martedì 23 febbraio 2021

I Care a Lot

"I Care a Lot" di J. Blakeson. Con Rosamund Pike, Peter Dinklage, Eiza González, Dianne Wiest, Chris Messina, Damian Young e altri. Gran Bretagna 2020 ★★★

Il primo grande merito di questo film (in streaming su Amazon Prime), molto british per quanto ambientato negli USA, è di essere una spanna sopra le proposte medie di questo periodo cinematograficamente arido; commedia dark, con una buona dose di humor nero, ha come bersaglio il business is business, principio che sta alla base dell'American Way of Life, col suo corollario di "non c'è niente di personale" quando la preda azzanna il malcapitato senza la soccombenza del quale la salita al gradino superiore nella scala del successo non potrà verificarsi, come a dire che, come il pungere per lo scorpione, per l'uomo (o, in questo caso, la donna d'affari) la sopraffazione del prossimo fa parte della propria natura (in altre parole, la legge del Far West, versione aggiornata di quella della giungla e dello homo homini lupus), e questa, fatta passare come "principio di libertà", sarebbe il fondamento etico di quello che ci viene propinato come il migliore dei sistemi possibili. Insomma, tutto è lecito quel che si può far passare come tale, ed è quel che fa, approfittando degli spiragli lasciati da una legislazione che invita all'elusione dei principi che le stanno alla base e quindi al suo stesso aggiramento, Marla Grayson, algida, determinata, implacabile, fredda, astuta quanto odiosa quarantenne impersonata con grande bravura da Rosamund Pike, sempre a suo agio con questo tipo di personaggi ambigui e perfino repulsivi, che si dichiara fin dall'incipit una leonessa in un mondo di belve a caccia della preda, che per lei sono gli anziani di cui, con la complicità di una dottoressa compiacente che le segnala dei casi particolari e del direttore di una casa di riposo per benestanti, assume la tutela legale dopo averli fatti dichiarare incapaci di intendere e volere da un tribunale (presieduto in questo caso da un giudice idiota e ligio alle forme prima ancora che complice involontario). Lei "ci tiene a loro", e ci mancherebbe anche altro, dato che in cambio di qualche elargizione e della retta per il ricovero, ne assume il totale controllo, con accesso ai loro beni nonché conti correnti e cassette di sicurezza. Particolarmente ambiti sono coloro che non hanno parenti, e così una vera chicca, anzi: una ciliegia, appare Jennifer, la cui interpretazione in forma di camei è lasciata alla grandissima Dianne Wiest, un paio di occhiate della quale giustificano da sole la visione della pellicola, una settantenne ricca, indipendente e apparentemente priva di congiunti. Senza volerlo, però, questa volta ha truffato la persona sbagliata, perché la irreprensibile signora, nella cui cassetta di sicurezza Marla ha rinvenuto un sacchetto di diamanti nascosti in uno scomparto ricavato in un libro e non dichiarati per l'assicurazione, e quindi "inesistenti", del valore di qualche milione di dollari, non è chi sembra... Questa è la prima sorpresa, che innesca prima i tentativi di farla rilasciare dalla casa di riposo in cui è di fatto segregata, e poi la vendetta che si abbatte su Marla e la sua socia e compagna Fran, trasformando la commedia dai binari del legal movie a quelli del noir d'azione; la seconda nel finale, che chiude degnamente il film, a conforto della tesi, cara a Brecht,  che non esistono grandi fortune che non si fondino sul crimine. In tal caso non c'è che da sperare nella giustizia "proletaria", e non vi svelo se ci sarà o meno. Film ben girato, il terzo personaggio, quello che "ci tiene" a Jennifer,  è interpretato da Peter Dinklage, noto a livello planetario per il ruolo di Tyrion Lannister nella saga Il Trono di Spade,  ed è sempre un piacere vederlo disinvoltamente alle prese con la propria minuscola statura, che compensa con l'intelligenza dello sguardo. La mano di Blakeson è sicura, il film funziona, il cast scelto con attenzione. Mi fa piacere segnalarlo.

