martedì 29 dicembre 2020

Rose Island - L'incredibile storia dell'Isola delle Rose

"Rose Island - L'incredibile storia dell'Isola delle Rose" di Sidney Sibilia. Con Elio Germano, Matilde De Angelis, Leonardo Lidi, Tom Wlaschiha, Fabrizio Bentivoglio, Luca Zingaretti, Violetta Zironi, François Cluzet, Andrea Pennacchi e altri. Italia 2020 ½

Ho lasciato sedimentare per qualche giorno le prime impressioni su questo nuovo film di Sidney Sibilia, i cui scoppiettanti e irriverenti precedenti della "trilogia" iniziata con Smetto quando voglio lasciavano ben sperare. In premessa, il film afferma di ispirarsi a una storia vera, quella della Repubblica Esperantista dell'Isola delle Rose, proclamata il 1° maggio del 1968 dalla micronazione istituita su una piattaforma di 400 metri quadrati costruita appena fuori dalle acque territoriali, ai tempi stabilite in 6 miglia nautiche, al largo di Rimini su un progetto dell'ingegnere bolognese Giorgio Rosa, oggetto di una controversia con lo Stato Italiano che la riteneva uno stratagemma per non pagare le tasse sui profitti tratti dalle attività turistiche che vi avevano luogo senza essere sottoposte a controlli e, soprattutto, alla bigotteria imperante; in realtà il regista insieme alla cosceneggiatrice Manieri e al produttore Matteo Rovere (di cui avevo molto apprezzato Veloce come il vento, ambientato sempre nei paraggi e con la medesima attrice protagonista, la pur brava Matilde De Angelis, che qui risulta imbalsamata in un ruolo che le è completamente estraneo) ne prende spunto per imbastire una commediola  che rievoca l'atmosfera di quegli anni spensierati dove anche iniziative del tutto apolitiche risultavano (col senno di poi) fare parte di quell'onda ispirata ai "tempi che cambiano" nell'anno di grazia 1968 riproponendo, in salsa nostrana e molto provinciale, le stesse atmosfere del fortunato I Love Radio Rock di Richard Curtis del 2009 e il risultato lascia molto a desiderare. Il maturo ingegner Giorgio Rosa, che aveva cominciato a lavorare all'idea già a metà degli anni Cinquanta, diventa un neolaureato Elio Germano (che assieme a Bentivoglio nella parte del ministro Restivo e dell'irriconoscibile Luca Zingaretti in quella di Giovanni Leone, a capo di uno dei classici governi "balneari" in voga nelle estati di allora, salva almeno in parte il film) che, per un suo desiderio di libertà, assieme a un suo collega progetta e realizza tutta l'operazione nell'arco di pochi mesi in sostanza per riconquistare la sua ex fidanzata, un tipo che gira per Bologna con una macchina di sua costruzione e non omologata e senza targa (ne esisteva una pressoché uguale a quella che si vede nel film, in quegli anni o poco dopo, una monoposto con 50 cc di cilindrata che si chiamava Sulky) e poi con essa si reca a Strasburgo, al Consiglio Europeo, per perorare la causa della neonata repubblica contro le prepotenze dello Stato italiano che arriva al punto di operare un vero e proprio blocco navale attorno alla piattaforma mobilitando la flotta fino a farla saltare in area e mettere la parola fine alla favola. Insomma, il racconto perde presto qualsiasi credibilità man mano che si sviluppa, con l'introduzione di personaggi e vicende vieppiù improbabili. Intendiamoci: è lecito (per quanto discutibile, in questo caso) limitarsi a prendere una vicenda realmente accaduta come spunto, ma allora tanto vale non citarla e comunque non ha senso stravolgerla per adeguarla a una storiella dolciastra e a lieto fine anche di fronte al fallimento dell'originale idea del Rosa (sia quello vero, sia quello del film). Qualche battuta e qualche situazione divertente, ma i dialoghi risultano troppo spesso fiacchi; domina il lato caricaturale, mancano del tutto la cattiveria e il mordente degli altri film di Silbilia: quella più riuscita è la parte che si svolge nei palazzi del potere romano, con la presa per i fondelli di politici e militari, ma è troppo poco per rendere appena discreta ia pellicola. Peccato.

domenica 27 dicembre 2020

The Midnight Sky

 

"The Midnight Sky" di George Clooney. Con George Clooney, Felicity Jones, Caolinn Springall, Kyle Chandler, David Oyelowo, Tiffany Boone, Demián Bichir, Sophie Rundle, Tim Russ, Ethan Peck e altri. USA 2020 ½

Al 7° film (disponibile su Netflix) da regista, George Clooney si cimenta con la fantascienza, se vogliamo parlare di genere, commista con il filone dei "sopravvissuti", con un sottofondo di disaster, e dire che il risultato non sia convincente è generoso, per il rispetto che porto per una persona stimabile, attore capace ed eccellente comunicatore, nonché uomo intelligente e dai sani valori morali, ma qui ha clamorosamente toppato. I film sono in buona sostanza due. Nel primo troviamo uno scienziato, Augustine Lofthouse, malato terminale, interpretato da Clooney stesso, che rimane volontariamente da solo in una base artica dopo che i suoi componenti sono stati evacuati in rifugi sotterranei dopo una catastrofe planetaria dalle cause non meglio precisate: olocausto nucleare o collasso climatico; scoprirà che con lui è rimasta una bimba, Iris, a cui dobbiamo la cosa migliore del film, ovvero l'interpretazione della piccola, dolcissima Caolinn Srpingall. Nel secondo ci troviamo su una nave spaziale di ritorno dal pianeta K23, un satellite di Giove, dove l'equipaggio ha verificato che esistono le condizioni ideali per un insediamento umano, ma i contatti con la Terra sono stati interrotti. I due film scorrono in parallelo: quello terrestre si svolge in modo quanto mai improbabile, con una sorta di catabasi del vecchio con bambina (Clooney con barba lunga ha un aspetto orripilante) dalla base nell'interno a una stazione meteo culla costa con antenna abbastanza potente da comunicare con l'unica missione spaziale rimasta operativa (guarda caso la Aeter, quella della spedizione sulla luna di Giove) su motoslitta, facendo lo slalom in mezzo ai ghiacci che si sciolgono e a branchi dl lupi in agguato; quello cosmonautico con le vicende dello sparuto equipaggio, tre uomini e due donne, una delle quali, Sully (Felicity Jones), incinta del comandante (coppia mista, ossia l'unica che sopravviverà, nella logica del politically corrtect), con l'inevitabile passeggiata nel vuoto a riparare l'astronave danneggiata durante il passaggio in una zona non mappata e infestata dai meteoriti e la morte per dissanguamento, invero spettacolare, della più giovane del gruppo di scienziati. Una volta riparati i danni al sistema di trasmissione, l'equipaggio scoprirà che sulla Terra è accaduto qualcosa di irreparabile e riuscirà a mettersi in contatto con l'unica stazione radio rimasta attiva, guarda caso quella presidiata dal professor Lofthouse, che suggerirà di non rientrare e sfruttare la forza di gravità terrestre per farsi fiondare nuovamente su K23. Sully, che si scoprirà essere la figlia che Lofthouse non aveva mai conosciuto (e Iris forse la sua proiezione nel delirio dell'uomo prostrato dalla malattia, ma nemmeno questo è chiaro) e il suo compagno seguiranno il suo consiglio, Adamo ed Eva della nuova umanità, mentre gli altri due membri dell'equipaggio tenteranno il rientro sulla Terra su uno Shuttle perché "tengono famiglia" e cercheranno di raggiungerla in qualche rifugio sotterraneo, e non ne sapremo più nulla. Non metto in dubbio la buona fede e le buone intenzioni di Clooney, che sono quelle, lodevoli, di far riflettere sui destini dell'umanità, il disastro climatico a cui si va incontro per l'irresponsabile rapporto instaurato dall'uomo con l'ambiente di cui fa parte, ma un film di fantascienza che vuole rappresentare una realtà distopica deve avere una sua logica, e qui la storia non sta in piedi, inoltre le coincidenze troppe per essere anche solo vagamente credibili, e l'aspetto paradossale è che la porzione della vicenda che si svolge nello spazio risulta molto più plausibile di quella che si rappresenta sul nostro pianeta. Sì, il film è ben fotografato ma anche terribilmente noioso oltre che prevedibile, e le interpretazioni non esattamente all'altezza, a parte, come detto, quella dell'attrice meno esperta del cast. Non sto a sconsigliarlo del tutto ma la delusione è proporzionata alle aspettative che nutrivo.

venerdì 25 dicembre 2020

Spoiler alert!


