lunedì 15 giugno 2020

Dopo il matrimonio


"Dopo il matrimonio" (After the Wedding) di Bart Freundlich. Con Michelle Williams, Julianne Moore, Bill Crudup, Elisa Davis, Abby Quinn, Elisa Davis, Alex Esola e altri. USA 2019 💩
Primo film in sala dopo quasi tre mesi e mezzo e prima incazzatura: colpa mia che non mi ero avveduto che Freundlich, regista e sceneggiatore newyorkese specializzato in trame sentimentali e intrighi famigliari, aveva ripreso l'omonimo film uscito nel 2006 della sua degna collega danese Susanne Bier, una vecchia conoscenza il cui nome, se risultasse dai crediti, mi avrebbe messo in allarme rosso trattenendomi dallo spendere i soldi del biglietto: suo l'altrimenti memorabile Love Is All You Need che, se appartenesse al genere demenziale e non avesse aspirato a più alte ambizioni, sarebbe da considerarsi un capolavoro. Il titolo più adeguato a quest'altra solenne cagata avrebbe potuto essere Anche i ricchi piangono, perché il livello di questo psico-melodramma delle classi agiate è quello della celebre telenovela messicana. Una tipa (interpretata da Michelle Williams) che da anni si occupa di un orfanotrofio in India, dove funge da madre sostitutiva di Jai, un trovatello di strada, si reca controvoglia a New York a perorare la causa dell'istituto con la proprietaria di una società di pubblicità intenzionata a investire due milioni di dollari in beneficenza, che la ospita a sue spese nella suite di un albergo in centro: 90 metri quadrati l'appartamento, 60 il terrazzo, alla faccia dell'assistenza ai poveri del Terzo Mondo. Quello che la cooperante ignora è che l'altra (Julianne Moore, che essendo la moglie del regista è più esagitata del solito) sa tutto di lei, avendone sposato il vecchio amore, nonché causa della sua fuga in Oriente, con cui aveva avuto una figlia che avevano deciso di dare in adozione subito dopo la nascita: lo stolido artista concettuale nella cui parte è perfetto Bill Crudup, e la straricca donna in carriera, che si scoprirà essere malata terminale e che non ha comunicato a nessuno il suo destino, manipola cinicamente tutti quanti le stanno intorno decidendone il futuro e le relazioni reciproche dopo la sua dipartita. Centro della grande manovra è lo sfarzoso matrimonio della figlia, a cui viene invitata la malcapitata all'insaputa della vecchia fiamma, che aveva impalmato la riccona presentandosi come ragazzo-padre perché, alla fine, senza dire niente alla vera madre aveva preso la figlia con sé togliendola dall'adozione, grimaldello per intenerire la facoltosa mannagger titillandole l'istinto materno. E così i due ex amanti si ritrovano davanti a sorpresa, la tipa si scopre madre naturale, la figlia con due madri fra cui non sa chi scegliere, l'ebete di turno frastornato e incapace di prendere una qualsiasi decisione, la megera che si sente in diritto di porre e disporre a suo piacimento sotto il ricatto morale della sua morte imminente. Come se non bastassero le consuete ossessioni scandinave, il solito profluvio tutto a stelle e strisce di "va tutto bene/è tutto OK/andrà tutto bene" quando tutto sta andando a puttane; gente che dice "ti voglio bene" a figli, coniuge, fidanzato/a ogni volta che esce dalla porta di casa, fosse anche per portare fuori la spazzatura e rientrare due minuti dopo, i due milioni di dollari di donazione che diventano venti dopo che la megera ha venduto l'azienda ponendo però come condizione che la pseudo-rivale si ritrasferisca a New York per amministrare il capitale (e occuparsi della figlia scema e del marito idiota), il tutto tra fiumi di lacrime, colpi di scema, più che di scena, di una prevedibilità totale. Una sola la morale: anche i ricchi hanno un cuore, oltre ai quattrini e non occorre andare fino in India per occuparsi di disgrazie. Mi è venuto in mente il recente, esilarante intervento in cui tale Carlo Pavan (Lega) al consiglio comunale di Udine stigmatizzava la "discriminazione dei ricchi a favore dei poveri". Infine, una recitazione sommaria e una pochezza assoluta: penoso. Mille volte meglio una serie inTV. 

