mercoledì 30 marzo 2016

Il condominio dei cuori infranti

"Il condominio dei cuori infranti" (Asphalte) di Samuel Benchetrit. Con Isabelle Huppert, Jules Benchetrit, Gustave Kervern, Valeria Bruni Tedeschi, Tassadit Mandi, Michael Pitt, Mickaël Graehling, Larouci Didi. Francia, Gran Bretagna 2015 ★★★★+
Piccolo grande film: inconsueto, ironico, filosofico e al contempo poetico, profondamente umanista, a dimostrazione che quando si hanno buone idee e chiare, e si ha il coraggio di sfidare il luogo comune e di metterle in pratica, i risultati possono essere eccellenti, specie se ci si avvale del contributo di interpreti di valore che si rendono complici dell'impresa del talentuoso autore e regista e che non prevaricano gli altri interpreti meno noti, permettendo loro di dimostrarsi all'altezza della situazione. La pellicola è tratta da due racconti di Chroniques de l'asphalte, dello stesso Benchetrit, e vede l'incrociarsi, nella squallida e grigia ambientazione del casermone di una banlieue francese, dei destini di tre coppie casuali di personaggi, ognuno dei quali ridotto alla solitudine dalle vicende della vita, che finiscono con l'incontrarsi e scambiarsi calore umano dando un senso alla loro esistenza attraverso la comunicazione con l'altro, ad di là delle differenze di età, cultura, sesso e condizione. Un'ex attrice in crisi esistenziale e sentimentale rimasta chiusa fuori di casa viene soccorsa dal vicino, un adolescente che vive da solo dato che la madre è costantemente assente per motivi ignoti, e i due finiscono per vedere i film anni Ottanta di cui lei era protagonista; c'è l'astronauta americano finito fuori rotta che atterra sul tetto del palazzo il quale, in attesa che la NASA venga a recuperarlo, viene accolto dalla signora algerina che lo nutre e lo coccola come se fosse il figlio che invece langue in galera: esilaranti sono le loro conversazioni che li portano a intendersi al di là dei diversi idiomi usati; infine c'è lo stralunato tizio del primo piano, che in una riunione condominiale si era rifiutato di pagare l'ascensore e invece è costretto a usarlo quando è ridotto per qualche tempo alla sedia a rotelle dopo essere stramazzato sulla cyclette, per cui esce di soppiatto soltanto quando è buio pesto e si innamora di una infermiera che fa il turno di notte e la corteggia con una dolcezza infinita spacciandosi per un fotografo del National Geographic (usando una vecchia Polaroid e una macchina dozzinale che dotata di flash ma non di pellicola). Siamo tra Beckett e Ionesco, eppure è puro cinema, rigoroso, lineare, senza fronzoli, di un umorismo spiazzante e carico di simpatia per questa umanità persa e devastata, ma alla fine scaldata dal desiderio capacità di comunicare. Da vedere.

