mercoledì 29 settembre 2021

Dune

"Dune" di Denis Villeneuve. Con Timothée Chalamet, Rebecca Ferguson, Oscar Isaac, Josh Brolin, Stellan Skarsgård, Dave Bautista, Stephen McKinley Henderson, Zendaya, Chen Chang, Charlotte Rampling, Jason Mamoa, Sharon Duncan Brewster, Javier Bardem e altri. USA 2021 ★★★★

In genere non impazzisco per le pellicole fantasy, al di là che, se ben fatte,  vengono buone per distrarsi per qualche ora, ma qui siamo già più nel campo della fantascienza, ancora più difficile da affrontare, ma quando a cimentarsi è chiamato Denis Villeneuve, che già si era validamente messo alla prova nel genere con Arrival e, niente meno, con Blade Runner 2049, il coraggioso sequel del capolavoro di Ridley Scott, è molto difficile rimanere delusi. Il regista franco- canadese difficilmente sbaglia il colpo e con Dune, tratto fedelmente dal romanzo di Frank Herbert (prima parte: certamente ce ne sarà almeno una seconda) confeziona una pellicola possente, suggestiva, con uno sviluppo coerente, equilibrato, con una magnifica fotografia, effetti speciali sì ma mai ridondanti e ridicoli: quando la tecnologia viene usata non tanto per sorprendere quanto per fare entrare lo spettatore dentro alla dimensione della vicenda coinvolgendolo anziché stupirlo e, tutto sommato, respingerlo. Ci si trova immersi nel racconto, una lotta fra dinastie in una società neo-feudale immaginata nell'Undicesimo millennio, innescata dall'imperatore Shaddam che, allo scopo ultimo di indebolire gli Atreides, li costringe ad abbandonare la propria base per trasferirsi ad Arrakis (anche chiamato Dune), un pianeta desertico, unico luogo in cui ò viene prodotta la Spezia, l'elemento più importante per la sopravvivenza dell'intera umanità, finora governato dagli Harkonnen con un brutale sistema pressoché schiavistico. Che il nuovo reggente, il Duca Leto (Oscar Isaac), intende smontare e anzi trovare un accordo con i Fremen, gli indigeni locali, che per molti aspetti ricordano i tuareg del Sahara. La congiura riuscirà perché verrà tradito e sconfitto dagli Harkonnen aiutati dalle truppe scelte imperiali, ma riusciranno a salvarsi il figlio Paul (Timothée Chalamet) e Lady Jessica (Rebecca Ferguson), sua madre, che fa parte della Sorellanza stregonesca delle Bene Gesserit che si tramanda particolari poteri telepatici e psicologici in linea femminile nell'attesa di travasarli in un individuo di sesso maschile, che per l'appunto pare essere Paul. Anche i Fremen, tra cui verranno accolti dopo che Paul avrà superato una prova decisiva, sono in attesa da millenni dell'arrivo del Messia... E siamo pronti per la prossima puntata della saga! Il cast è azzeccatissimo, a cominciare dalla scelta di Timothée Chalamet nella parte del personaggio principale, vagamente ambiguo, proprio perché non particolarmente simpatico: esprime perfettamente un adolescente in formazione, con tutti i dubbi sulla sua identità e il suo ruolo, e di Rebecca Ferguson nei panni di una madre algida sì, ma nevrotica il giusto, consapevole com'è delle responsabilità che graveranno sul figlio in quanto probabile erede delle sue particolari facoltà. Raccomando soltanto di andare a gustarvelo in una sala dotata di un impianto sonoro degno di buon livello.  

sabato 25 settembre 2021

Il matrimonio di Rosa

"Il matrimonio di Rosa" (La boda de Rosa) di Icíar Bollaín. Con Candela Peña, Sergi López, Nathalie Poza, Ramón Barea, Paula Usero e altri. Spagna, Francia 2020 ★★=