 Trittico di santa Colomba, dipinto del pittore fiammingo Rogier van der Weyden realizzato circa nel 1455 e conservato nell'Alte Pinakothek di Monaco di Baviera 

mercoledì 9 dicembre 2020

The Gentlemen

 

"The Gentlemen" di Guy Ritchie. Con Matthew McConaughey, Hugh Grant, Charlie Hunnam, Michelle Dockery, Jeremy Strong, Henry Golding, Colin Farrell e altri. GB, USA ★★★½

Una boccata d'aria in tanta noia: Guy Ritchie torna a raccontare storie criminali ma alla sua maniera, in un film circolare che ricorda il Tarantino di Pulp Fiction e di Le iene anche per il gusto dissacratorio, la caricaturalità dei personaggi, il rilievo che si pone sul linguaggio (si apprezza decisamente di più in lingua originale, ammesso che si abbia abbastanza confidenza con l'accento cockney). La vicenda ruota attorno a Mickey (McConaughey), un americano che dopo aver vinto una borsa di studio a Oxford ha messo su una fortuna sfruttando debolezze e i vizi della Upper Class inglese: cominciando come piccolo spacciatore di marijuana nel campus universitario ha poi creato un impero basato sulla sua coltivazione in siti insospettabili, in 12 enormi serre costruite sotto le dimore avite di nobili decaduti che faticano a mantenerle per cui in cambio ci pensa lui. Ormai però intende ritirarsi dall'attività, vendere tutto e godersi i proventi con la bella moglie. L'interessato è un viscido miliardario ebreo americano, che ovviamente tira sul prezzo e fa il furbo, e nella trattativa si inserisce anche il rampollo di un boss dell'eroina cinese. Il tutto viene raccontato da tale Fletcher (Hugh Grant, per una volta non nei panni del bellimbusto), un investigatore privato incaricato da Big Dave (Eddie Marsan: grandioso), il direttore di un tabloid scandalistico, di scoprire gli altarini Mickey con cui ce l'ha a morte perché in un gala si era rifiutato di stringergli la mano. Fletcher però vuole sfruttare la situazione e va da Raymond, il tuttofare di Mickey (il Wolf della situazione), per vendergli le prove raccolte per 20 milioni di sterline: da lì il racconto di quanto è riuscito a scoprire e l'intreccio diabolico di trattative, coincidenze, imbrogli, fregature, ammazzamenti fino all'intervento provvidenziale di Coach, un Colin Farrell in forma strepitosa, nei panni di un allenatore di MMA, arti marziali miste, dall'abbigliamento improbabile quanto tutta la storia, che si ritiene in debito con Mickey perché un gruppo di suoi ragazzi è penetrato in una delle serre di marijuana per girarvi un video. E tutto finisce bene per i nostri eroi e anche per lo spettatore, che si gode due ore di sano divertimento con una storia inverosimile ma fino a un certo punto, perché il ritratto di certe situazioni e certi ambienti è più che veritiero, il ritmo è adrenalinico, l'ambientazione perfetta, gli attori affiatati e divertiti pure loro, il politically correct semplicemente ridicolizzato, e già questo è un merito non da poco. Si trova su Amazon Prime.

martedì 1 dicembre 2020

Il talento del calabrone

"Il talento del calabrone" di Giacomo Cimini. Con Sergio Castellitto, Lorenzo Richelmy, Anna Foglietta, David Coco, Gianluca Gobbi, Guglielmo Favilla e altri. Italia 2020 

Previsto in uscita per marzo, con le sale appena chiuse causa virus, e dirottato di recente su Amazon Prime, questo thriller appartenente al già nutrito sottogenere della negoziazione dietro ricatto via telefono (o computer) risulta sconcertante e perfino difficile da stroncare, tanto è incongruo. La trama è presto detta: nella sede di Radio 105, in cima a un grattacielo nel centro della Milano da Bere, il celebre DJ Steph (Richelmy) conduce un programma in cui si vince un biglietto per un evento modaiolo di grande richiamo: ultimo degli ascoltatori a chiamare per partecipare Carlo (Castellitto), che si rivela un terrorista che, dopo aver fatto saltare in aria un attico (per fortuna vuoto) in zona Garibaldi/Isola, ossia quella più trendy di Cretinopoli, dice di girare a bordo di un'auto in cui è caricata una potente bomba e annuncia di volersi suicidare: minaccia di fare una strage di innocenti se non viene accontentato nelle sue richieste, che cominciano da una serie di brani di musica classica, completamente avulsi dal genere musicale dell'emittente. Diventa quindi una partita a scacchi fra lo speaker e l'aspirante suicida, in un crescendo di like sui social network che seguono spasmodicamente l'evolversi dello  psicodramma, in cui entra come terza protagonista una fascinosa tenente colonnello dei carabinieri sulla quarantina, cosa già improbabile di suo, prelevata mentre visita una mostra al Museo del Novecento in abito da sera di raso e tacchi a spillo che, una volta arrivata nello studio, cava le scarpine, indossa un paio di anfibi e inforca fondina e pistola come se fosse uno scialle: sarà lei a condurre le operazioni e l'interpreta Anna Foglietta, che dev'essersi sentita a tal punto un pesce fuor d'acqua da fare una figura francamente penosa. Nel frattempo si scopre che il pazzo era uno scienziato di valore, professore probabilmente di fisica, scomparso nel nulla da qualche anno, a suo tempo lasciato dalla moglie e traumatizzato dal suicidio del figlio adolescente: per quanto sia farneticante, in realtà la sua è una lucida vendetta, studiata nei minimi dettagli, per vendicarsi di chi ritiene il responsabile morale della scomparsa del figlio, ossia lo stesso DJ Steph, suo coetaneo, suo compagno di scuola con lui e che lo aveva ripetutamente "bullizzato", come si usa dire oggi. Lo spoiler in questo caso è d'obbligo, perché l'impianto del film è talmente traballante, la scene ggiatura infame, la vicenda implausibile e forzata, da non meritare altro; in più il product placement (dalla stazione radio, ai cellulari, tablet e cellulari, tutti rigorosamente monomarca) e il cavalcamento del luogo comune sono così irritanti e invasivi da sconsigliare la visione. Eppure la fotografia è ottima, la capacità di stare dietro alla videocamera a dettare i ritmi giusti c'è, la tensione nonostante tutto è viva e uno finisce a rimanere incollato sulla poltrona senza mettere mano all telecomando. Quindi un'occasione persa, peccato. Però Giacomo Cimini può sicuramente fare di meglio.

mercoledì 25 novembre 2020

Cosa resta della rivoluzione

"Cosa resta della rivoluzione" (Tout ce qu'il me reste de la révolution) di Judith Davis. Con Judith Davis, Malik Zidi, Claire Dumas, Simon Bakhouche, Mélanie Bestel, Mireille Perrier, Jean-Claude Leguay e altri. Francia 2018 ★★★½

Di questi tempi tocca accontentarsi di quel poco che passa in streaming il convento, peraltro poca roba, recuperi da seconde scelte o pellicole passate pressoché inosservate e poco o per nulle frequentate in sala. Ogni tanto si casca bene, com'è il caso di questo film d'esordio alla regia di Judith Davis, la quale si riserva anche la parte della protagonista, una giovane e ambiziosa urbanista che viene licenziata dallo studio per cui lavora, gestito da una coppia di baroni de sinistra che, facendo quattro conti con la "crisi", preferisce risparmiare sui contributi sostituendola con il solito stagista. Angèle, così si chiama la ragazza cui Judith Davis aderisce in tutto, forse un vero e proprio alter ego dell'attrice e autrice, che dà tutta l'impressione di parlare a titolo personale, legittimandone le indignate rimostranze e rendendola particolarmente credibile (in caso contrario si dimostra ancora più brava), e infatti non glie le manda a dire, rinfacciando loro il comportamento ipocrita e il tradimento dei tanto decantati e ostentati "eterni ideali" sbocciati nell'ormai remoto 1968 e rimasti vivi soltanto sotto forma di tic, modo di parlare, logorrea, dogmatismo e paternalismo francamente ormai insopportabili, e questo lo dico pure io a titolo personale, appartenendo proprio a quella generazione, e quindi più che titolato a fare autocritica. A 38 anni Angèle, che invece ha tenuto fede agli ideali inculcatile dai genitori, vive di militanza in un'entità, il Partito comunista francese, ormai completamente marginale, di pura testimonianza, senza una vita sentimentale, ospitata nell'appartamento del padre, altro vecchio reduce che si occupa di volontariato, ormai da anni separato dalla moglie, compagna di lotta ai tempi gloriosi, a sua volta con un trascorso di talentuosa urbanista e che ha mollato il colpo vent'anni prima avendo capito per tempo la metamorfosi suicida della sinistra ormai giunta al potere, tra Mitterrand e Jospin, rifugiandosi in campagna, evento che ha segnato la ragazza che tuttora si sente abbandonata; quel che né il padre né la sorella maggiore Noutka (che a sua volta ha abbandonato la Causa sposandosi con un un manager completamente americanizzato) le hanno però detto, è che Diane, la madre, aveva chiesto al resto della famiglia di raggiungerla, mentre loro hanno insistito col rimanere a Parigi andando avanti a far finta che qualcosa potesse cambiare. Il film si articola in una serie di scene della vita quotidiana di Angèle, tra rapporti famigliari, tentativi di fare concorsi, l'impegno politico con l'amica di sempre Léonor (l'altrettanto brava Claire Dumas) nelle esilaranti riunioni di un collettivo eterogeneo di compagni che sembra più che altro un gruppo di autocoscienza che cerca di partire da alcune certezze, rendendosi conto che non esistono. Perché una cosa è sicura: sono tempi di cui sfugge il senso, ed è questo il succo del film, e quel che conta a da cui partire rimangono i rapporti tra le persone accettandole (e quindi accettandosi) per quello che sono e non per quello che vorrebbero o dovrebbero essere. E prenderne atto, con la giusta dose di sarcasmo e un minimo di leggerezza, è già qualcosa. Judith Davis e i suoi colleghi ci riescono, simpaticamente. Rassegnati sì, ma senza arrendersi e col sorriso sulle labbra, per quanto malinconico.  