lunedì 28 marzo 2016

Brooklyn

"Brooklyn" di John Crowley. Con Saoirse Ronan, Emoy Conen, Domnhall Gleeson, Jim Broadbent, Julie Walters, Jane Brennan, Fiona Gascott e altri. Irlanda, GB 2015 ★★+
Melenso anziché no, il film si avvale di una scorrevole sceneggiatura, curata da Nick Hornby, adattamento dell'omonimo romanzo di Colm Toibin, e di una buona prestazione da Saoirse Ronan, che rende credibile la protagonista della storia, Ellis, una ragazza irlandese che, nei primi anni Cinquanta, per sfuggire alla mancanza di prospettive nel paesello in cui è nata, viene mandata dalla famiglia, con l'aiuto di un prete attivo nella comunità isolana di Brooklyn, a "cercare il futuro in America", come milioni di altri connazionali ed europei nella seconda (o terza) ondata migratoria, dopo le distruzioni della Seconda Guerra Mondiale. In questo ha l'appoggio incondizionato dell'amata sorella Rose, che ha un lavoro stabile come contabile e decide di rimanere per assistere l'anziana madre vedova. Pur a fatica, la timida e spaesata Ellis, sconquassata nei primi tempi dalla nostalgia, si adatta alla nuova situazione, trova un lavoro come commessa in un grande magazzino di lusso e si iscrive a un corso serale di contabilità, dove è l'unica allieva femmina ma naturalmente la più brillante. Troverà anche l'amore, in un idraulico di origine italiana, impersonato da tale Emoy Conen, tanto poco credibile come attore quanto come italiano, ragazzo per bene per quanto dirozzabile, anche lui con ambizioni, però discrete, che non diano fastidio, di ascesa sociale, naturalmente lavorando onestamente, e intenzionato a mettere in piedi un'impresa di costruzioni coi fratelli. Insomma col tempo la ragazza di adatta alla vita americana, distante anni luce da quella cui era abituata in patria in una realtà retrograda, finché la morte della sorella la richiama in Irlanda, dove sia la madre, sia gli amici faranno di tutto per trattenerla. La nostalgia riemerge e la fa pencolare, anche perché si trova a frequentare e conoscere meglio un ragazzo che già faceva parte del suo "giro" in passato, che si innamora di lei e oltretutto è un "ottimo partito", ma comincia a operare anche una nostalgia "al revés", verso la nuova vita americana e l'amore lasciato a Brooklyn. Chi vedrà il film, saprà, anche se rivelo che lo happy end è dietro l'angolo, così come in ogni fiaba americana che si rispetti. Dove tutto è lindo, pulito, con colori pastello, Brooklyn è un luogo amabile e sicuro abitato da italiani operosi e irlandesi irreprensibili che vanno d'amore e d'accordo come mai accaduto in realtà; non esistono "negri", mentre gli ebrei, almeno nel film, si camuffano molto bene. Soprattutto non esistono il Maccartismo e le politiche contro i lavoratori, i sindacati non esistono e neppure la miseria che caratterizzavano quagli anni e queoi luoghi: tutto è dignitoso, anzi edificante, e color pastello. Curiosamente, Saoirse Ronan, pur chiaramente d'origine irlandese, ha fatto il percorso inverso dell'eroina che interpreta, essendo nata a New York ed emigrata in Irlanda all'età di tre anni. Il suo sguardo innocente e la sua dolcezza rendono sopportabile una pellicola che null'altro è che un feuilleton con qualche spunto di riflessione e che probabilmente non ha avuto mai alcun'altra ambizione che essere una favola consolatoria. 

sabato 26 marzo 2016

La corte


"La corte" (L'hermine) di Christian Vincent. Con Fabrice Luchini, Sidse Babett Knudsen, Eva Lallier, Michaël Abiteboul, Miss Ming, Marie Rivière, Berenice Sand, Claire Assali e altri. Francia 2015 ★★★★
Un impareggiabile, minuzioso, chirurgico Fabrice Luchini, giustamente premiato con la Coppa Volpi all'ultimo Festival di Venezia come migliore attore, è l'interprete perfettamente calibrato per Xavier Racine, l'uomo con l'ermellino, presidente di Corte d'Assise a Saint Omer, nei pressi di Calais, Nord-OVest della Francia, un uomo conscio del suo ruolo, cinico, scostante, rigoroso fino alla pignoleria almeno nella sua veste pubblica che, pur alle prese con un'influenza fastidiosa, non rinuncia a presiedere un delicato processo che vede imputato un giovane disoccupato accusato di aver ucciso a calci, forse da ubriaco, la figlioletta di sette mesi; non solo per scrupolo professionale ma perché ha riconosciuto, tra i giurati, la fascinosa anestesista che l'aveva assistito durante un ricovero in ospedale per le ferite riportate in un incidente anni prima e di cui si era innamorato senza essere stato in grado, per vigliaccheria, di dichiararsi. Lo farà in questa occasione, vincendo con difficoltà l'innata timidezza, durante un corteggiamento imbarazzato, ma al contempo elegante e tenero, che avviene tra un'udienza e l'altra e un incontro per un drink in una sala discreta della tavola calda frequentata da tutti gli altri membri della corte nonché dagli addetti al vicino tribunale, rivelando le mille inaspettate sfaccettature dell'uomo apparentemente irreprensibile e rigido, ormai quasi anziano, capace di innamorarsi come un liceale. Film nella migliore tradizione francese, lieve e con una piega ironica anche se semina spunti per riflessioni serie, molto giocato su dialoghi serrati e puntuali, capace di gettare la luce non solo su un personaggio complesso tra il suo ruolo ufficiale e la sue debolezze private, ma anche sulle dinamiche processuali (dove la meticolosità e la razionalità magistrato, soprannominato "due cifre" perché raramente le sue sentenze si concludono con condanne inferiori ai dieci anni, porteranno a un esito non scontato del procedimento), quelle tra i giurati, quelle tra i sessi e le etnie, e quelle del mondo femminile (splendide le scene tra madre e figlia adolescente, che intuisce subito qualcosa, e ne ha la conferma quando assiste al secondo incontro tra Racine e la bella dottoressa d'origine danese, come la brava Sidse Babett Knudsen che la impersona). Più che godibile, ben reso cinematograficamente pur essendo d'impianto teatrale, da vedere fosse soltanto per Luchini, uno dei più bravi e talentuosi attori in assoluto che siano in circolazione.

giovedì 24 marzo 2016

Nunca más?