sabato 13 febbraio 2021

Stessa razza, stessa faccia

 


Un gioioso Carnevale e buon Sabato Grasso a tutti, tranne che ai milanesi e ai lombardi, che hanno già Letizia Brichetto Arnaboldi vedova Moratti e a cui tocca fra otto giorni

lunedì 8 febbraio 2021

Lezioni di persiano

"Lezioni di persiano" (Persian Lessons) di Vadim Perelman. Con Nahuel Pérez Biscayart, Lars Eidinger, Leonie Benesch, Jonas Nay, Alexander Beyer, Nico Erentheit, Giuseppe Schillaci e altri. Russia, Germania 2019 ★★★=

Proposto in streaming sulla piattaforma #iorestoinsala dal 14 al 17 gennaio e successivamente sbarcato su SKY, il film pare ispirarsi a una storia vera, cosa che non è da escludere anche se ritengo che Perelman, regista ucraino dai lodevoli precedenti, abbia ampiamente lavorato di metafora, se non di fantasia. Gilles, un giovane belga intercettato durante un rastrellamento mentre sta attraversando la Francia occupata durante la Seconda Guerra Mondiale, sfugge per caso a un'esecuzione spacciandosi per persiano, grazie a un libro che aveva ricevuto in cambio di un panino da un altro prigioniero; per puro caso un tenente delle SS, il responsabile delle cucine del campo in cui viene recluso, Klaus Koch (che guarda caso in tedesco significa, per l'appunto, cuoco), è da tempo alla ricerca di qualcuno in grado di insegnargli il farsi perché intende trasferirsi a Teheran, dove si è rifugiato il fratello, passando da Atene e da Istanbul, dopo la salita al potere di Hitler nel 1933, che ha promesso una ricompensa al soldato che gli scovasse il personaggio giusto. Gilles, che ignora il persiano, deve così ingegnarsi a inventarsi una lingua nuova, e lo fa creando i vocaboli, 4 al giorno (Koch vorrebbe imparante almeno quei 1500 basilari per essere in grado di farsi capire per poter aprire e gestire un ristorante): il problema è trovare un metodo per memorizzarli lui per primo, e lo fa traendo spunto dai cognomi dei reclusi, la cui lista deve tenere aggiornata perché, essendo preciso e avendo una bella calligrafia, Koch, che è un maniaco della precisione e dell'ordine, gli affida questo compito sostituendo una ausiliaria volontaria pasticciona e incapace. Il film racconta le peripezie di Gilles durante la sua prigionia, la vita (e la morte) nel campo, gli intrallazzi e le rivalità fra ufficiali e pure fra la truppa, e la pecca è un certo schematismo e caricaturalismo (la sensazione si accentua a causa del pessimo doppiaggio dei personaggi secondari), mentre la parte migliore rimane l'evolversi della relazione fra maestro e allievo, inversamente proporzionale in termini di potere dell'uno sull'altro, anche se le parti tendono a ribaltarsi col tempo perché Klaus si scopre essere un uomo profondamente fragile, che ha scelto di arruolarsi nelle SS (a differenza del fratello, che ha troncato ogni rapporto con lui) non per convinzione ma per rivalsa a compensare le frustrazioni di cui soffre: rimarrà fregato ma non svelo come, mentre la prodigiosa memoria di Gilles tornerà utile per rimediare almeno parzialmente alla distruzione degli archivi del campo da parte degli aguzzini, che li hanno bruciati prime dell'arrivo delle truppe liberatrici. La pellicola non è male, tutto sommato, anche se si nota qualche forzatura e ferraginosità; la parte migliore, l'interpretazione dei due protagonisti, lo stralunato attore argentino Nahuel Pérez Biscayart, che ha il fisico adatto al ruolo di Gilles, così come i tedeschi Lars Eidinger a quello dell'ufficiale e la brava Leonie Benesch a quello della volontaria intrallazzatrice, fregata anche lei dalla sua presunta furbizia. Si fa vedere però senza entusiasmare, insomma, ma di questi tempi tocca accontentarsi.

