storia non finisse lì. E', in buona sostanza, un film sulla manipolazione reciproca di personaggi che sono imprigionati nei loro ruoli, tranne per certi versi Peter, che in qualche modo incarna il futuro e l'"apertura" e la relativa ambiguità: la durezza di Phil è solo apparente, e la sua intelligenza e sensibilità (almeno musicale) sono decisamente maggiori di quella di Rose e di George, benché la sua dirittura morale sia incrinata da un tarlo che lo rode; ed è anche un film sul "non detto". Un po' tirato per le lunghe e alquanto lento per i miei gusti, ma siamo comunque decisamente sopra la media, così come la prestazione degli interpreti principali. 

giovedì 6 gennaio 2022

House of Gucci

“House of Gucci” di Ridley Scott. Con Lady Gaga, Adam Driver, Jared Leto, Al Pacino, Jeremy Irons, Jack Huston, Salma Hayek, Camille Cottin e altri. USA 2021 1/2 🤮💩🤣

Dipende dalle aspettative. Se pensate che il geniale regista di Alien, Blade Runner, Thelma &  Louise, American Gangster possa, a 84 anni, essere in grado di ripetersi a quei livelli, siete sulla strada sbagliata. Adeguatevi a quella, in discesa, imboccata coi via via più deludenti e aderenti alla sua capacità espressiva attuale con i mortificanti  Prometheus , The Counselor, Il sopravvissuto. House of Gucci è una solenne cagata. A meno che non decidiate di andare al cinema per vedere una serie TV di basso livello proiettato su grande schermo per ben due ore e mezzo. Perché questo è. La Gucci Story raccontata da uno stipendiato della Guccy House come Ridley Scotty, niente è se non uno spot. Di cosa non si sa. Gucci, fiorentini pieni di sé e non si di che cos'altro, che stanno sul cazzo all'universo mondo, si espandono e merdifcano a New York e a Milano. Finiranno in merda, come meritano. E chi se ne frega. Il film è uno spot per l'attuale Gucci House, né più e né meno. Lady Gaga alias Stefania Germanotta si conferma attrice straordinaria, che meriterebbe qualcosa di meglio che non dover interpretare una Patrizia Reggiani più improbabile dell’originale: nei primi anni Settanta nessuna milanese si vestiva come manco nel 1955, meno che mai nei nefasti Ottanta della Milano da bere craxiana e ormai brianzolizzata da Pirlusconi, nemmeno la più tamarra; Adam Driver, nella sua stolidità, perfetto nel ruolo dell'imbecille di turno, il marito, Maurizio Gucci, da impollastrare. Non parliamo del caricaturale Jared Leto o di un patetico Al Pacino. Con la Gagarella, si salva solo Camille Cottin, la nasona più bella e brava del mondo, che in sole quattro scene illumina il polpettone. Una cagata colossale con una sceneggiatura puerile e delle ambientazioni ridicole: far passare Roma Trastevere per Milano Porta Venezia è in linea con l’americanata del rincoglionito autore di spot pubblicitari britannico: se doveste ritenervi offesi per come siamo dipinti noi italiani in base ai luoghi comuni anglosassoni e americani in particolare, consolatevi con quello che pensiamo noi di loro. Comunque se lo prendete come un film comico e smandrappato, tipo cinepanettone alla Vanzina, ecco: il livello è quello.

 

lunedì 3 gennaio 2022

Il capo perfetto

"Il capo perfetto" (El buen patrón) di Ferndando León de Aranoa. Con Javier Bardem, Manolo Solo, Almudena Amor, Óscar de la Fuente, Sonia Almarcha, Fernando Albizo, Celso Bugallo, Tarik Rmili e altri. Spagna 2021 ★★★★