24 marzo 1976: risveglio a Buenos Aires
Nel quarantesimo anniversario della dittatura nazipiduista argentina, i cui strascichi continuano a produrre effetti perversi sui vari regimi personalistici e mai pienamente democratici che le sono succeduti, dando per scontata la responsabilità dei criminali in divisa, è bene non essere manichei e ricordare, oltre alle loro vittime, in gran parte estranee alla lotta armata chiamata a pretesto per il golpe militare, tra cui trentamila desaparecidos, anche chi ha contribuito a causarla, ad esempio i massimi dirigenti dei Montoneros e dell'ERP, nonché chi ha provveduto a infiltrare e manovrare opportunamente i gruppi "guerriglieri", per non parlare dell'intervento dietro le quinte degli onnipresenti USA (cfr "Plan Condor"). Il presidente di questi ultimi, nonché già Premio Nobel per la Pace "alle intenzioni" Barack Obama, durante la sua visita a Buenos Aires proprio in occasione della "ricorrenza", ha pensato bene di lasciare inevaso l'appello del collega Adolfo Pérez de Esquivel, almeno stando a quanto ha dichiarato nel corso della conferenza stampa di ieri promettendo la declassificazione dei documenti sinora segreti che testimoniano il coinvolgimento degli USA nel colpo di Stato (per l'accesso agli archivi occorrerà comunque attendere almeno un anno e mezzo) e limitandosi ad accennare vagamente a "scomode verità", farfugliando di "tutto un sottobosco da ripulire", oltre che di "sguardi da rivolgere in avanti e non al passato": sia mai. E lasciandosi sfuggire oggi, come in un borborigmo, un "nunca más" durante la visita, sulla Costanera del Rio de la Plata, al memoriale dedicato alle vittime della dittatura, a cui ha reso omaggio gettando un mazzo di fiori nel fiume dove vennero gettate a migliaia, narcotizzate, durante i "voli della morte".
Jorge Rafael Videla e i ceffi della sua giunta. Sulla sinsitra, l'ammiraglio Emilio Eduardo Massera, tessera P2 n° 478
Colgo l'occasione per ricordare con gratitudine gli interventi salvifici di Ernico Calamai, ai tempi console d'Italia a Buenos Aires ai primi anni della carriera diplomatica (in seguito fortemente ostacolata per non dire bruciata) segnalandone l'ottimo libro "Niente asilo politico" (Feltrinelli) che fanno da contraltare ai silenzi non solo del governo ma anche e soprattutto della sinistra di allora, in primo luogo del PCI, che pure tanto si era fatta sentire tre anni prima in occasione del golpe di Pinochet in Cile: l'importante era non disturbare il manovratore, ossia l'imprendotiria italiana con interessi in Argentina (in primis la FIAT) e soprattutto Mosca, fra i principali partner commercali della giunta militare. D'altronde erano anche i tempi gloriosi del compromesso storico che ebbe il suo coronamento nel governo Andreotti III, meglio conosciuto come di "Solidarietà nazionale" o della "non sfiducia": del resto c'era da combattere il terrorismo nostrano, ma soprattutto i suoi "fiancheggiatori" e "simpatizzanti", specie se "potenziali", cioè alla fine chiunque si opponesse allo Stato e alle sue Sacre Istituzioni, bonificandone il "brodo di coltura", come si diceva allora. Come in Argentina, insomma, con altri mezzi, solo un po' meno brutali e drastici perché, orsù, siamo nella civile Europa, mica nel Terzo Mondo...