domenica 22 novembre 2020

Mi chiamo Francesco Totti

"Mi chiamo Francesco Totti" di Alex Infascelli. Con Francesco Totti. Italia 2020 ★★★★

Il cinema nostrano non è mai stato a suo agio nel raccontare il mondo dello sport, nemmeno quello del calcio, che pure è l'argomento principe nei bar di tutta la Penisola e uno dei principali nei luoghi dove si svolge la vita degli italiani, media compresi, e già per questo l'autobiografia in prima persona dell'ex capitano della Roma (basata sul libro Un capitano scritto cn Paolo Condò) girata da Infascelli costituisce un'eccezione, per di più molto positiva. Gli elementi per il buon esito c'erano tutti: la storia esemplare del ragazzo di talento che avvera i suoi sogni d'infanzia; la simpatia spontanea che suscita di per sé Francesco Totti per la sua autenticità e autoironia: la scelta di fargli raccontare di persona la vicenda della sua vita sportiva, che si intreccia con quella umana e soprattutto il rapporto con la sua città, di cui è qualcosa più di un simbolo, è stata quella vincente. Infascelli con la macchina da presa ci sa fare: dai video musicali che ha girato ha acquisito il ritmo giusto, dall'attività documentaristica la capacità del raccogliere dati e reperti, miscelarli ed esporli con chiarezza; dai lungometraggi l'attenzione per il dialogo e la creazione di un'atmosfera: in questo caso ha miscelato il tutto affidandolo a un personaggio che, come molti introversi, è già attore di suo proprio per superare la propria timidezza, capace di stare sulla scena così come lo era sul campo, davanti a uno stadio stracolmo dove centomila e più occhi, specie all'Olimpico, ne vivisezionavano qualsiasi gesto o reazione, non solo in senso atletico. Nella finzione il film inizia dove finisce la carriera sportiva di Totti, nel pomeriggio del 28 maggio del 2017 quando, a pochi mesi dal traguardo dei 40 anni, giocò la sua ultima partita con la maglia della Roma, l'unica che avesse indossato dopo quella della Lodigiani dove giocava da ragazzino prima di approdare a Trigoria in giallorosso a 13 anni: una vicenda durata per altri 25, un record di fedeltà, ripercorsa dall'inizio, da "palla", la prima parola che pronunciò in un'estate al mare coi genitori e cugini a Porto San Giorgio, ai primi calci davanti alle elementari del quartiere dove è nato e vissuto, e poi tutta la straordinaria carriera di un calciatore di grandissimo talento ma anche un vero atleta, che per nessun motivo, nemmeno i 12 miliardi di lire di ingaggio offertigli ai tempi dal Real Madrid, avrebbe lasciato la squadra per cui aveva sempre tifato e di cui era diventato capitano a soli 22 anni e per 19 stagioni, raccogliendo a quel Giuseppe Giannini, romano come lui, che era stato il suo idolo da bambino. Una storia, sportiva ma anche umana, che avrebbe potuto prendere strade diverse, e in cui come sempre è stato il caso a decidere, o forse la predestinazione, con certi presagi e riscorsi che fanno capolino qui e là. Una favola, sì, ma molto reale. Nel film c'è molto ma non tutto: alcune vicende, pure ben note, vengono soltanto accennate, ma non ha senso parlare di lacune quando si è deciso per un certo taglio, che era far emergere  il personaggio e descrivere il suo rapporto con la città di cui è diventato un emblema: l'ottavo re. Totti incarna Roma, in tutto e per tutto, nei pregi e nei difetti, con cui intreccia un rapporto unico, almeno con la parte giallorossa (peraltro largamente preponderante nella città e nei ceti popolari). Inscì avèghen, direbbero a Milano...

mercoledì 18 novembre 2020

Il mio capolavoro

"Il mio capolavoro" (Mi obra maestra) di Gastón Duprat. Con Guillermo Francella, Luis Brandoni, Raúl Arévalo, Andrea Frigerio, María Soldi, Mónica Duprat, Santiago Korovsky e altri. Argentina, Spagna 2018 ★★★★

Recuperato in extremis su SKY e su segnalazione di mi cuggino, dopo essermelo clamorosamente perso all'uscita in sala nel gennaio dell'anno scorso, Il mio capolavoro è un film spassoso e arguto, cosparso di umor nero e quel tocco di macabro tipicamente argentino che proviene dal lato spagnolo del Paese, mentre l'altro, quello italico, risale alla commedia e ai caratteri a cui danno vita i due protagonisti, due mostri sacri nel  panorama attoriale delCono Sur: Guillermo Francella e Luis Brandoni. Il primo nei panni del narratore, Arturo Silva, il titolare di una prestigiosa galleria d'arte di Buenos Aires, che si confessa assassino e ne spiega il perché: ricco, educato, formalmente ineccepibile, è amico fraterno del secondo, il  pittore Renzo Renzo Nervi, un pittore irascibile, sociopatico, donnaiolo e ubriacone, classico artista scapestrato, che ha goduto di grande fama negli anni Ottanta sperperando soldi, cui non dà alcuna importanza, e ridotto quasi in miseria. A sostenerlo sempre e comunque Arturo, che trova la maniera di farlo lavorare convincendolo a dipingere un grande quadro dei suoi per dare lustro all'atrio della sede di una prestigiosa azienda del Paese: incapace di tenere sotto controllo la propria vis polemica e l'odio congenito verso i padroni e i potenti, Renzo non si trattiene e rovina tutto. Non contento dei disastri che provoca, viene sfrattato dalla topaia nel barrio della Boca in cui vive in mezzo al bicherío di cani e gatti e viene investito da un furgone finendo in ospedale malconcio. Persa anche la memoria, è sempre Alfonso a sostenere le costose cure per recuperarla e sembra quasi che, immalinconitosi e rassegnatosi, Renzo chieda all'amico come ultimo favore quello di aiutarlo a morire e lo convince... Ma qui inizia il capolavoro e non ve lo sto a raccontare perché altrimenti vi perdereste il gusto della sorpresa. Frizzante, pieno di battute geniali e svolte imprevedibili, ha i punti di forza nell'agilità della sceneggiatura e nella forma strepitosa dei due attori principali, che giocano in casa, mentre in trasferta, da Madrid, si aggiunge come comprimario all'altezza Raúl Arévalo, nella parte del gallego pedante e conformista, per quanto "alternativo", che vorrebbe essere artista ma non ne possiede talento e attitudine mentale. Un ritratto azzeccato quanto spiritoso di alcuni tipi umani che si possono incontrare nella Reina del Plata (e non solo nel mondo dell'arte ma anche delle ONG) e che la rendono una città unica e affascinante per i suoi contrasti e le sue assurdità. E' sempre un piacere constatare che proprio lì (e non a caso) quella che è stata la migliora commedia italiana abbia trovato i suoi più brillanti epigoni. A chi conosce il castigliano, consiglio di gustarselo in lingua originale. 

domenica 15 novembre 2020

E' per il tuo bene

"E' per il tuo bene" di Rolando Ravello. Con Marco Giallini, Giuseppe Battiston, Vincenzo Salemme, Isabella Ferrari, Claudia Pandolfi, Valentina Ludovini, Matilde Gioli e altri. Italia 2020 ★-