Rosa ha quasi 45 anni, vive a Valencia e fa la costumista per una casa di produzione cinematografica: un lavoro stressante, fra aiuto registi isterici e comparse inebetite, ma non è niente rispetto a una situazione famigliare fuori controllo, fra un padre vedovo che vuole accasarsi da lei; un fratello inattendibile in rotta con la moglie che le delega la cura dei due figli; una figlia che ha avuto due gemelli e si è trasferita a Manchester; dove le cose non funzionano come aveva sperato; una sorella interprete che viene licenziata senza liquidazione per alcolismo e nessuno di questa banda di squinternati che tenga vagamente presente le sue esigenze, dando per scontata la sua disponibilità, perché lei è la figlia favorita, la migliore, la più affidabile. Un malinteso che nasce anche se non soprattutto dalla sua incapacità di dire no e di farsi ascoltare da persone che, peraltro, sono abituate a farsi domande dandosi al contempo le risposte da soli. Finché non ne può più, "scoppia", e li pianta in asso, mollando d'un colpo lavoro, l'appartamento semifatiscente in cui le tocca vivere (e dove la sua solitudine viene minacciata), la grande città e torna nella natìa Benicàssim, sulla strada costiera per Barcellona, dove decide di riaprire e riavviare la vecchia sartoria della madre, chiusa dalla sua scomparsa, due anni prima, e decide di convocare la famiglia tutta per delle nozze speciali: con sé stessa. Che si tratti di un "automatrimonio" i parenti serpenti verranno a saperlo soltanto all'ultimo, dopo aver perfino organizzato una cerimonia a tutti gli effetti in municipio, con tanto presenza della banda e un buffet, che invece Rosa vorrà celebrare sulla spiaggia della Caleta, in occasione della quale tutti i presenti ascolteranno finalmente sul serio le sue parole e, quindi, i suoi desideri. Tutto qui. L'idea era anche simpatica e originale, ma il risultato mi ha ricordato le commediole italiane anni Settanta, cosa smentita solo dalla presenza dei cellulari, dei relativi Whatsapp che comparivano sullo schermo e dei computer con le videochiamate su Skype, mentre da un film spagnolo con un argomento del genere mi sarei aspettato la giusta dose di sarcasmo, irriverenza e imprevedibilità, mentre qui tutto è risaputo fin dall'inizio, scontato come la presenza di Rosa per i suoi famigliari, tutti felicemente riuniti e ravveduti all'ultimo momento. Leggerino, troppo, e per fortuna sotto i 100' di durata. Non ci siamo, nonostante l'impegno degli interpreti: peccato.