lunedì 21 marzo 2016

Truth

"Truth - Il prezzo della libertà" (Truth) di James Vanderbilt. Con Kate Blanchett, Robert Redford, Topher Grace, Elizabeth Moss, Dannis Quaid, Bruce Greenwood, John Benjamin Hickey, David Lyons, Rachel Blake e altri. USA, Australia 2015 ★★
Primo lungometraggio di James Vanderbilt, basato sulla versione che la protagonista della vicenda, la produttrice televisiva Mary Mapes, ha scritto nel 2005 sulla sua defenestrazione, l'anno precedente, dalla CBS assieme all'anchorman Dan Rather, non può essere definito un brutto film ma, trattando lo stesso argomento de Il caso Spotlight, ossia il giornalismo d'inchiesta visto questa volta dall'interno di una emittente televisiva anziché di un quotidiano, è brutalmente penalizzato dal confronto con quest'ultimo, essendo uscito nelle sale successivamente, ma non finisce di convincere anche per altri aspetti. Il caso in questione è l'utilizzo, in verità piuttosto superficiale, da parte della CBS, dei cosiddetti Killian Documents alla base di una puntata della trasmissione 60 minutes, condotta da Dan Rather e prodotta dalla Mapes, in cui venivano denunciati dei favoritismi nei confronti del presidente in carica, Georg W. Bush, nell'imminenza della sfida con John Kerry per la rielezione alla Casa Bianca, all'epoca del suo servizio di leva, quando riuscì a evitare il Vietnam arruolandosi nell'aviazione della Guardia Nazionale. Questione ormai data per scontata ma passata in secondo piano rispetto alla discutibilità dei documenti prodotti, che non solo erano fotocopie, ma provenienti da fonti che per propria ammissione avevano mentito sulla loro provenienza. In altre parole: i fatti denunciati erano veri ma le prove insufficienti. Messa sotto pressione dall'entuorage dalla presidenza, la CBS istituirà una commissione d'inchiesta interna per valutare le responsabilità dello staff di giornalisti che si erano occupati del caso, che si concluderà con il loro licenziamento e l'allontanamento dello stesso Dan Rather, storico anchor man dell'emittente da 40 anni, che rassegnerà le dimissioni l'anno successivo. Il film riflette il punto di vista della Mapes, bene interpretata da Kate Blanchett che ne sottolinea opportunamente gli aspetto ansiogeni, mentre nei panni di Rather torna, nell'ennesima parte da giornalista liberal, un sempre apprezzabile e convincente Robert Redford, attribuendo la cialtroneria nella verifica delle fonti alla fretta imposta dalla CBS nella messa in onda del programma, ma è altrettanto vero che quest'ultimo ha "bruciato" la storia mettendo fuori causa anche altri giornalisti (tra cui proprio lo staff di "Spotlight" del Boston Globe) che stavano scavando a fondo sulla questione, e questo il film non lo sottolinea: il risultato sono stati altri quattro anni di Bush, che avrebbe poi battuto Kerry per un pelo, con quel che ne consegue. A parte questo, la pellicola dà un'impressione di stantìo e di déjà vu, oltre a essere alquanto lenta e didascalica e, in alcuni passaggi, incomprensibile perfino per gli addetti ai lavori. Si può vedere, insomma, ma si poteva anche fare di meglio ed essere meno manichei

mercoledì 16 marzo 2016

Room

"Room" di Lenny Abrahamson. Con Brie Larson, Jakob Tremblay, Joan Allen, Sean Bridgers, Tom McCamus, William McMacy, Joe Pingue, Megan Park, Amanda Brugel, Cas Anvar, Randal Edwards e altri. Irlanda, Canada 2015 ★★★½
Film interessante, tratto dal romanzo "Stanza, letto, armandio, specchio" di Emma Donoghue, qui anche sceneggiatrice, ispirato al "Caso Friztl" che venne alla luce in Austria nel 2008. Qui la vicenda è analoga, benché mancante della componente incestuosa, con una ragazza, Joy, rapita a 17 anni e segregata in un capanno da un maniaco da cui avrà un figlio, Jack, per il quale, fino ai cinque anni, "la stanza" costituisce l'intero mondo che la madre, amorevolmente, crea attorno a lui, cercando di renderlo il più possibile confortevole, per proteggerlo, inventando giochi, attività, raccontando storie e guardando la televisione, che gli viene descritta come una scatola magica che però mostra solo la finzione della realtà. Il tran tran prosegue finché il bambino non comincia a porre domande sempre più complesse e Joy, ormai in crisi, con il suo aiuto, decide di giocare l'ultima carta per avvertire all'esterno che sono lì, favorendo con uno stratagemma la rocambolesca fuga di Jack: una scena decisamente emozionante che segna anche una cesura nella pellicola che, iniziata in un universo circoscritto in una stanza, cambia di segno proiettandosi in un esterno che però risulta altrettanto claustrofobico e opprimente, nonché ottuso. Il riambientamento di Joy nella "realtà", a cominciare da quella famigliare che è cambiata, è ancora più problematico e traumatico dell'adattamento alla nuova dimensione che deve affrontare Joy, con un nonno che lo rifiuta e fugge e Leo, il nuovo compagno della nonna che, a differenza di medici e psichiatri, sa come entrare in contatto con lui e fargli scoprire man mano il mondo, riuscendo altresì a sottrarlo alle tensioni che si scatenano tra la sua compagna e nonna di Jack, benché bene intenzionata e sostanzialmente corretta, e la di lei figlia, che sta andando psicologicamente a pezzi. Regista e sceneggiatrice si affidano alla bravura e naturalezza degli interpreti (non a caso Brie Larson ha vinto il più recente Oscar come miglior attrice protagonista, ma un elogio va anche al ragazzino e a Joan Allen nel ruolo della nonna) e grande merito del film è di non essere per nulla consolatorio e di far riflettere, perché se la stanza è una prigione, ma resa vivibile dall'affetto e dalla particolare intensità della relazione madre-figlio, non è che il "fuori", con la sua realtà e normalità, sia uno spazio di libertà: anzi. 

domenica 13 marzo 2016

Ave, Cesare!