Mi pare di capire che E' per il tuo bene non sia uscito nelle sale, come programmato, all'inizio di luglio: a giudicare dal cast, che include attori di vaglia come Giallini, Battiston, Ludovini, Pandolfi e in parte Gioli (mentre continuo a non capire le ragioni del successo di Isabella Ferrari: un mistero quanto quello del suo tanto decantato fascino) probabilmente sarei andato a vederlo anch'io, ma forse perfino una casa produttrice di bocca buona come Medusa si è resa conto del suo livello penoso e così la visione è fortunatamente limitata allo streaming su Amazon Prime. Con qualcosa da bere a portata di mano e le opportune pause per andare a fare rifornimenti nel frigorifero si riesce ad arrivare, benché a fatica, alla fine anche se dura poco più di un'ora e mezzo. Si tratta del remake di un film spagnolo campione di incassi tre anni fa di cui non si vedeva la necessità, dato che sarebbe stato sufficiente doppiarlo e invece no: Rolando Ravello, già buon interprete in altre pellicole, si è preso la briga di riscriverne la sceneggiatura e di dirigerlo e il risultato è scoraggiante per pochezza. La storia vorrebbe raccontare le vicissitudini di tre uomini di mezza età che hanno in comune il fatto di avere tre figlie uniche in età da marito o fidanzato: essendone come da luogo comune gelosissimi, si consorzieranno per aiutarsi a vicenda nell'impresa di scoraggiarle e allontanarle dal bellimbusto di turno. Per farlo costituiranno pure un gruppo su Whatsapp che battezzano "i cognati" (non se ne capisce la ragione o forse sì, essendo talmente diversi per estrazione sociale che l'unico motivo per frequentarsi sarebbe quello di aver sposato tre sorelle, peraltro poco somiglianti) e ricorreranno a qualsiasi mezzo per allontanare le loro "bambine" dai rispettivi spasimanti, comprese una rapina, la diffamazione, la corruzione, ma alla fine si ravvedranno e tutti vissero felici e contenti. Meno il malcapitato spettatore. Tenuto in piedi (si fa per dire) unicamente dalla professionalità degli interpreti (in tempi di Covid19 si deve pur campare...), il filmetto è di una banalità, scontatezza e inverosimiglianza tali da sconcertare; come se non bastasse, l'ossequio al "politicamente corretto" giunge a vertici inarrivabili proponendoci un ratto della sposa (una giovane avvocatessa che lavora nello studio di papà e promessa al classico bravo ragazzo di buona famiglia) da parte del suo vero amore: una ragazza nera, vegana, ambientalista, senza permesso di soggiorno e, va da sé, lesbica. Insomma un insulto all'intelligenza di chi guarda oltre che alle donne: perché la brillante leguleia progressista aveva accettato di accasarsi con l'uomo dei sogni dei suoi genitori? Comunque, ringraziatemi o voi che mi leggete, ché E' per il vostro bene che vi segnalo, per scoraggiarne la visione, questa povera cosa che ha l'unico merito di non scadere nel pecoreccio.

martedì 10 novembre 2020

Cosa sarà

 

"Cosa sarà" di Francesco Bruni. Con Kim Rossi Stuart, Barbara Ronchi, Lorenza Indovina, Fotinì Peluso, Giuseppe Pambieri, Raffaella Lebboroni, Nicola Nocella, Tancredi Galli, Ninni Bruschetta e altri. Italia 2020 ★★★★½

Francesco Bruni, ne ero già convinto, migliora col passare del tempo come il buon vino: lo conferma questo quarto film da regista, di cui ha curato come sempre anche la sceneggiatura (coadiuvato dall'attore protagonista Kim Rossi Stuart, mai così convincente), per non parlare delle altre, tutte di qualità, che hanno costellato la sua carriera: quelle per Paolo Virzì, per Mimmo Calopresti, quelle dei romanzi di Camilleri per il Commissario Montalbano. L'uscita in sala della  pellicola, bloccata dal primo lockdown da Covid19, era prevista fin da marzo con l'infausto titolo Andrà tutto bene: opportunamente cambiato in Cosa sarà in previsione della seconda uscita programmata per due settimane fa, proprio il giorno in cui l'ennesimo DCPM ha disposto nuovamente la chiusura di cinema e teatri sul territorio nazionale, ma questa volta è stata resa disponibile la visione in streaming. Un peccato, perché è così ben fatto, intelligente, delicato nel raccontare una storia che prende lo spunto dall'esperienza personale di Bruni, da meritare una diffusione più ampia e un ampio successo che sicuramente avrebbe in condizioni normali. Il suo alter ego è Bruno Salvati, un regista cinematografico autore di "commedie che non fanno ridere" (o almeno non soltanto, perché un tocco di ironia non manca mai nei film di Bruni, capace di affrontare col lievità anche temi scabrosi come la malattia e la morte) che scopre all'improvviso e per caso di essere affetto da mielodisplasia, una grave malattia del sangue che rischia di sfociare in leucemia se non si provvede in tempo utile a un trapianto di midollo osseo, e la ricerca dei possibili donatori parte dai consanguinei, ossia i due figli, la giudiziosa e determinata Adele e il più giovane e fragile Tito (rispettivamente Fotinì Peluso e Tancredi Galli), avuti dalla moglie da cui si è separato di recente e controvoglia, ma sono incompatibili causa allergia: non risultandogliene altri, deve mettersi in lista d'attesa, ma a trovare una possibile soluzione provvede il padre, confessandogli che a Livorno ha una sorella "a sua insaputa" (di lei oltre che di Bruno), avuta da una relazione extraconiugale, di poco più giovane. Bruno, padre e figli si spostano così nella città toscana (che peraltro ha dato i natali al regista) per cercare di convincere Fiorella (Barbara Ronchi, per una volta non nel ruolo di mamma anni Settanta), che era rimasta orfana da qualche anno, con la premessa di doverle rivelare la paternità... Il racconto si alterna fra la degenza in ospedale, dalle prima analisi, al contatto con la dottoressa che lo segue, una donna energica quanto empatica (Raffaella Lebboroni, moglie di Bruni), alla chemioterapia preventiva, al trapianto dall'esito positivo, e i flash-back  prevalentemente incentrati sulle conseguenze della malattia nelle relazioni famigliari e nella vita quotidiana ma soprattutto nella psicologia dei vari personaggi, risalendo fino a episodi dell'infanzia di Bruno, in modo da fornire allo spettatore un quadro esaustivo della sua indole, coi suoi punti di forza e le sue tante debolezze e fragilità, che emergono più nei personaggi maschili che in quelle femminili di questa bella storia, narrata con molto garbo, sensibilità e una buona dose di autoironia. Funziona tutto in un equilibrio pressoché perfetto: il ritmo, l'alternanza dei livelli temporali, gli interpreti: finché vengono prodotti film di questo livello, il cinema italiano ha ancora qualcosa da dire.

lunedì 2 novembre 2020

Borat - Seguito di film

"Borat - Seguito di film" (Borat: Subsequent Moviefilm) di Jason Woliner. Con Sacha Baron Cohen, Maria Bakalova Rudy Giuliani, Mike Pence, Ken Davitian e altri. USA 2020 ★★★★★

15 anni dopo aver vivisezionato gli USA dell'era Bush in Borat - Studio culturale sull'America a beneficio della gloriosa nazione del Kazakistan torna, nel momento più opportuno, alla vigilia delle elezioni presidenziali, un eroe dei nostri tempi: Sacha Baron Cohen nei panni di Borat Sagdiyev. Il finto reporter kazako era sparito dalla circolazione perché condannato ai lavori forzati per i danni d'immagine ed economici irreparabili causati dalla precedente missione nel Grande Paese della Libertà e delle Opportunità: l'ex presidente (ma tuttora nume tutelare della nazione centro-asiatica) Nazarbaev in persona gli dà ora la possibilità di riscattarsi affidandogli l'incarico di consegnare in regalo al vicepresidente USA Michael Pence la scimmia Johnny, la più grande star del Kazakistan. E così Borat questa volta si presenta nel Texas, dove si terrà una manifestazione repubblicana alla presenza del vice di Trump, ma una volta arrivato scopre che nella cassa che conteneva Johnny, dell'animale rimangono soltanto i resti mentre, viva e vegeta, ci trova sua figlia quindicenne Tutar (la bravissima Maria Bakalova), che l'ha seguito di nascosto per avverare il suo sogno di sposare un magnate americano, così come ha fatto l'idolo dei suoi cartoni animati preferiti, Melania Trump, per l'appunto. Borat coglie la palla al balzo e pensa di sostituire la scimmia con la ragazza e per adattarla al gusto americano e così portarla al cospetto di Pence ne inizia la trasformazione cominciando a chiedere consigli a una (vera) influencer. Da lì è tutto un susseguirsi di situazioni paradossali, vere trappole predisposte dal genio situazionistico di Cohen che, usando come suo solito il mezzo della telecamera nascosta e travestendosi all'occorrenza dove potrebbe essere riconosciuto, sfrutta l'ignoranza, la dabbenaggine e la sincerità che spesso sconfina nell'idiozia degli yankees per rendere, con le sue provocazioni, palese l'abisso in cui è ulteriormente precipitata l'Ammmeriga nel corso dei tre lustri passati dal suo ultimo e documentato  "studio sul campo". E' una carrellata di pessimo gusto, che distrugge, irridendolo, il dogma del politicamente corretto, argine vano dei cosiddetti liberal al degrado generalizzato e all'ignoranza dilagante, nella realtà quotidiana di quel Paese al tempo della Pandemia, diffusa secondo molti da Obama o dai Clinton, tra negozi di ferramenta dove gli vendono dei gas per eliminare zingari a volontà e pasticcerie in cui si decorano senza fare una piega torte di cioccolato con scritte "gli ebrei non ci sostituiranno", centri di chirurgia estetica e balli di debuttanti in cui con la figlia che esibisce pezze da mestruazioni non immacolate si produce in una "tipica danza della fertilità" della sua patria, un raduno  negazionista in cui si infiltra come cantante folk trascinando la folla a seguirlo convinta nell'intonazione di rime deliranti, una riunione di donne repubblicane contro l'aborto, infine una manifestazione, sempre repubblicana, in un centro congressi alla presenza di Michael Pence e di Rudy Giuliani, ex sindaco di New York (a dimostrazione del livello dell'elettorato della città "meno americana" e più progressista degli USA), che cerca di sedurre (veramente) Tutar, trasformata per l'occasione in una giovane e avvenente giornalista che lo intervista. Come accennavo la volgarità abbonda, perfino troppo, ma mai abbastanza per descrivere l'essenza di quel Paese orrendo che sono gli Stati Uniti. In un primo tempo, vedendo il film due giorni fa, ero rimasto perplesso; lasciando decantare le prime impressioni non del tutto positive mi sono ricreduto e assegno a Borat/2 il massimo dei miei punteggi e un invito a vederlo (è disponibile in streaming su Amazon Prime), con una dedica particolare a personaggi come Alan Friedman, Furio Colombo, Federico Rampini, Uòlter Veltroni e altri che continuano a vivere nel mito degli USA e a raccontarci che "la vera America non è quella di... (Trump, Obama, Bush, Clinton, Bush ancora, Reagan...)". E invece è proprio quella che ritrae uno che la conosce meglio di loro, anche se è un ebreo inglese, e che induce degli americani autentici a mettersi più o meno volontariamente alla berlina da soli, svelandone e ridicolizzandone tutti i tratti più orripilanti. Perché se lo meritano. Detto questo, non mi stupirebbe per nulla che i risultati delle "presidenziali" (peraltro indirette, cosa che molti ignorano) premiassero una seconda volta Trump, che è l'espressione più autentica dell'anima e della cultura di quel Paese. E anche se dovesse prevalere quell'altro moscione di Biden non cambierebbe la sostanza. 