Come scrive l'amico Gianmatteo Pellizzari nella sua ottima recensione sul Messaggero Veneto, Il capo perfetto forse non è propriamente (e per fortuna) un film natalizio, ma è senz'altro "il" film di questo Natale cinematografico, considerato quel che viene passato sui grandi schermi (per non parlare di quelli casalinghi e di quel che propongono le TV "generaliste", rimaste ad altre epoche). Julio Blanco, un grandioso Javier Bardem, è il titolare della Basculas Blanco, fabbrica spagnola di bilance industriali di precisione a conduzione famigliare, in lizza per ricevere un premio regionale come impresa modello e in attesa della visita da parte della commissione che deve assegnarlo: sia lui sia i suoi dipendenti, che Blanco considera come figli e loro come un buen patrón, come da titolo originale, sono in fibrillazione come lo sarebbero i cuochi di un grande ristorante con gli ispettori della Michelin alle porte: tutto deve funzionare a dovere con "impegno, equilibrio, fedeltà", le tre parole d'ordine che informano l'attività di questo mondo in miniatura, dove tutti si conoscono. Soprattutto equilibrio, come da ragione sociale... Questa la missione dell'imprenditore, che deve barcamenarsi tra le diverse esigenze, pubblico e privato, legale e non, fedeltà e tradimento... Già 20 anni fa, e sempre lavorando con Javier Bardem, Fernando León de Aranoa aveva affrontato il mondo del lavoro: lì la crisi dei cantieri navali galiziani in disarmo, raccontando I lunedì al sole di un gruppo di operai che avevano perso sì il lavoro, ma non la dignità e la voglia di vivere, con una commedia filosofica e lieve che nulla toglieva al realismo e alla drammaticità del racconto; qui con una commedia nera che non ha bisogno di forzare le situazioni grottesche perché bastano e avanzano quelle che si generano nella vita di tutti i giorni di un'azienda di quel genere e dimensione, dal punto di vista dell'imprenditore, che viene seguito minuziosamente per una settimana nelle sue vicende quotidiane, tra fabbrica e famiglia, che poi nella sua visione sono un tutt'uno e comunque sono destinate a confondersi. Prima della visita della famosa commissione avrà la spina nel fianco della inattesa e insistente  protesta di un dipendente licenziato recentemente per esubero, quindi legalmente; la crisi coniugale del capo della produzione Miralles (Manolo Solo), di cui gli tocca coprire le reiterate mancanze perché gli è pure amico d'infanzia (o almeno così crede) e fargli da terapista di coppia; gestire l'esuberanza (questa volta in termini di prestazioni, sia lavorative sia sessuali, del rampante e ambizioso capo della logistica, tale Khaled, per di più un "arabo"); rapportarsi con le giovani e avvenenti stagiste, e in particolare con la figlia di amici di famiglia presentatasi in incognito, Liliana, interpretata dalla fresca Almudena Amor... Bardem è da urlo nel rendere sornionamente come solo lui sa fare l'ambiguità del personaggio, la sua doppia morale: la satira, sta nelle cose e nel modo di osservarle e gli spagnoli sono maestri nel saper coglierne il lato paradossale e bizzarro della realtà, e il regista madrileno conferma quanto aveva già magnificamente fatto con Perfect Day, fornendo un'ulteriore conferma del suo talento. Ad affiancare il mattatore Bardem, una schiera di interpreti e caratteristi pescati con precisione chirurgica. Un lampo nel buio, liberatorio!

sabato 1 gennaio 2022

Bunano!