"Ave, Cesare!" (Hail, Caesar!) di Ethan e Joel Coen. Con Josh Brolin, George Clooney, Alden Ehrenreich, Ralph Fiennes, Scarlett Johansson, Tilda Swinton, Frances McDormand, Channing Tatum e altri. USA 2016 ★★★½
Non sono un sostenitore "a prescindere" dei fratelli Coen, ma quando sento (Bertarelli sul Fatto Quotidiano) dire che il limite del loro ultimo film è un "umorismo un po' difficile, riservato ai più raffinati e, oserei dire, snob") mi trovo in totale disaccordo. Se c'è una cosa che detesto in assoluto nel cinema è l'intellettualismo fine a sé stesso, la spocchia, la cervelloticità compiaciuta, che mi hanno reso insopportabili i vari Godard, buona parte degli scandinavi (e spesso lo stesso Bergman), il nostrale Citto Maselli come anche Terrence Malick, ma non è il caso dei Coen, e meno che mai in questo Ave, Cesare!, che riesce divertente anche a prescindere completamente dalle citazioni dotte che possono afferrare e apprezzare appieno soltanto i più accaniti cinéphile o i dialoghi teologici e ideologici (quelli sul significato di dio tra i rappresentanti delle delle tre chiese cristiane e un rabbino e poi il riassunto del materialismo dialettico in un gruppo marxista sono le chicche migliori) che pure vengono proposti. I Coen ci conducono all'interno dell'industria cinematografica hollywoodiana agli inizi degli anni Cinquanta, nel suo pieno fulgore, accompagnati dal protagonista, Eddie Mannix (Josh Brolin), un "Mr Wolf" degli studios che "risolve i problemi" che possano insorgere nel corso della preparazione di un nuovo film, di qualsiasi genere si tratti: dalle bizze delle star ai rapporti con la stampa, cui tenere nascosti tradimenti, gravidanze poco chiare, ubriacature moleste e altre trasgressioni (tutto il contrario di quel che accade ora, quando il gossip è creato ad arte) e l'uomo è il migliore in questo campo, coscienzioso sul lavoro quanto profondamente credente e pieno di dubbi morali in privato (si confessa una volta al giorno e la Lockeed, la famigerata fabbrica di aerei, sta cercando di accaparrarselo facendogli ponti d'oro per strapparlo dagli studios), ma un bel giorno Baird Whitlock (George Clooney), una delle grandi star della compagnia che sta finendo di girare un colossal in costume nei panni di un centurione romano che si converte dopo essere stato illuminato dalla figura del Cristo sul Golgota, viene narcotizzato e sequestrato da un gruppo di sceneggiatori comunisti il cui ideologo ufficiale è nientemeno che Herbert Marcuse e rinchiuso, fino all'arrivo dei 100 mila dollari del riscatto, destinato alla "causa", nella villa in riva al mare di Malibú proprietà di un attore e ballerino (che ricorda Gene Kelly), anche lui comunista e probabilmente omosessuale diretto a Mosca (non svelo con quale mezzo). I due fratelli sceneggiatori e registi ci portano a spasso tra i vari set, proponendoci il mondo del cinema dietro le quinte, coi suoi personaggi come sono fuori dai rispettivi ruoli: le occasioni per dei ritratti che li sbertucciano e per delle gustosissime gag non mancano, e il racconto fila via diritto senza annoiare e senza cadere mai nel ridicolo e nell'umorismo scontato e volgare. La fotografia e la ricostruzione d'epoca sono come sempre da manuale, la colonna sonora adeguata, il cast, già di prim'ordine, assolutamente all'altezza della situazione e il risultato più che gradevole, per cui lo consiglio a chiunque.

