"Quel giorno tu sarai" (Evolution) di Kornél Mundruczó. Con Lili Monori, Annamária Láng, Goya Rego, Padmé Handemir, Jule Böwe e altri. Germania, Ungheria 2021 ★★★★+
Uscito nelle sale italiane in coincidenza con il Giorno della memoria, il 27 gennaio (e in anteprima come film d’apertura del 33esimo Trieste Film Festival venerdì 21) Evolution è un film dal forte impatto emotivo, a tratti perfino disturbante per l’insistenza su particolari sgradevoli che, di primo acchito, fanno venire il dubbio di un certo compiacimento da parte del regista per una sorta di estetica del brutto, anzi: dello sporco. Così non è. Il tema è il rapporto di una famiglia ungherese di origine ebraica con l’eredità dell’Olocausto, il cui filo conduttore è Eva, nata nel campo di concentramento di Auschwitz/Birkenau, rinvenuta e salvata da una squadra di volontari polacchi mandati dai russi a ripulire e igienizzare le camere a gas: è questa la prima delle tre parti della pellicola, dove nelle finte docce dove operano, armati di spazzolini e secchi d’acqua tre addetti, non viene pronunciata una parola: che si tratti di un Lager lo si capisce solo da una ripresa dall’alto in dissolvenza che chiude la scena. Nella seconda ritroviamo Eva, com’era stata chiamata dai suoi soccorritori, ormai anziana, nel suo appartamento di Budapest, recalcitrante a partecipare a una cerimonia, per la quale la figlia Lena è giunta apposta da Berlino, dove vive (o è "fuggita" causa anche in non facili rapporto con la madre), in occasione della quale le verrà conferito un riconoscimento in denaro, una sorta di risarcimento, in quanto vittima. Per ottenerlo, ha dovuto ancora una volta di dimostrare di essere ebrea alle autorità, questa volta della sinagoga, così come i suoi genitori avevano dovuto cercare di provare di non esserlo a quelle naziste: giustamente la donna, che non ha mai dato una grande importanza alle sue origini, mette in discussione la logica della schedatura e catalogazione delle persone che, ricorrendo a criteri arbitrari non potendo utilizzare dati biologici o genetici per inventare categorie diverse, come la razza, per attribuire cittadinanza e diritti, ignorano l'individuo in quanto tale; a sua volta Lena ha un rapporto conflittuale con la propria ebraicità: trattandosi di una famiglia profondamente laica, non c’è neppure un’appartenenza religiosa a fare da collante. Tutta questa seconda parte è girata in una unica sequenza, in sostanza un atto teatrale, memorabile per la straordinaria interpretazione di Lili Monori che, nella parte dell’anziana scrittrice che era diventata Eva, tra vuoti di memoria dovuti all’età, sprazzi di totale lucidità, aspetti che preferisce sorvolare, racconta la storia della sua famiglia, o almeno quello che è riuscita o ha voluto ricostruire, e la propria. La terza e ultima si svolge ai giorni nostri a Berlino, e vede protagonista il figlio adolescente di Lena, Jonas, interpretato dal bravissimo, a sua volta, Goya Rego, rimandato a casa da scuola per un incendio dalle causa oscure (un attentato di tipo razzista?), un ragazzo un po' distante dai suoi coetanei, che si sente addosso la stigmate del diverso e non sa perché, dato che in lui la "identità ebraica", se ne esiste una, è del tutto diluita. A parte i conflitti generazionali con la madre, della cui "identità" irrisolta già sappiamo, riesce a legare con una sua coetanea presumibilmente di origine turca e dunque musulmana (per nulla praticante o credente) ma, come lui, prima di tutto berlinese e tedesca di oggi. Ben girato e meglio ancora interpretato, con la presenza simbolica e costante dell'elemento acqua a fare da trait-d'union, è un bellissimo film sull'identità, che invita a porsi domande e a riflettere, come già mi era parso di rilevare nell'altro film di Kornél Mundruczó che avevo visto, Una luna chiamata Europa. Lasciato sedimentare qualche giorno, "lavora" dentro e conquista alla distanza.
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