Sono ormai anni che, in questo spazio virtuale, mi limito a recensire i film che vedo al cinema e qualche spettacolo teatrale, occupandomi sempre più di rado dell'attualità politica, che si tratti di quella internazionale oppure di quella, semplicemente grottesca, di questa nostra Terra dei Cachi. Per una volta, cogliendo l'occasione della ricorrenza del Capodanno, che continuo a non capacitarmi perché debba essere una giornata festiva, considerato che non c'è nulla da festeggiare con un anno in più sul groppone e in meno fino al definitivo precipizio nel caos, a meno di non avere la fortuna di tirare le cuoia prima che l'umanità si disintegri da sola, vorrei fare un rapido punto della situazione. E' da metà di questa legislatura, diciamo dall'inizio dell'Era Pandemica, nel marzo del 2020, che due sono gli argomenti che dominano il panorama informativo nazionale: il Covid19 con annessi e connessi e le Quirinarie. Il primo è al centro delle conversazioni anche in ambito famigliare e nella cerchia delle amicizie e conoscenze, le seconde soltanto dell'interesse dei mezzi di comunicazione, ed è paradossale, in un Paese che, fino a prova contraria, è una repubblica parlamentare il cui presidente rappresenta più che altro l'unità nazionale e avrebbe il compito di garantire il funzionamento dello Stato e l'equilibrio fra i suoi poteri, tutelando in questo modo tutti i cittadini. Per la prima volta dal dopoguerra, abbiamo in presidente del consiglio in carica, Mario Draghi, che sostanzialmente si autocandida alla massima carica, creando di fatto un conflitto di poteri in fieri, come se non bastasse lo stato confusionale che già regna sovrano, con l'inevitabile ritorno d'attualità dell'ipotesi di "transizione" (termine quanto mai attuale) da un sistema sempre meno parlamentare nei fatti a uno sostanzialmente presidenziale. Che è già in atto dai tempi di Giorgio Napolitano, uno degli uomini politici più nefasti e rivoltanti apparsi sulla scena italiana negli ultimi 75 anni (e ancora vivo e vegeto), che già nel 2011 aveva imposto un "governo tecnico di emergenza" (l'Europa ce lo chiede) nominandone capo l'ex rettore della Bocconi Mario Monti, essenzialmente un contabile, ché chiamarlo economista è abbastanza fuori luogo. Il suo successore, un personaggio meno urticante perché per fortuna esente da mania di protagonismo (è soprannominato La mummia) ma altrettanto politicamente pernicioso, ha concesso il bis con un altro Mario, Draghi, anche lui un contabile, benché di lusso e dotato di ancor maggior "spessore" (lo chiamano prestigio) internazionale del primo per aver fatto da maggiordomo nelle altissime sfere finanziarie, dalla direzione del Tesoro alla Banca d'Italia, alla BCE passando per Goldman Sachs a prendere le ordinazioni, imponendolo a capo di un altro governo tecnico di emergenza, peraltro dotato di una maggioranza ancora più ampia di quella che sosteneva Monti, da cui si tengono fuori per opportunismo (e soltanto per finta) i "fascisti del terzo millennio" e qualche residuato sedicente comunista. Molto bene (cit). La missione: gestire i milliardi del PNRR, Piano nazionale ripresa e resilienza. Un programma di finanziamento comunitario di 191,5 miliardi di euro peraltro ottenuto grazie al tanto denigrato ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte contro tutte le aspettative (e gli auspici) dei suoi denigratori, ossia i potentati nazionali (leggi Confindustria) e i loro servi nel mondo dell'informazione, cioè pressoché tutti i giornali e canali televisivi. Che, ricordo, sono solo per un terzo sovvenzioni, ma per 2/3 prestiti, su cui vanno pagati interessi che andranno a incidere sul volume di un debito pubblico già esorbitante e che, anche grazie a geni dei numeri come Monti e Draghi, è andato avanti a crescere (l'Italia si colloca nella Top Five mondiale sia in termini assoluti sia per quanto riguarda il rapporto fra debito pubblico e PIL). E per fortuna che Conte non ha fatto ricorso al MES, Meccanismo Europeo di Stabilità, come tutti gli chiedevano per metterci ancor più il cappio al collo. 191,5 miliardi a cui se ne aggiungono 30 di Fondo Complementare per un totale di 221,5, un malloppo troppo cospicuo e succulento per lasciarlo gestire a un governo diretto da chi aveva vinto le elezioni del 2018, e da affidare invece a dei "professionisti": i tecnici, gli "esperti" di forneriana memoria, i Migliori per definizione. Col risultato di investire prioritamente gran parte dei fondi non in sanità, educazione, digitalizzazione e tutela del territorio bensì in cementificazione ossessiva, pletoriche Grandi Opere e conseguente devastazione ambientale, il tutto esemplificato dalla colossale mistificazione della Transizione Ecologica, per la quale è stato creato un ministero di nuovo conio, con un titolare che propugna il ritorno al nucleare, non bastandogli l'energia da fossile, considerandolo addirittura green. E Cingolani, quello che Beppe Grillo sponsorizzava come una sorta di garante per le mozioni ecologiste dei pentastellati, non è daltonico, ma la pensa proprio così. E ce lo ha messo Mario Draghi, col beneplacito e la "garanzia" del macaco genovese. Ora, per quello che me ne può importare a questo punto, soprattutto alla luce del poco o niente che, come cittadini, possiamo fare per modificare le cose (ultima di queste il voto, come hanno dimostrato per l'appunto le elezioni di quattro anni fa e la deflagrazione del movimento politico che le aveva stravinte, incapace da allora financo di scrivere e far passare una legge elettorale più decente del "rosatellum" in vigore), se non prendere atto dello stato dell'arte, starsene accorti e, all'occorrenza, farsi una sghignazzata assistendo al teatrino, mi preoccupa che Capo dello Stato lo diventi, per restare in carica, pressoché inamovibile salvo cause naturali di impedimento per ben 7 anni, un personaggio che manco ha l'alba di una formazione giuridica (come dimostra la redazione di decreti legge demenziali, vedi quelli su Green Pass e dintorni, che ha firmato da quando è a Palazzo Chigi, rispetto ai quali quelli di Conte erano di una chiarezza e semplicità a prova di idiota) ma, se va bene, capisce solo di numeri; un individuo che ha la carica empatica di un affetto grave da sindrome di Asperger e la relativa capacità di comunicazione. Il fatto che l'altro autocandidato sia un pregiudicato ottantacinquenne, definito delinquente abituale in una sentenza passata in giudicato, completamente rimbecillito e l’ipotesi che una maggioranza parlamentare possa eleggerlo venga presa in seria considerazione da politologi, esperti e pennivendoli vari la dice lunga sulle speranze che nutro nell'anno che prende l'avvio oggi...