giovedì 10 marzo 2016

Suffragette

"Suffragette" di Sarah Gavron. Con Carey Mulligan, Helena Bonham Carter, Anne Marie Duff, Romola Garai, Brendan Gleeson, Natalie Press, Ben Winshaw, Meryl Streep e altri. Gran Bretagna 2015 ★★★½
Il merito principale del film di Sarah Gavron è di aver ricostruito la lotta delle donne per il diritto al voto nell'Inghilterra dell'inizio del secolo scorso con uno sguardo diverso da quello tutto sommato condiscendente della "narrazione" ufficiale, che la vedeva condotta da un gruppo di donne borghesi che tutto sommato avevano "del bel tempo" da dedicare a questa battaglia, guidate da una loro rappresentante di alto rango e grande capacità ed energia, Emmeline Pankhurst, inquadrandola nell'insieme delle rivendicazioni per l'emancipazione femminile, che riguardavano non solo i diritti civili, come si direbbe oggi, ma anche le condizioni di lavoro e di salute e il ruolo delle donne sia davanti alla legge sia all'interno delle famiglie, cui parteciparono, come è emerso da documenti e lettere consultati dalla regista assieme alla sceneggiatrice Abi Morgan, anche un buon numero di donne di tutte le condizioni sociali, in buon numero di estrazione proletaria. In mezzo a una serie di personaggi realmente esistiti come la Pankhurst (a cui, proprio per sottolineare il punto di vista delle autrici, è riservato un cameo interpretato da Meryl Streep, non a caso l'unica delle attrici a non essere britannica), la farmacista ed esperta in arti marziali Edith Garrud (Helena Bonham Carter) coadiuvata dal marito "collaborazionista" ed Emily Davison, che sacrificò la sua vita nel derby di Epsom facendosi travolgere dal cavallo di Re Giorgio V mentre tentava di attaccargli la bandiera bianco-viola e verde del movimento (Natalie Press), il film  centrala sua attenzione sulla figura inventata, ma più che credibile, di Maud Watts (Carey Mulligan), 24 enne moglie e madre, figlia naturale di una lavandaia, rimasta orfana a 4 anni, che ha vissuto tutta la sua vita all'interno della lavanderia industriale di cui è proprietario Mr Taylor, che non solo sfrutta le proprie operaie ma ne abusa pure sessualmente, che rimane coinvolta per caso in un'azione delle suffragette, come venivano sarcasticamente definite dalla stampa dell'epoca, in cui sfondavano a sassate le vetrine del centro di Londra. Pur timida e rispettosa del suo ruolo in famiglia, proprio pensando a come sarebbe stato il futuro del suo bimbo se fosse nato femmina, e facendo conoscenza con altre donne della Women's Social and Political Union, tra cui la sua compagna di lavoro Violet, splendida figura resa intensamente da Anne Marie Duff, prende man man coscienza e, durante il suo percorso di avvicinamento alla militanza attiva fino alla sua pratica, viene presa di mira dalla polizia e arrestata più volte (subendo anche l'alimentazione forzata), perde prima il lavoro, poi il figlio (fatto adottare dal marito codardo a una famiglia abbiente) e la casa, e infine, nel 1913, la sua compagna di lotta Emily Davison, la cui morte e i funerali, che videro la partecipazione massiccia di donne e popolo, attirarono finalmente sul movimento quell'attenzione da parte della stampa, che fino ad allora si era autocensurata per compiacere, guarda che novità, il potere politico. Su un documento filmato d'epoca relativo alle esequie della Davison si chiude questo film onesto, ben scritto, non esente da qualche ingenuità ma sincero, mai noioso e ambientato con molta cura e ben interpretato da tutto il cast.