mercoledì 10 giugno 2020

Grazie a dio

"Grazie a Dio" (Grâce à dieu) di François Ozon. Con Melvil Poupad, Dénis Menochet, Swann Arlaud, Éric Caravaca, François Marthouret, Bernard Preynat, Josiane Balasko, François Chattot, Martine Erhel e altri. Francia 2019 ★★★★
Era impensabile che dopo il tonfo dell'improponibile Doppio amore François Ozon, uno dei migliori talenti del cinema europeo, non si sarebbe prontamente ripreso, e infatti rieccolo con un film piuttosto inconsueto rispetto a quelli, acuti e raffinatamente indagatori delle ambiguità della psiche umana, a cui ci ha (ben) abituati, alle prese con una vicenda che, pur accaduta in un tempo definito (benché prolungato) e in un luogo ben preciso (Lione e la sua diocesi) non si può ridurre a un mero fatto di cronaca ma coinvolge le responsabilità della gerarchia della chiesa cattolica nel suo complesso: la diffusione della pedofilia fra il suo clero. L'angolo di visuale scelto dal regista è però quello delle vittime degli abusi da parte di un ex sacerdote, Bernard Preynat (condannato a gennaio a 5 anni di carcere) quando, negli anni Ottanta e Novanta, erano ragazzini, in particolare tre personaggi: Alexandre, un cattolico praticante che nel 2016, venuto casualmente a conoscenza che il prete continuava ad avere contatti coi bambini, rivelando i fatti, caduti ormai in prescrizione, sperava di poter cambiare le cose dall'interno della chiesa smuovendola dall'immobilismo. Deluso, si mette in contatto con altri possibili testimoni per avviare un'azione legale: tra questi François, diventato ateo dopo aver subito le stesse angherie mentre era scout, ed Emmanuel, il più complesso e quello che più degli altri ha avuto la vita devastata dall'esperienza, ma anche il più giovane, per cui i delitti imputati a Preynat non erano ancora caduti in prescrizione. I tre danno vita a una associazione e a un sito, La parole libérée, per raccogliere più testimonianze possibili, il cui intento non è soltanto quello di sostenere l'azione legale o di mettere alle strette il cardinale di Lione Barbarin, che ha preferito sopire lo scandalo, ma anche se non soprattutto quello di consentire alle vittime di togliersi il macigno che portano dentro proprio attraverso il racconto degli abusi subito e il confronto con altri che hanno avuto le stesse esperienze e farli sentire meno soli, e Ozon segue, in modo rigoroso e cronologico, quasi documentaristico, il loro percorso, non mancando, però, di raccontare, con la consueta sottigliezza, i loro conflitti interni, le contraddizioni che si innescano con i diversi ambienti di provenienza, il tutto senza dare giudizi e con profonda umanità. Un film scarno, basato, per l'appunto, sulla parola; lineare, essenziale, pudico, che non infierisce nemmeno su Preynat, che ha sempre ammesso le proprie colpe considerandosi, però, un malato e, dunque, a sua volta, una vittima; e nemmeno sul cardinale e arcivescovo Barbarin, nel frattempo assolto dall'accusa di omissione di atti di ufficio ma le cui dimissioni sono state accettate dal Papa, cui durante una conferenza stampa era uscita l'infelice espressione che dà il titolo al film: "Grazie a Dio, i fatti a cui si fa riferimento sono tutti prescritti". Quel che si dice cinema civile.

martedì 2 giugno 2020

Beach Bum - Una vita in fumo

"Beach Bum - Una vita in fumo" (The Beach Bum) di Harmony Korine. Con Matthew McConaughey, Isla Fisher, Zac Efron, Martin Lawrence, Jonah Hill, Jimmy Buffett, Snoop Dogg, Stefania LaVie Owen e altri. USA 2019 
Un film che vorrebbe essere divertente, leggero, un inno alla libertà e all'anticonformismo, e quindi irriverente e invece, come tutta la cosiddetta cultura indie che ha infestato musica, cinema e letteratura di derivazione anglosassone dalla fine del decennio più idiota della storia recente, i "favolosi", rutilanti Ottanta, e di conseguenza il cervello dei modaioli che seguono l'onda con la convinzione di essere originali e controcorrente, si rivela banale, artefatto, inutilmente colorito e sgangherato, ripetitivo, palloso ma, soprattutto, profondamente stupido. E' la storia di Moondog, poeta un tempo di successo che non scrive una riga da anni limitandosi a declamare le sue vecchie rime tra un'orgia e un raduno ad alto tasso alcolico, in continuo sballo tra canne, coca, birra, giri in barca, puttane e amici, benvoluto da tutti anche perché sperpera patrimoni non suoi a Key West: può farlo perché glieli fornisce Minnie, la ricca moglie, ereditiera che abita a Miami. Dove a sua volta si dedica al libertinaggio più sfrenato, in questo in complice sintonia col coniuge. Tutto bene finché viene richiamato all'ordine per partecipare al matrimonio della figlia ventiduenne con un ragazzotto banale ma affidabile e quindi, secondo il suocero, un "cazzomoscio" (ha ha, che ridere...). Dopo la cerimonia, che Moondog ha ovviamente provveduto a movimentare con le sue derive, più senili che da autentico freak, mentre si fa scarrozzare sulla fuoriserie verde pisello da Minnie per un ultimo bicchiere della staffa, vanno a sbattere e la moglie ci rimane secca. Viene aperto il testamento e si scopre che gli ha lasciato tutto il patrimonio ma a una condizione: che metta la testa a posto non per cambiare vita, ma quel tanto che gli consenta di pubblicare di nuovo un libro. Conoscendo la mentalità americana uno si aspetta che sia il momento della svolta, che l'uomo diventi improvvisamente virtuoso e riprenda la retta via e invece no, Moondog persevera, innescando una sequenza di avventure sempre più improbabili per recuperare il malloppo e, quando riesce nello scopo, lo sperpererà ancora una volta in un esplosivo finale. Fuochi d'artificio e fine delle trasmissioni. Inno a un vitalismo senza scopo e fuori dal tempo, come questo improbabile epigono della Beat Generation trasportato nel secondo decennio del Duemila, della pellicola si salvano parzialmente la colonna sonora, alcune battute e trovate grottesche ma, messe insieme, talmente forzate e ripetitive da venire a noia dopo un quarto d'ora, il che per un film del genere è la morte. McConaughey è pateticamente sopra le righe, anche se il suo personaggio è vagamente imparentato con quello che aveva interpretato in Dallas Buyers Club; degli altri è meglio tacere perché sotto il minimo sindacale, per non parlare del regista e sceneggiatore di questa vaccata. Penoso.