mercoledì 28 ottobre 2020

Palazzo di Giustizia

"Palazzo di Giustizia" di Chiara Bellosi. Con Daphne Scoccia, Bianca Leonardi, Sarah Short, Nicola Rignanese, Giovanni Anzaldo, Andrea Lattanzi, Simone Moretto, Diego Benzoni e altri. Italia 2019 ★★★★

Ultimo film visto in sala dopo la demenziale decisione, contenuta nel più recente DPCM, di chiudere cinema, teatri e stadi (nemmeno a capienza più che ridotta) fino al 24 di novembre (per ora...), trattando ancora una volta gli italiani non da cittadini ma da sudditi o, se si vuole, da infanti irresponsabili. Un film insolito e coraggioso, quello d'esordio alla regìa di un lungometraggio di Chiara Bellosi, drammaturga milanese di solida formazione teatrale, che mantiene fede al suo titolo scegliendo di raccontare, con estremo realismo, ciò che accade davvero nella quotidianità di un grande tribunale italiano, in questo caso quello di Torino dove, in Corte d'Assise, si tiene il dibattimento finale di una causa che vede imputato per omicidio un benzinaio il quale, dopo essere stato assalito e rapinato dell'incasso, ha reagito inseguendo i due malviventi, aprendo il fuoco con la pistola regolarmente denunciata e ammazzandone uno: il sopravvissuto, Magia, è in aula in qualità di testimone. Essendo difficile sostenere la legittima difesa, gli avvocati suggeriscono all'imputato di dire di aver avuto paura; l'uomo, però, onestamente ammette che ciò che gli ha fatto scatenare la sua reazione è stata l'umiliazione, l'essersi dovuto inginocchiare e subire le minacce e le vessazioni dei due malviventi. Non è però questo il fulcro del film, benché la regista descriva con estrema attenzione e con abbondanza di primi piani e particolari veritieri le parole, i movimenti, le pause, gli sguardi di tutte le parti in causa, tant'è vero che al termine non viene resa nota la decisione presa in camera di consiglio dalla giuria, ma ciò che avviene fuori dall'aula e negli interminabili e freddi corridoi e meandri del palazzo, concentrandosi su Domenica, la figlia diciottenne del benzinaio, Luce, una bambina irrefrenabile che ne ha dieci di meno, figlia del rapinatore e di Angelina, la sua giovane compagna e convivente e le relazioni che si stabiliscono fra loro e con Daniele, un tecnico impegnato nella riparazione di un termosifone e che per tutta la giornata stazione nel corridoio antistante l'aula: spaccato di vita quotidiana all'interno del luogo in cui viene amministrata la giustizia, insomma, un mondo che, a ben vedere, con i suoi rituali, è estremamente vicino a quello del teatro, da cui per l'appunto la Bellosi proviene (ricordo anche che capitava, tra medie e liceo, di trascorrere in tribunale ad assistere ai processi come fossero spettacoli le mattinate in cui si marinava la scuola: il Palazzo di Giustizia di Milano era a poche centinaia di metri e veniva comodo). Belle inquadrature, nessun fronzolo, eccellente la scelta degli interpreti, poco noti ma tutti bravissimi, una gran bella sorpresa. Vivamente consigliato, per chi riesce a intercettarlo, prima o poi.

domenica 25 ottobre 2020

I predatori

"I predatori" di Pietro Castellitto. Con Massimo Popolizio, Manuela Mandracchia, Pietro Castellitto, Giorgio Montanini, Dario Cassini, Anita Caprioli, Antonio Gerardi, Marzia Ubaldi, Nando Paone, Vinicio Marchioni e altri. Italia 2020 ★★★★

Ammetto di essere prevenuto nei confronti dei "figli d'arte", tantopiù pensando all'ambientino romanesco che ruota attorno al cinema, per cui sono rimasto ancor più piacevolmente sorpreso dallo scoppiettante esordio alla regìa del primogenito di Sergio Castellitto e Margaret Mazzantini (certo siamo distanti dal mondo dei muccinos...), con un film surreale e beffardo che a buon titolo si rifà alla migliore e celebrata commedia all'italiana, penso a Monicelli o Salce, per fare due nomi d'eccellenza, aggiornandola senza tradirla, giocando, il giusto e senza diventare ripetitivo, sul tono grottesco e senza scadere nel dozzinale e nel pecoreccio. Il film ha un andamento circolare iniziando dalla fine, ma ce ne si rende conto, toh, proprio quando la pellicola sta per terminare e si capisce perché lo straniante piano-sequenza che apre la pellicola mostri un'ambientazione nordica e non mediterranea. Ci si trova infatti nella cittadina tedesca in cui sono tumulate le spoglie di Friedrich Nietzsche, dove finirà lo stralunato protagonista, Federico Pavone, interpretato dallo stesso Pietro Castellitto, assistente di uno stravagante barone universitario napoletano con cattedra alla Sapienza di Roma che intende riesumare il corpo del filosofo tedesco per avvalorare una sua qualche strampalata teoria. Non sto qui a raccontare la trama che, apparentemente complessa, ha invece una sua linearità e coerenza benché il racconto si dipani su più fili, che tuttavia, per la bravura e padronanza del mezzo dell'autore e regista (nei crediti, per burla, appare come sceneggiatrice Ludovica Pensa, ossia colei che nella finzione è la madre di Federico, regista cinematografica ai ferri corti con la produzione di un film, interpretata da Manuela Mandracchia) che, in sostanza, presenta una galleria di "Nuovi Mostri" aggiornata alla seconda decade del secondo Millennio, mettendo a confronto e facendo entrare in contatto, per una pura casualità e senza insisterci sopra, i mondi di due coppie di famiglie romane: due appartenenti alla borghesia professionale dei Parioli o di Prati, pseudo progressista e terrazzata, che costituisce la base elettorale del PD e due al sottoproletariato fascistoide che vive sul litorale Ostiense: nostalgici più per tradizione famigliare che per convinzione benché si tratti del gestori di un'armeria e di un poligono di tiro abusivo, in realtà i due fratelli e le relative mogli e figli sono di fatto schiavi di uno zio delinquente e paranoico (Antonio Gerardi: inquietante) e dei bonaccioni, insomma dei "duri" da operetta. Esilaranti sono i ritrovi e i rituali delle due apparentemente opposte realtà: i due medici amici (Popolizio, il padre di Federico e il logorroico collega con la moglie bella e infedele), professionisti strapagati che in quanto a cialtroneria non sono da meno del loro corrispettivo borgataro, tutto un universo a due facce della stessa medaglia che trasuda menefreghismo, stupidità, vanagloria, ignoranza, a cui si può solo sfuggire con la follia e la stravaganza. Che è un po' quello che ha l'occasione di fare Federico e che suggerisce, in fondo, il suo alter ego nella realtà della finzione, ossia Pietro Castellitto. A me il film è piaciuto molto: mi ha divertito e rilassato, il ritmo è quello giusto, senza scarti e strappi nonostante i continui cambi di scena e di contesto, la mano dietro la cinepresa lodevolmente sicura, il cast azzeccato e affiatato. Spero che il giovane regista romano continui a sorprenderci: le qualità le ha tutte. 