martedì 8 marzo 2016

Il riferimento petaloso di Mister Muscolo

Matteo Renzi in amichevoli conversari con il presidente turco Tayyp Erdogan
Riferimento s.m. 1) accennare a qualcosa o qualcuno. Sinonimi: allusione, cenno,  rfichiamo, rimando, rinvio. Così la "Treccani". «Voglio un riferimento alla libertà di stampa, se no non firmo»: queste le "condizioni" sine qua non poste, con grande sprezzo del ridicolo, da Matteo Renzi al termine del Consiglio europeo di ieri a Bruxelles che ha rinviato la firma di un accordo definitivo con la Turchia sulla questione migranti al vertice previsto per il 17 e 18 prossimi. "Gliele ha cantate chiare", è il tono usato dal CorServa così come dai supporter storici dello Sbruffone del Consiglio del megagruppo romano-sabaudo che fa capo all'ingegner Carlo de Benedetti, o da corifei senza più decenza come Gad Lerner secondo i quali Renzi "mostra il volto severo dell'UE" e, in mancanza di quel "riferimento" (ossia accenno, allusione, richiamo), "nel corso della cena del Consiglio europeo è proprio il premier italiano a minacciare un veto di fronte alle ulteriori richieste turche": infatti il presidente Tayyip Erdogan e il primo ministro Ahmet Davutoglu sono lì a farsela addosso e così pronti a calare le braghe da chiedere non soltanto il raddoppio dell'assegno di tre miliardi di euro per "limitare il flusso dei migranti verso gli Stati europei", ma anche che venga accelerato il procedimento d'adesione della Turchia all'UE, legando alla discussione dei relativi dossier qualsiasi tentativo di risolvere la "crisi" dei migranti, in particolar modo quelli siriani (come se il Paese che governano fisse estraneo al conflitto che li porta a fuggire dalle loro case). Tanto sono sensibili ai flebili richiami dei leader europei, e in particolare dello Statista di Rignano (a cui un mese e mezzo fa si era rivolto Can Dündar, direttore di Cumhurriyet, rilasciato solo qualche settimana dopo 92 giorni di carcere), da aver fatto commissariare dalla zelante magistratura turca, venerdì scorso, il più grande quotidiano d'opposizione, Zaman, un giornale da 650 mila copie al dì, quasi quante ne vendono quelli sunnominati nostrani tutti assieme, riapparso in edicola domenica in edizione epurata e di osservanza strettamente governativa. Da quale pulpito viene poi la predica, se pensiamo a come si è ridotta l'Unità, fondata sì da Antonio Gramsci ma organo ufficiale del PD, capace della più fantasiose e ridicole contorsioni pur di compiacere ed elogiare il Caro Leader e il suo entourage gigliato, come ricorda Marco Travaglio nel suo editoriale di oggi sul Fatto Quotidiano. Il quale rammenta anche che furono Berlusconi e Napolitano i fautori dell'ingresso di Ankara nell'Unione Europea, sorvolando però su chi furono i mandanti della geniale idea, così come di quella del precipitoso ingresso nell'UE dei Paesi dell'ex Patto di Varsavia (vero, Prodi?), ossia l'eterno Amico Americano, nei panni di Bush padre e figlio, Clinton e poi ora Obama. N'est pas? 

sabato 5 marzo 2016

Il bugiardo


"Il bugiardo" di Carlo Goldoni. Regia di Valerio Binasco. Con Maurizio Lastrico e Popular Shakespeare Kompany: Maria Sofia Alleva, Fabrizio Contri, Andrea Di Casa, Michele di Mauro, Elena Gigliotti, Maurizio Lastrico, Deniz Özdŏgan, Nicola Pannelli, Sergio Romano, Roberto Turchetta, Simone Luglio. Scene e costuni di Carlo de Marino; musiche originali di Arturo Annechino; luci di Pasquale Mari. Produzione Fondazione Teatro Due/Popular Shakespeare Kompany in collaborazione con Oblomov Films Srl. Al Teatro Elfo/Puccini di Milano fino al 13 marzo
I classici non sono tali per niente, ma perché perché vanno oltre all'ambito temporale in cui furono concepiti, finendo per avere una valenza universale: il "Bugiardo" di Goldoni, una delle sue opere più brillanti e rappresentate, rientra in questa categoria e il commediografo veneziano, così come Shakespeare e Molière, ma anche i drammaturghi dell'antichità, aveva una così così profonda capacità di osservare del mondo e le dinamiche che muovono il comportamento degli uomini e le loro conseguenze, da consentirgli di descrivere dei tipi umani che, rappresentati oggi, confermano la loro immutabilità. Così è Lelio, figlio di Pantalone dei Bisognosi, onesto mercante veneziano, un contafrottole patologico e seduttore impenitente e nullafacente che rientra in Laguna assieme al suo servo Arlecchino dopo un soggiorno di vent'anni a Napoli presso uno zio. Qui, spacciandosi per un marchese forestiero, si invaghisce di Rosaura, una delle due figlie del dottor Balanzoni, intromettendosi nelle vicende amorose di Florindo, il timido allievo e pensionato del medico, spasimante di Rosaura, appropriandosi di una serenata che l'innamorato dedica anonimamente alla ragazza nonché di un prezioso regalo che le fa recapitare, nuovamente, "a sua insaputa". Le panzane sparate in sequenza da Lelio, che lui definisce "spiritose invenzioni", finiscono per ingarbugliare vieppiù la matassa dando luogo a tutta una serie di equivoci che finiscono per coinvolgere anche Ottavio, innamorato di Beatrice, l'altra figlia di Balanzoni, Florindo, nonché Pantalone stesso, che del medico è amico e stava giusto combinando felicemente con lui il matrimonio tra Lelio e Rosaura, costringendolo a giustificarle con balle ancora più sesquipedali, fino a inventarsi un finto matrimonio napoletano e pure un figlio inesistente, finché tutto il castello di fandonie crolla miseramente e rimane con un pugno di mosche in mano proprio l'unica volta in vita sua in cui si era innamorato sul serio, e mentre Florindo e Ottavio si sistemano con Rosaura e Beatrice, lui viene raggiunto a Venezia da una furibonda signora romana cui aveva incautamente promesso di sposarla. Sottolineare che "Il bugiardo" curato da Valerio Binasco, e rappresentato da una compagnia di attori molto bravi e rendere in modo comprensibile e movimentato un testo che pur essendo stato scritto due secoli e mezzo fa, conserva tutta la sua attualità senza che ci sia bisogno di fare riferimento a ben noti personaggi pubblici dediti alla menzogna e manipolazione sistematica che infestano la vita pubblica del nostro Paese ma non solo, è perfino banale, ma vero. Per come è strutturata, la commedia parte leggermente in sordina ma il ritmo aumenta man mano che la situazione si complica e nel secondo atto battute e colpi di scena mantengono viva l'attenzione di un pubblico divertito e soddisfatto.