domenica 19 settembre 2021

Corto circuito


Faccio mie le considerazioni di Nicola Forcignanò, vecchia conoscenza ed ex corrierista, giornalista di lungo corso e mente libera e ormai lontano, anche geograficamente, dalle miserie di quella un tempo onorevole professione, sulle recenti esternazioni di Barbara Palombelli, che possono sorprendere soltanto chi non è consapevole dei meccanismi delle attuali forme di comunicazione, e quindi è pronto a cadere nella rete di quella che è pura e semplice pubblicità travestita da informazione, con la complicità di chi dovrebbe proporne una corretta e professionale: 
Barbara Palombelli e Michela Murgia, due donne sicuramente non stupide che dicono volutamente cose stupide. Per stupire e guadagnare di più, in ascolti e soldi. La chiave di lettura è tutta qui. Facile facile. Il grande circo mediatico ha fame di polemica, della quale si nutre per rimanere in vita. La regola è scatenare discussioni, provocare valanghe di insulti, generare se occorre perfino odio. Questa è l'alternativa a pensieri profondi. La soluzione è abbassare il livello, posizionare l'asticella più in basso, se nessuno è in grado di far volare in alto idee che possano aiutare a capire i fatti del mondo, che possano fornire nuove e sorprendenti chiavi di lettura della nostra società. E promuovere sul campo a pensatori/pensatrici personaggi che non hanno i requisiti fondamentali per interpretare il difficile ruolo di pensatore/pensatrice non può portare ad altro che a questo: studiare a tavolino frasi ad effetto da gettare come petardi di Capodanno nel circo mediatico. E, poi, come diceva Jannacci, stare a vedere l'effetto che fa. A nessuno può venire di getto che in un Paese democratico davanti a un'uniforme non si sente sicuro (Murgia) o che le vittime di femminicidio hanno peccato di aggressività (Palombelli). No, queste sono bestialità programmate, studiate per far parlare di sé e di un programma televisivo che in assenza di una polemica non avrebbe un perché per diventare il fatto del giorno. E rendere più popolari e discusse due donne che finora non avevano dimostrato altre qualità per essere al centro dell'attenzione. Di mio aggiungo che, tra carta stampata, TV e social network, il circolo vizioso è completo. Già negli anni Settanta Montanelli, che pure era un personaggio che bucava il video, ammoniva i colleghi della carta stampata sull'errore suicida dei giornali di fare da megafono alla TV, il loro nemico mortale, mettendo all'ordine del giorno quel che vi accadeva, amplificandone la portata, invece di passare alla controffensiva puntando, anziché sull'immediatezza, terreno sul quale non avrebbe avuto senso mettersi in competizione, sull'approfondimento, la qualità e il confronto: profeta inascoltato, con l'avvento della televisione commerciale e, in Italia, di Berlusconi e del suo impero mediatico-pubblicitario, di cui lo stesso Montanelli fu una delle vittime più illustri, le sue previsioni si avverarono e la merdificazione dell'informazione proseguì inarrestabile. Poi sono arrivati i cosiddetti social che, dietro la parvenza di strumenti di libera ed egualitaria espressione di pensiero, sono divenuti il più recente mezzo di controllo, sfogo e rincoglionimento generalizzato, palestra ideale per dare sfogo agli umori più repressi delle masse, e cosa fanno a loro volta le TV e le radio, oltre a quel poco che rimane della carta stampata? Li assumono come fonte primaria delle proprie notizie, perché è lì, disponibile a tutti, il terreno "reale" in cui si tasta il polso della situazione. Geniale: il cane che si morde la coda. Questo lo stato dell'arte.

venerdì 17 settembre 2021

Qui rido io

"Qui rido io" di Mario Martone. Con Toni Servillo, Maria Nazionale, Gianfelice Imparato, Cristina Dell'Anna, Antonia Truppo, Eduardo Scarpetta (II), Roberto De Francesco, Lino Musella, Marzia Onorato, Paolo Pierobon, Iaia Forte, Chiara Baffi, Gigio Mora, Benedetto Casillo, Francesco Di Leva, Giovanni Laudeno, Nello Mascia e altri. Italia, Spagna 2021 ★★★★★