giovedì 22 ottobre 2020

Un divano a Tunisi

 

"Un divano a Tunisi" (Un divan a Tunis) di Manele Labidi Labbé. Con Golshifteh Farahani, Majd Mastoura Mastoura, Aisha Ben Miled, Feryel Chammari, Hichem Yacoubi, Ramla Ayaru Anjegui e altri. Francia 2019 ★★½

Temevo una commediola alla francese, tutta smorfie e logorrea a gogò, e invece sono stato piacevolmente risparmiato: di transalpino il film ha poco, a parte la cittadinanza della regista e sceneggiatrice e di Selma, una psicanalista sulle trentina (Golshifteh Farahani, che invece è iraniana), entrambe di origine tunisina ed entrambe alla ricerca delle proprie radici: Labidi Labbé lo fa precipitando la protagonista nella realtà quotidiana di quella capitale maghrebina, non tanto diversa da quella della dirimpettaia Sicilia, nei panorami e nell'edilizia ma anche nel modo di vivere e di pensare. Una scelta, quella di Selma, di lasciare Parigi per aprire uno studio sulla terrazza della casa di famiglia (i genitori, che si presumono oppositori politici, sono rimasti in Francia), che nessuno comprende: innanzitutto perché tutti vorrebbero lasciare la Tunisia, e poi perché, avendo un unico dio a cui riferirsi, non si capisce perché dovrebbero parlare delle loro faccende a un'estranea e invece, tra curiosità per la novità e il bisogno di comunicare, si trova presto la fila di clienti fuori dalla porta. I tipi più strani: dalla proprietaria di un salone di bellezza, scettica all'inizio ma che rivela problemi irrisolti con la madre, a un fornaio che sogna ossessivamente di baciare esclusivamente dittatori arabi e va in crisi quando gli appare Putin: finisce per accettare la sua passione per il travestitismo; un imam lasciato dalla moglie ed espulso dalla sua moschea dai fanatici salafiti perché non porta la barba e non è  abbastanza determinato e cade in depressione; ma anche il parentado di Selma non scherza: dallo zio che prima la osteggia a poi ammette il suo alcolismo, determinato anche dalla incertezze che la situazione politica proietta sul futuro del Paese: una argomento, questo, che corre sotto traccia e risulta poco comprensibile a un pubblico che non conosce la storia recente della Tunisia (più di un riferimento va alla situazione creatasi dopo la caduta del regine di Ben Alí in seguito alle proteste che nel 2010 dettero il là al fenomeno giornalisticamente battezzato Primavera Araba); la cuginetta ribelle che ha la geniale idea di sposare, con rito tradizionale, un ragazzo gay dotato di passaporto francese con il quale l'accordo è quello di trasferirsi in Europa e vivere la loro diversa sessualità senza intralciarsi, cosa che scandalizza e mette in discussione anche i principi della disinibita e anticonformista Selma, tradendo il suo moralismo, e che a sua volta trova si trova a peccare di superficialità e ingenuità nel non prevedere i prevedibili ostacoli di una burocrazia pasticciona cialtrona che è chiamata a far rispettare le regole e le leggi che pure esistono anche in un "buco" come la Tunisia, e non solo nell'"evoluta" Francia. La prima parte del film è scoppiettante, arguta, divertente, ma nell'ultima mezz'ora il ritmo si affloscia, il racconto si ingarbuglia e finisce per impantanarsi, a meno che non sia un effetto voluto a sottolineare la schizofrenia e il clima sospeso e confuso che aleggia sia sulla società tunisina nel suo complesso sia nei singoli cittadini. Comunque uno scorcio interessante su una realtà tanto vicina quanto poco conosciuta, discrete le interpretazioni (l'imam ricorda incredibilmente Peter Sellers), un film leggero ma non troppo: peccato che si perda nel finale.

lunedì 19 ottobre 2020

Lasciami andare

"Lasciami andare" di Stefano Mordini. Con Stefano Accorsi, Maya Sansa, Serena Rossi, Valeria Golino, Antonia Truppo, Musella, Elio De Capitani, Lino Musella, Ludovico Benedetti e altri. Italia 2020 ★★½

Ed ecco nuovamente in pista Stefano Mordini che, dopo Il testimone invisibile uscito due anni fa, ha l'occasione di confermsi un abile tessitore di noir piuttosto anomali, con un elemento fantastico e di mistero che non guasta al racconto. Qui anche l'ambientazione è quella giusta: una Venezia vera, per una volta non cartolinesca, che vede protagonista Marco, un ingegnere edile sui quarant'anni, un sempre più pacato e credibile Stefano Accorsi, in giro per cantieri di stabili da sanare ed eventualmente ristrutturare, la cui nuova compagna, Anita (Serena Rossi, cantante in un locale della città), è in attesa del primo figlio. Marco ne ha già avuto uno, Leo, scomparso all'età di cinque anni per un disgraziato incidente avvenuto nella bella casa sul Canal Grande che abitava con l'ex moglie Clara (Maya Sansa), e non si è mai liberato da quell'incubo che ha segnato la coppia e portato alla separazione. A un tratto compare sulla scena una ricca imprenditrice, Perla Gallo (Valeria Golino), che ha acquistato lo stabile dove abitava la famigliola, che lo contatta con insistenza raccontandogli che suo figlio, Giacomo, che dorme nella stessa camera che era di Leo, ne sente ancora la presenza e ne è impaurito. Prima Marco, razionale com'è, non vuole saperne di queste suggestioni ma in seguito, dopo un lungo colloquio con suo padre, uno studioso di filosofie e religioni orientali (Elio De Capitani: sempre un grande!) e pressato da Clara, si lascia convincere a tornare nella vecchia abitazione per verificare l'esistenza di una qualche presenza: la casa, peraltro, già si prestava ai misteri, per via di un raro fenomeno ottico per cui la luce filtrava nella stanza di Leo con un effetto da camera oscura proiettando sui muri le immagini del Canalazzo. Da qui la vicenda da un lato prende una piega parapsicologica, compreso l'incontro con un sensitivo che conferma la presenza di Leo sotto una qualche forma di energia e dei suoi desideri, dall'altro cala sempre più nel reale, sia perché racconta l'incidenza di tutta la vicenda sulla vita e sulle relazioni dei personaggi principali rilevandone i rispettivi caratteri e sensibilità, sia perché Marco riesce a smascherare anche il gioco, e dunque le vere intenzioni (quindi ancora una volta l'identità) della misteriosa acquirente dell'appartamento in cui un tempo viveva con quella che era la sua famiglia e, nel contempo, anche liberarsi da un senso di colpa che, dopo l'incidente del figlio, era diventato insopportabile da sostenere. Un fluttuare sospesi tra presente, passato e futuro che comunque ha una sua verosimiglianza, che si rispecchia nella autenticità dei personaggi, tutti interpretati da attori all'altezza della situazione. Una regia pulita, meticolosa, che in un racconto tutto sommato lineare riesce a immettere più di un elemento di mistero e di sorpresa al momento giusto, mantenendo viva l'attenzione dello spettatore che non fatica a entrare nei panni dei vari soggetti, e immergersi nell'atmosfera che aleggia, tra realtà e immaginazione. Un buon film. 

sabato 17 ottobre 2020

Il giorno sbagliato

 

"Il giorno sbagliato" (Unhinged) di Derrick Borte. Con Russell Crowe, Caren Pistorius, Gabriel Bateman, Jimmi Simpson, Michael Paapajohn e altri. USA 2020 ★-