mercoledì 2 marzo 2016

Harper Regan

Christian Giammarini, Elena Russo Arman e, sullo sfondo, Camilla Semino Favro
"Harper Regan - Due giorni nella vita di una donna di Simon Stephens". Traduzione di Lucio De Capitani, regia di Elio De Capitani. Con Elena Russo Arman, Camilla Semino Favro, Marco Bonadei, Cristina Crippa, Christian Giammarini, Francesco Acquaroli, Martin Chischimba. Scene e costumi di Carlo Sala; luci di Nando Frigerio; suono di Giuseppe Marzoli. Produzione Teatro dell'Elfo. Al Teatro Elfo/Puccini di Milano fino al 6 marzo.
Prosegue il proficuo confronto degli "elfi" con la nuova drammaturgia inglese, nella fattispecie con un testo di Simon Stephens pressoché sconosciuto in Italia e presentato per la prima volta al "National Theatre" di Londra nel 2008, che racconta due giorni, decisivi nella vita di una donna di mezza età, Harper Regan (nomen omen: alla scrittrice recentemente scomparsa è dedicato lo spettacolo) che, in crisi per la contemporanea morte del padre, la minaccia di perdere il lavoro, i difficili rapporti con la figlia adolescente, quelli irrisolti con la madre e quelli problematici col marito, fa i conti con se stessa finendo con l'accettarsi per quello che è e senza giudicare gli altri, al termine di un doppio viaggio: reale dai sobborghi di Londra, dove vive, a Stockport nella Greater Manchester, dov'è nata e vissuta fino a pochi anni prima, e metaforico all'interno della propria anima. Elena Russo Arman, una delle più brave, preparate, curiose e versatili attrici italiane, e la mia preferita in assoluto, è sulla scena continuativamente per quasi tre ore di spettacolo (2 atti e 11 quadri) nei panni, che indossa con una naturalezza e intensità rare, di una quarantunenne con marito, Seth, a carico (perché nessuno vuole più assumerlo) e una figlia adolescente, Sara, una ragazza dark sensibile quanto intelligente, con cui ha un rapporto problematico: va in crisi quando il suo datore di lavoro le nega, con discorsi fumosi e ipocriti, le ferie per raggiungere il padre morente a Manchester. Decide, dopo un incontro che non si rivelerà casuale con un ragazzo di colore, Tobias, con cui si confida, di far visita al padre all'insaputa della famiglia, ma giunge nella propria città d'origine troppo tardi per fargli sapere quanto gli abbia in realtà voluto bene, ma in tempo per suscitarle ulteriori sensi di colpa e inadeguatezza. L'incontro con la psicologa "sciroccata" dell'ospedale, poi con un giornalista cocainomane che prova a rimorchiarla in un pub, infine con un uomo anziano e sposato con figli trovato in un sito per appuntamenti al buio su internet e con cui trascorre una notte di confidenze e di sesso in una camera d'albergo sono il viatico e le premesse per la visita alla madre, una Cristina Crippa da applausi, che non vede da due anni e che incolpa di avere giudicato e ostracizzato il marito Seth, in odore di tendenza pedofile, ma il colloquio tra le due donne chiarisce che le cose non stavano esattamente come apparivano a Harper che, quando ritornerà a Londra, si confronterà prima col ragazzo Toby, poi sia con la figlia Sara (da sottolineare anche l'interpretazione di Camilla Semino Favro), sia col marito (Giammarini), con una diversa consapevolezza di sé stessa e visione del prossimo. Un viaggio, quello dello spettacolo, nelle relazioni famigliari dell'Inghilterra (ma non solo) d'oggi e nel loro rapporto con il mondo attuale, con dialoghi serrati, un andamento quasi cinematografico che ben si addice alle caratteristiche più tipiche degli "elfi", in cui ritmo, accompagnamento musicale e gioco di luci hanno sempre un'importanza fondamentale. Da sottolineare ancora una volta le prestazioni delle tre interpreti femminili, quella della Russo Arman su tutti, ma anche quelli maschili sono decisamente all'altezza.