Un film bellissimo, o meglio un romanzo teatrale e famigliare su Eduardo Scarpetta e la sua dinastia, che comprende i fratelli De Filippo, figli della cugina della moglie Rosa, e i loro discendenti, completamente ignorato dalla giuria dell'ultimo Festival di Venezia. Se si vanno a leggere i nomi dei suoi componenti si comprende subito il perché: non erano in grado di capirlo, nemmeno coi sottotitoli. E difficilmente il film avrà successo fuori dai nostri confini, ma meriterebbe di essere degnamente apprezzato in tutta Italia: me lo auguro di cuore. Regista e sceneggiatore, Mario Martone è uomo di teatro prima che di cinema, e mai ho visto trasporre quel mondo, ciò che avviene sulla scena ma anche se non soprattutto dietro le quinte, e la commistione fra realtà e finzione che ne è la sostanza, in maniera più felice ed efficace sullo schermo, merito anche della straordinaria interpretazione di Toni Servillo, prim'attore nel ruolo di quell'altro prim'attore e capocomico che ha creato il teatro dialettale moderno e non solo quello napoletano, sul finire del XIX Secolo e gli inizi del ventesimo, e di un intero cast in stato di grazia senza alcuna eccezione, e tutto impregnato dalla polvere di palcoscenico. Qui rido io, che prende il titolo dalla scritta incisa sulla facciata di La Santarella, villa liberty che Scarpetta si fece costruire sulla collina del Vomero che era la sontuosa tana di tutta la tribù Scarpetta-De Filippo, una famiglia allargata ante litteram diretta da una sorta di padre-padrone dalla personalità dirompente e complessa, ma in cui è ben presente e protagonista anche tutta la parte femminile, racconta gli anni dell'apice del successo dell'inventore di Felice Scosciammocca, la maschera-senza maschera che in qualche modo ha anticipato perfino Charlot oltre che ispirato Totò, che non irrideva più la nobiltà come il teatro tradizionale napoletano bensì la piccola borghesia, dalla quale lo stesso Scarpetta, figlio di un funzionario statale, proveniva, fino all'inizio del suo declino, iniziato non solo con la comparsa del cinema, ma soprattutto con una causa intentatagli da Gabriele D'Annunzio (Paolo Pierobon sullo schermo; l'unico foresto della compagnia...) per interposta Società degli Autori, con l'incauta quanto stupida accusa di aver plagiato La figlia di Iorio con la sua farsa Il figlio di Iorio, di fatto un processo alla libertà di parodia (che non è contraffazione), e quindi di espressione, da parte dei cultori del Vate come Di Giacomo e Bracco, fautori di un Teatro d'Arte in cui fosse protagonista, a loro dire, il "vero popolo", partendo però, guarda caso, da premesse puramente letterarie e paternalistiche, causa che il querelato vinse, contrariamente alle aspettative generali, sostenuto nientemeno che da Benedetto Croce, portando a sua volta il teatro nell'aula del tribunale con un'autodifesa puntigliosa quanto esilarante. Famiglia e teatro sono tutt'uno nel film di Martone, che racconta anche un periodo di particolare fermento, e non solo culturale, nella storia del Paese, anche per ciò che si stava preparando: l'entrata di guerra, perorata da fanatici come lo stesso D'Annunzio, e l'avvento del fascismo, espressione piccolo borghese quanto poche altre, a cui il Vate, l'esempio più tipico della retorica più sfrenata e del fanfaronismo all'italiana, fornì buona parte dell'armamentario di "frasi celebri" utilizzate poi da un altro tragico pagliaccio, Benito Mussolini, un personaggio tanto egolatra e propenso al gesto esemplare quanto ridicolo e inconcludente nel mettere poi in pratica le sue pretese idee, aspetto che Scarpetta aveva immediatamente colto, ironizzando sul fatto che nascondesse il proprio vero cognome, Rapagnetta. A corollario di un film girato magistralmente, con un buon ritmo, una ricostruzione d'ambiente esemplare e un commento musicale all'altezza: per me una delle cose migliori viste al cinema da anni. 

martedì 14 settembre 2021

Welcome Venice

"Welcome Venice" di Andrea Segre. Con Paolo Pierobon, Andrea Pennacchi, Roberto Citran, Sara Lazzaro, Giuliana Musso, Anna Bellato, Sandra Toffolatti, Stefano Scandaletti e altri. Italia 2021 ★★★★½