Non un film memorabile, in confronto a due classici come Duel di Steven Spielberg e Un giorno di ordinaria follia di Joel Schumacher, dei quali è debitore, ma riuscito, almeno in parte, se lo scopo era quello di trasmettere una scarica di adrenalina dal grande schermo allo spettatore in sala inchiodandolo alla poltroncina per 90': calibrata la scelta del tempo e anche degli interpreti, da un lato un Russell Crowe sempre più corpulento, ex dirigente di una casa automobilistica rovinato dall'avvocato della moglie, da cui ha divorziato e che ha appena accoppato assieme al nuovo compagno, dall'altro una giovane madre, l'insulsa Caren Pistorius, a sua volta alle prese con una causa di separazione, un tantino immatura e stupida che, a un incrocio, mentre sta portando a scuola il figlio, perennemente in ritardo a causa della sua innata disorganizzazione nonché menefreghismo, ha l'ardire di suonare impaziente il clacson al bestione alla guida di un pick-up con tanto di parafanghi oversize che in America Latina chiamano mataburros, ossia ammazza-asini. Quel che è peggio, a gentile (tutto sommato: il Tom Cooper interpretato dall'attore australiano non è ancora uscito completamente dai gangheri) non si sogna nemmeno di scusarsi e lo manda pure a fare in culo. E qui Cooper si incazza e non le dà più tregua. Risparmio dettagli sui 75' successivi all'incrocio dei due destini, nell'ingorgo di traffico verso il centro di una qualsiasi orrenda metropoli di quel Paese di psicopatici che sono gli USA, anche per non togliervi la sorpresa, ma il crescendo rossiniano di violenza e di crudeltà è abbastanza impressionante e non vengono risparmiati dettagli truculenti: il fatto è col procedere del film, ci si ritrova quasi a simpatizzare per l'energumeno, il cui grado di alienazione e di disadattamento è soltanto a un livello superiore per intensità, ma di identica natura, di quello di Carol, la giovane donna vittima della sua vendetta privata contro il mondo. Un mondo che, lo dicono alcune voci tratte dai canali All News che infestano 24 ore al giorno la nostra esistenza (nonché la pellicola in visione) e ancor più quella degli statunitensi, a forza di un incessante bombardamento di stimoli contraddittori ha ormai saturato i cervelli di chi ne è oggetto tanto da mandarli in tilt, prima o poi, inevitabilmente. I rimedi sono noti: scomparsa la possibilità di incanalare malcontento e frustrazioni in movimenti collettivi di protesta, e quindi la speranza di un cambiamento a livello sociale, figurarsi attraverso il voto, e abbandonati a sé stessi, l'alternativa consiste in palliativi come psicofarmaci, ricorso alla psicanalisi in massa, droghe, oppure scoppi individuali di rabbia incontrollata e irrazionale, andare fuori di cotenna e farsi giustizia da soli, il che del resto è nel DNA degli yankees e di chi apprezza così tanto l'american way of life da fare di tutto per andare a vivere negli USA. Dove però il film cade miseramente (un'avvisaglia si ha quando, inseguita dall'imbufalito Tom che ha appena trucidato la ragazza del fratello e sottoposto a tortura quest'ultimo, Carol, per tranquillizzare il figlio, proprio lei, dopo tutte le cazzate che ha fatto, pronuncerà la frase di rito che ricorre almeno una decina di volte in ogni film americano, assieme al rituale "ti amo": va tutto bene. E ci scappa da ridere) è nel finale quando, dopo averne stesi almeno una mezza dozzina, Tom trova la morte a opera proprio della cretina, irrompe la Polizia e la fancullla, bel bella, monta in macchina, come se non fosse successo nulla (infatti sembra nuova anche la station vagon con cui viaggiava, senza un'ammaccatura pur avendo sbattuto ovunque) e se ne torna a casa beata e sorridente assieme al figlio che, a dieci anni, ha pure dieci volte più cervello e buon senso di lei. Ecco: se decidete per la scarica di adrenalina, uscite al minuto 85'. Insomma, un'americanata, parzialmente ben fatta, a cui non basta un Russell Crowe in piena forma (letteralmente) per meritare la sufficienza.

giovedì 15 ottobre 2020

Paradise - Una nuova vita

 

"Paradise - Una nuova vita" di Davide Del Degan. Con Vincenzo Nemolato, Giovanni Calcagno, Katarina Čas, Selene Caramazza, Branko Zavrsan, Andrea Pennacchi e altri. Italia-Slovenia 2020 ★★½

Paradise è il nome del residence, situato a Sauris, isola linguistica tedesca in Carnia (Friuli, per la precisione), dove viene catapultato il giovane, stralunato siciliano Alfio alias Calogero nel quadro di un programma di protezione testimoni in quanto ha assistito, senza rifugiarsi nell'omertà, a un omicidio di mafia. Venditore di granite giunto sulla montagne innevate col suo carretto, è dura adattarsi al clima e alle abitudini di un luogo così distante in tutto dalla sua Sicilia: qui i maschi locali socializzano dedicandosi allo Schuhplattler, danza tipica tirolese dove ci si dà potenti manate sulle cosce calzate da braghe di pelle e sberloni per finta, ma soprattutto Calogero/Alfio (un nasuto, esile, a tratti clownesco Vincenzo Nemolato) vive nel terrore quando dall'Isola è giunto un altro personaggio, Calogero anche lui (l'imponente, testosteronico Giovanni Calcagno), che riconosce essere il sicario che aveva descritto alla polizia. Prima si rintana nella propria camera, poi cerca di rendersi irriconoscibile tingendosi di biondo, infine cercherà di avvelenarlo con la cicuta dopo avergli cucinato una cena a base esclusivamente di mele (Calogero è diventato vegetariano, dice, dopo aver lavorato per anni in un mattatoio) ma è tutto inutile. Non perché verrà ucciso, ma perché Calogero è davvero cambiato, e se si trova lì è perché pure lui è sotto protezione, ma in quanto pentito, e la polizia, per non smentirsi, ha combinato un pasticcio. La nuova vita del titolo in realtà riguarda lui più che il suo corregionale e vicino di stanza, perché sarà l'occasione per essere fino in fondo sé stesso, ad esempio ammettendo la propria omosessualità; ed è lui il vero bersaglio dei due sicari che vengono mandati dall'Isola a cercarlo nell'estremo NordEst dell'Italia. Pure dalla Sicilia giungono in visita ad Alfio la giovane moglie Lucia con la piccola Marcella, la figlia che non ha fatto in tempo a veder nascere e per la quale vuole un futuro migliore rispetto a quello di un mondo dove vige l'omertà, impersonata dalla consorte che si porta dietro il parentado di lei per convincerlo a ritrattare e tornare così a casa "dove tutto è stato sistemato". Il problema verrà risolto altrimenti, ma non è detto che anche per Alfio non inizi una nuova vita... Il film, che non ha certo avuto bisogno di grandi mezzi né di un battage pubblicitario a livello di altri che ne valgono un decimo, riesce a dire cose serie e anche drammatiche in modo leggero e mai banale tra l'ironico e il surreale, in forma favolistica, fornendo diversi spunti di riflessione nell'arco di soli 83', a dimostrazione che in Italia esistono eccome registi originali e fantasiosi in grado di fare buoni, anzi ottimi film senza tirarsela, dei quali un operatore, montatore, documentarista, quindi uomo di cinema e TV a tutto campo come Davide Del Degan è un esempio da manuale. Perfetta anche la scelta degli interpreti, con la felice e classica contrapposizione anche fisica fra i due personaggi principali, i Sussi e Biribissi della situazione (per rimanere in ambito triveneto), la solare Katarina Čas nel ruolo di madre single e gestore del Paradise e la dolce Selene Caramazza in quello della dolce e remissiva (con la sua famiglia) Lucia; in più, il sempre bravo e versatile Andrea Pennacchi in quelli del commissario di polizia responsabile dei due disgraziati sotto protezione di chi non è in grado nemmeno di proteggere sé stesso. 

martedì 13 ottobre 2020

Senza Speranza - L'invasione degli ultraidioti

Non bastava l’obbligo generalizzato, reintrodotto giovedì scorso, di indossare il bavaglio all’esterno anche in regioni, come quella in cui vivo io, il Friuli-Venezia Giulia, dove non solo il tasso di contagio è nettamente più basso che nella media del Paese ma il cosiddetto “distanziamento sociale” è una pratica acquisita geneticamente prima ancora che culturalmente: naturalmente no. Perché quel che non si può mascherare sono l’imbecillità e il velleitarismo di certi provvedimenti, come quello caldeggiato dal ministro della Salute Roberto Speranza, colui che in una nota trasmissione televisiva domenica scorsa annunciava il divieto di riunione di più di sei non congiunti nelle abitazioni private (come se per il vàirus avesse rilevanza il grado legale di parentela) invitando la pupulasiùn alla delasiùn in caso di sua trasgressione, ignorandone l’incostituzionalità: tant’è vero che nel DPCM odierno, anche su suggerimento della Mummia insediata al Colle Più Alto, il Capo del Governo Giuseppe Conte ha preferito fare retromarcia limitandosi a una raccomandazione. Ecco: vista l’impossibilità di bloccare l’ininterrotto profluvio di parole inutili che vengono vomitate da legioni di "esperti" e di "scienziati" che bivaccano ininterrottamente tra studi televisivi e webcam invece di stare nei laboratori a fare qualcosa di utile; il berciare di politici e pennivendoli ignoranti, imbecilli, corrotti e incompetenti; la marea montante di merda che, a loro imitazione, si scaricano addosso quotidianamente gli abitatori dell’universo socialmediatico, che almeno chi ha la responsabilità di governare questa Repubblica da operetta eviti di emanare divieti che già sa di non poter far rispettare, sia perché illegali, sia perché non ne sarebbe in grado, come dimostrano le settimanali adunate a cielo aperto degli “smascherati”, come quella di Roma di sabato scorso, che si tengono liberamente benché si gridi alla “dittatura militar-sanitaria” dove, su alcune migliaia, è stato fermato un solo manifestante perché dava in escandescenze e non risultano state elevate multe a chi era privo del “dispositivo di protezione personale”, e che sono organizzate dagli stessi che fino a qualche mese fa invocavano i “pieni poteri” oppure sono i diretti discendenti di quell’altro che ha sequestrato il Paese per vent’anni portandolo prima alla guerra, poi alla rovina e infine al vassallaggio verso gli USA. Tra questi e gli emuli di Stalin, Honecker o Hoover (cambia poco: la logica sbirresca del potere è sempre la stessa) non ho preferenze: che il vàirus, se deve servire a qualcosa, se li portasse via tutti quanti… Speranza vana, purtroppo.