venerdì 5 febbraio 2021

Si muore solo da vivi

"Si muore solo da vivi" di Alberto Rizzi. Con Alessandro Roja, Alessandra Mastronardi, Neri Marcorè, Francesco Pannofino, Annalisa Bertolotti, Ugo Pagliai, Amanda Lear e altri. Italia 2020
 
★★★+
Felice esordio nel lungometraggio del drammaturgo e regista teatrale veronese Alberto Rizzi con un film lieve, fresco, molto padano, nel senso del Po e del suo tratto più vero, che parte da Pavia, secondo me esattamente dal Ponte della Becca, nel punto in cui vi affluisce il Ticino) dove  comincia un mondo a parte, quello lungo gli argini, sanguigno, terragno ma anche trasognato e magico, quello dove non a caso Guareschi aveva ambientato le vicende di Peppone e Don Camillo, che ha dato i natali a un Gran Lombardo come Gianni Brera, dove viveva e che aveva trasposto in parte nelle sue tele Antonio Ligabue, quello che ha ispirato un altro Ligabue, Luciano, e qui mi riferisco alla sua trilogia cinematografica senza tralasciare la dimensione musicale, che da queste parti ha la sua importanza, specie nel tratto emiliano. E  proprio qui è ambientata questa storia semplice, trasognata, che prende come punto di avvio il terremoto del 2012 che ha colpito soprattutto il Modenese, e scosso non solo la pianura che si estende ai lati del Grande Fiume ma anche la vita di Orlando (il convincente Alessandro Roja), ex frontman dei Cuore Aperto, una band "funky" un tempo di successo nella zona da lui fondata e anche sciolta, che vive senza arte né parte, incapace di tenersi un lavoro e lasciandosi andare all'inedia e al rimpianto dell'amore perduto di Chiara (Alessandra Mastronardi, che ha da gestire il personaggio forse più debole del film), la donna della sua vita, in una baracca vicino al Po: gli tocca tornare ad abitare nella casa dei genitori e occuparsi dell'undicenne nipotina Angelica (bravissima Annalisa Bertolotti), orfana dei genitori, che lavoravano in una latteria sociale che aveva subito un crollo. Nemmeno il doversi prendere la responsabilità della vispa ragazzina (che si mostra spesso più adulta di lui) lo scuote, finché sulla sua strada non ricompaiono prima Chiara, che però sta per sposarsi, e poi la vecchia manager della band, interpretata da un'ancora frizzante e spiritosa Amanda Lear, che lo convince a rimetterla insieme: perché un musicista può anche smettere di suonare ma non di essere tale. Il lieto fine è assicurato quanto prevedibile, vero, ma non è questo il punto, ma il come ci si arriva: attraverso una scrittura agile, che scorre senza intoppi, e grazie alla felice scelta di un cast bene amalgamato, capace di ritrarre con garbo dei personaggi tanto credibili in quell'ambito dall'apparire reali, mentre il tono favolistico è sottolineato dalla voce narrante, affidata al capitano della motonave Stradivari, che solca maestoso le acque del Po come fosse in Nilo, il Rio delle Amazzoni o il Mississippi, impersonato da Ugo Pagliai. Aria fresca, che ricorda piacevolmente le atmosfere evocate dai film del compianto  Carlo Mazzacurati. Su Amazon Prime.

lunedì 1 febbraio 2021

32 Trieste Film Festival / 4 - And the winner is...


Come volevasi dimostrare, il voto del pubblico ha premiato, tra i lungometraggi, Padre (Otac), del regista belgradese Srdan Golubović, mentre la giuria ha assegnato all'unanimità il Premio Trieste, ossia quello che conta come riconoscimento economico (un assegno di 5 mila euro), a L'inizio (Desatskisi) della georgiana Dea Kulumbegashvili, il film più estetizzante, cervellotico e pretenzioso dell'intero lotto, una vera martellata sui coglioni, giusto per confermare ancora una volta la siderale distanza tra la critica militonta e chi va al cinema pagando il biglietto (o l'abbonamento in streaming).