C'erano Paolo Pierobon, Sara Lazzaro, Giuliana Musso (di casa in città) ad accompagnare sabato sera Andrea Segre al Visionario di Udine in occasione della presentazione del lungometraggio di finzione che chiude, per ora, il suo ciclo lagunare, e che è stato ideato nel corso del forzato soggiorno veneziano sull'isola della Giudecca durante il lockdodwn della primavera del 2020, quando aveva realizzato quel piccolo capolavoro che è Molecole, e girato in quella di quest'anno, nel corso di quello "parziale", proiettato fuori concorso al Festival di Venezia e accolto con grande favore dal pubblico. E lo merita in pieno. Di finzione per modo di dire, perché la vicenda è quanto mai verosimile e vede coinvolti tre fratelli giudecchini, Antonio, Pietro e Alvise, e la casa di famiglia sull'isola, abitata dal solo Pietro (Pierobon) che, dopo un soggiorno nelle patrie galere, ha appreso dal primo (Citran) l'arte di pescare le moeche, il tipici granchi lagunari così chiamati nel periodo di muta, in primavera e in autunno, quando perdono il carapace, una leccornia gastronomica che ha pochi uguali al mondo. La morte accidentale di Antonio, il più anziano, durante un'escursione nelle barene di fronte all'isola, e le ristrettezze economiche in cui versa la moglie (Ottavia Piccolo), che deve anche mantenere un figlio all'università di Roma, solletica l'avidità dell'untuoso Alvise (Pennacchi), che già si occupa di affittare appartamenti ai visitatori, che vede nella riconversione della casa una grande opportunità in occasione della ripartenza (quante volte questa parole ha trapanato i nostri timpani in quest'ultimo anno?) in grande stile dell'osceno circo turistico che ha sfregiato Venezia come tante altre città italiane e non solo, ma che in Laguna ha degli effetti più devastanti che altrove, e questo con la compiacente complicità dei sui residui abitanti per non parlare di quelli che si sono trasferiti nell'immediato entroterra che vengono a fare le comparse (e gli affari) durante il giorno. In collaborazione con la figlia e con il fidanzato di questa, giovane immobiliarista coadiuvato da un giovane bocconiano di Corsico (Milano), degno allievo di finanzieri come i due Mario, Monti e Draghi, che hanno portato il Paese alla miseria economica, morale e senza prospettive in cui si trova, Alvise compra (indebitandosi) la parte del fratello scomparso costringendo di fatto, dopo una serie di litigi e d investimenti azzardati, Pietro a mollare il colpo e trasferirsi a Mestre. L'idea è quella di  offrire al turista, in cerca di quell'autenticità andata distrutta dalla globalizzazione nel suo Paese, Venezia con le sue roots più profonde e veraci, "vendere delle esperienze", per esempio quella della pesca dei gransi in barena, cosa per cui tornerà utile lo stesso Pietro, quindi non solo quella di vivere in una genuina casa di famiglia, arredata peraltro pacchianamente con mobili stile Ikea e strasse da bancarella, tra cui spicca la raccapricciante riproduzione di un ferro de gondola (rostro) in finto vetro di Murano retroilluminato, ma alla prima visita il magliaro e i malcapitati ospiti avranno una sorpresa... Raccontando con garbata ironia una storia gradevole, lineare, credibile, e avvalendosi di uno splendido cast di interpreti tutti nati entro il raggio di qualche decina di chilometri dal capoluogo veneto, Segre continua la sua riflessione sul destino della città e dei suoi residui abitanti, la cui capacità di resistenza è sempre più minata da interessi "superiori", quali la ripresa di un turismo da rapina, il quale a sua volta sta mostrando la corda: perché se anche si riuscisse a "riqualificarlo", limitando le orde di quelli "mordi e fuggi" scaricati quotidianamente da centinaia treni, torpedoni e dalle oscene navi da crociera, anche a quello di livello più alto sarà arduo propinare quell'autenticità che si vuole vendere come esperienza, perché di "vero" non sarà rimasto più nulla. A parte le moeche, che però tra un po' nessuno sarà capace di pescare. 

domenica 12 settembre 2021

La ragazza di Stillwater

"La ragazza di Stillwater" (Stillwater) di Tom McCarthy. Con Matt Damon, Camille Cottin, Abigail Breslin, Deanna Dunagan, Robert Peters, Moussa Maaskri e altri. USA 2021 ★★★½