lunedì 12 ottobre 2020

Lacci

 

"Lacci" di Daniele Luchetti. Con Luigi Lo Cascio, Alba Rohrwacher, Silvio Orlando, Laura Morante, Adriano Giannini, Giovanna Mezzogiorno, Linda Caridi e altri. Italia 2020 ★★★★+

Concludo la carrellata dei film italiani presentati all'ultima Mostra del Cinema di Venezia con quello che ha aperto la manifestazione ma non era in concorso. Sarebbe banale e riduttivo affermare che sia il migliore assieme a Le sorelle Macaluso (per molti troppo teatrale) e Notturno (che è un documentario): semplicemente Daniele Luchetti, Emma Dante e Gianfranco Rosi sono  registi di un'altra categoria rispetto ai loro più giovani e velleitari colleghi Giorgia Farina, Claudio Noce e Susanna Nicchiarelli, in ordine di stroncatura, che farebbero bene a imparare dai loro ben più strutturati colleghi. La differenza, a prescindere da motivazioni tecniche, dall'esperienza e dalla bravura, perfino dai gusti personali, balza immediatamente all'occhio: i primi tre hanno le idee chiare su cosa vogliono dire e fare, i secondi per niente, ragion per cui i loro film risultano confusi, contraddittori, affastellati, irrisolti, noiosi. In una parola: inutili. Qui Luchetti è alle prese con la storia di una coppia vista in due fasi diverse della propria esistenza: che va in crisi, all'inizio degli anni Ottanta, con due figli da crescere e all'inizio della rispettiva vita professionale, e al giorno d'oggi, tornata assieme dopo una lunga e lacerante separazione. A tenerla assieme nonostante tutto, con tanto di rancori, sensi di colpa, rimpianti, sono per l'appunto i lacci del titolo, ossia i legami anche invisibili, odio compreso, che tengono insieme i rapporti anche più deteriorati, e che tengono avvolti per primi i figli, che ne subiscono le conseguenze, spesso traumatiche. Una storia semplice, i cui meccanismi vengono raccontati sapientemente più con i gesti e le espressioni che con le parole: del resto meno si dice, in un rapporto, e meglio è, afferma Aldo, il protagonista maschile, che da anziano critico e giornalista, rientrato in famiglia, è interpretato da Silvio Orlando, mentre da giovane, redattore culturale radiofonico, è impersonato da Luigi Lo Cascio che, durante le trasferte a Roma, da Napoli dove vive con moglie e i due figli, si innamorerà della solare collega Lidia (Linda Caridi), e farà l'errore di confessarlo alla moglie Vanda (Alba Rohrwacher da giovane e Laura Morante attualmente), subendone i ricatti affettivi e le ritorsioni. Anche per sua colpa: che se è sincero con la moglie come con l'amante, non lo è altrettanto con sé stesso, e rimane vittima della sua irresolutezza. Ben più decisa nell'accampare le sue ragioni Vanda, anche se nemmeno a lei, a parte i figli, è chiaro del perché e del per cosa, essendo palesemente non innamorata del marito ma vittima, appunto, dei "lacci", delle questioni di principio e delle promesse fatte, anche se impossibili da mantenere, e che non esiterà di ricorrere all'arma del tentato suicidio. Che funzionerà, rovinando la vita a entrambi e soprattutto ai figli, Anna e Sandro (Giovanna Mezzogiorno e Adriano Giannini), che alla situazione che li ha segnati per sempre hanno reagito in modo opposto ed entreranno in scena nell'ultima parte del film, che non svelo per quanto è liberatoria e rende loro giustizia: Luchetti ha pure trovato il modo di inserire un elemento "giallo" che verrà svelato proprio all'ultimo. In 100', senza ammorbare nessuno, in maniera esemplare e grazie a un uso esemplare della dimensione temporale (vero, Farina?) anche in modalità porte scorrevoli, per così dire; un'ambientazione davvero attenta e precisa (vero, Noce?) e chiarezza di propositi, scevra da ideologismi, che non giudica ma lascia che sia lo spettatore a farlo, se vuole (vero, Nicchiarelli?). Lo scopo era quello di far riflettere raccontando una storia esemplare e verosimile su quali sono alcuni dei tarli più comuni che minano le relazioni di coppia e di una "istituzione", come la famiglia, che ha cambiato faccia sotto i nostri occhi nell'ultimo mezzo secolo: Luchetti, basandosi sull'omonimo romanzo di Domenico Starnone, che ha pure curato la sceneggiatura assieme a Francesco Piccolo (e si vede) ci riesce benissimo, il tutto in poco più di un'ora e mezzo, senza abusare della pazienza dello spettatore e senza annoiarlo. Complimenti a lui e a tutti gli interpreti. 

sabato 10 ottobre 2020

Miss Marx

"Miss Marx" di Susanna Nicchiarelli. Con Romola Garai, Patrick Kennedy (II), John Gordon Sinclair, Felicity Montagu, Olive Shreiner, Emma Cunnife, Oliver Chris e altri. Italia 2020 💩

Completa il trittico dei film di merda di produzione nazionale presentati quest'anno a Venezia questa specie di sermoncino con supporto audiovisivo che ai tempi del GranPartito di gramscitogliattilongoeberlinguer avrebbe potuto essere destinato e indottrinare la gioventù comunista nei cineforum alle Case del Popolo, mentre ora si limita a estasiare le critica militonta e, forse, i nostalgici rincitrulliti. Del tris, quello che mi ha irritato più di tutti: mentre gli altri due, di Giorgia Farina e di Claudio Noce, erano semplicemente incomprensibili oltre che terribilmente pallosi, di questo ritratto biografico della minore delle figlie di Karl Marx, Eleanor chiamata famigliarmente Tussy (nomignolo che nel gergo tedesco di oggi equivale a oca, nel senso di cretina, matuttoquesto la Nicchiarelli non lo sa, equandopassaridetuttalacittà: altrimenti si sarebbe, forse, risparmiata dal sottolineare ripetutamente questo dettaglio) lo scopo si capisce benissimo: pura agiografia e propaganda ideologica e femminista, peccato che, come quasi sempre capita agli agit-prop di scuola marxista-leninista, risulti del tutto controproducente. Innanzitutto perché la lezioncina viene pappagallescamente calata dall'alto, come del resto fa Eleanor, che parla per slogan in contesti, quelli dei "campi e delle officine", che le sono del tutto estranei, per censo e cultura, essendo borghese fino al midollo come lo era del resto il padre: l'unico che poteva parlare con cognizione di causa il mondo del lavoro di tutta la ghenga era Friedrich Engels, che del resto era ricco un industriale tessile il quale grazie al plusvalore prodotto dai suoi operai ha finanziato fino alla morte, e pure successivamente, oltre al proprio elevato tenore di vita, tutta la tribù Marx, Eleanor e il suo lacché Aveling compresi. E' del resto una capacità insita a quelli sedicenti desinistra, soprattutto de noantri, risultare odiosi per la loro pedanteria e saccenza senza rendersene conto; non sono loro a essere dottrinari e insopportabilmente spocchiosi, ma gli altri, intellettualmente inferiori, a non capirli. Ma qui la regista compie un capolavoro di autolesionismo non solo presentando i due eminenti ideologi come due gioviali e all'occorrenza avvinazzati maschilisti, ma Eleanor e le altre figlie di Marx (oltre a quello illegittimo, frutto di un amore ancillare del mandrillo barbuto) come delle deficienti nonché complici del proprio avvilimento, confermando ancora una volta che nella grande famiglia marxista ciò che vale per il pubblico è esattamente il contrario di quel che viene praticato nel privato, per cui l'esito di questa sorta di inno all'attualità della figura di questa povera donna, di cui vengono mostrate tutte le contraddizioni nella quotidianità e in campo sentimentale e poco o niente della sua formazione e attività intellettuale in prima persona, come se non fosse capace un pensiero autonomo oltre all'indottrinamento ricevuto in famiglia, si risolve in una clamorosa autorete, una mazzata sui propri testicoli, oltre a quelli dell'incauto spettatore. Ma forse vi diranno che l'attualità consiste nella presa di coscienza di quanto vi sia ancora da fare: la strada è lunga, compagni e compagne, fino al sorgere del Sol dell'Avvenir. Intanto siamo fatti per soffrire, a meno di non fare come la povera Eleanor che, per non poterne più, a soli 43 anni si è tolta la vita col veleno. Quando poi nella scena finale ho visto il suo ectoplasma, nei panni della disgraziata chiamata a interpretarla, la generosa Romola Garai, che regge da sola l'incombenza di questa solenne cagata, scatenarsi in una grottesca danza al suono di Dancing in the Dark di Bruce Springsteen, un altro che mi sta sui coglioni, giustamente deturpata in versione punk (l'unica cosa buona del film), mi sono vergognato per lei.