Attore, sceneggiatore e regista poco prolifico ma in compenso di ottimo livello (suo l'esemplare Il caso Spotlight del 2015), a Tom McCarthy va il grande merito di raccontare una storia, che chiaramente prende spunto dall'annosa vicenda di Amanda Kno, che aveva scatenato il giornalismo pruriginoso e annusapatte nazionale e non per un periodo interminabile, senza trarne un legal thriller dal punto di vista americano ma anzi, utilizzandone alcuni stilemi e procedendo a metà fra il film d'azione e il giallo, per centrare il racconto sul senso di spaesamento e di inadeguatezza dei suoi personaggi principali, a cominciare da quello di Bill Baker (Matt Damon, misurato, ineccepibile), operaio petrolifero dell'Oklahoma, insomma gli USA più profondi, che si arrabatta tra lavori precari, un passato turbolento, una moglie suicida, un padre assente, il quale si reca a Marsiglia, una delle città più multietniche dell'intero Mediterraneo, dove da 5 anni la figlia Allison sta scontando una pena a 9 per l'omicidio di Lina, sua amante e convivente, per cercare di riportarla a casa e, soprattutto, recuperare un rapporto con lei. I due mondi, quello da cui proviene e quello in cui deve operare lo zotico e taciturno Bill non potrebbero essere più diversi, come pure i rapporti umani e i sistemi giudiziari, sbrigativo e grossolano uno, burocratico e garantista l'altro, per non parlare delle difficoltà linguistiche: ad aiutarlo a inserirsi nella realtà locale l'incontro casuale con Virginie (sempre un piacere rivedere in azione la bravissima Camille Cottin), un'attrice di teatro d'avanguardia, e sua figlia Maya, una bambina sveglia e sensibile, con la quale instaura un rapporto di affetto filiale profondo e proficuo, anche per ricucire quello con Allison, segnata come il padre da un destino che pare ineluttabile di mettersi nei guai cedendo all'impulso di un carattere poco strutturato. La vicenda si dipana tra la caccia a un personaggio, un giovane di origine maghrebina, che pare fosse presente sulla scena del delitto e mai convolto nelle indagini ufficiali, che potrebbe dare adito alla riapertura del caso, che Bill intraprende nonostante gli ostacoli linguistici, le omertà di ambienti ostili, gli intralci posti dalla polizia e dai legali; i colloqui con la figlia e le sue rare giornate di permesso; lo svilupparsi del rapporto con Camille e con Maya, presso le quali va a vivere in in cambio di una pigione e di lavoretti in casa dopo aver deciso di restare in Provenza, dove si è messo a lavorare come muratore a giornata. Pregio del regista quello  di non indugiare su una Marsiglia da cartolina, e di non banalizzare la contrapposizione fra mentalità così diverse trasformandola in macchietta; tenere sulle spine lo spettatore con qualche colpo di scena azzeccato, seppur tirandola un po' troppo per le lunghe e trovare un esito abbastanza plausibile alla vicenda della ragazza e senza enfatizzare in senso trionfalistico il suo ritorno in patria. Anzi: la cerimonia di accoglienza dei Baker padre e figlia da parte delle autorità dell'Oklahoma è volutamente resa in modo imbarazzante e, una volta ristabilitisi a Stillwater, la loro cittadina d'origine, sarà la sensazione di vuoto e di sradicamento ad assalire entrambi, coscienti di avere lascito qualcosa di importante, là in Francia, nonostante tutto: il rapporto con gli altri e, quindi, con sé stessi. 

venerdì 10 settembre 2021

Il collezionista di carte

 

"Il collezionista di carte" (The Card Counter) di Paul Schrader. Con Oscar Isaac, Tiffany Haddish, Tye Sheridan, Willem Defoe, Ekaterina Baker, Marlon Hayes, Billy Slaughter, Joel Michaeli, Judy Baufort, Alexander Babara e altri. USA, GB, Cina 2021 ★★★★½

Da Paul Schrader, regista e soprattutto sceneggiatore (Taxi Driver per tutti), da sempre  collaboratore di Martin Scorsese, qui nelle vesti di produttore, era lecito aspettarsi un filmone e così è stato: una pellicola ad alta tensione emotiva, centrata su un personaggio, William Tell (come l'eroe nazionale elvetico), solitario, enigmatico, che ha trascorso 10 anni in prigione dove ha avuto tutto il tempo, oltre dedicarsi alla lettura delle Memorie di Marco Aurelio, per imparare a contare le carte (il titolo italiano, al solito, è idiota e fuorviante), bagaglio essenziale per diventare un giocatore professionista una volta scontata la pena, girando per piccoli casinò accontentandosi di piccole vincite per non farsi notare e sbattere fuori e vivendo in motel di uguale squallore, dove si dedica a rituali ossessivi che sanno di purificazione e alla stesura di un  accurato diario. Il suo passato (la prigione era militare e lui a sua volta uno degli addetti alle carceri di Abu Ghraib e Guantanamo, luoghi di tortura non solo psicologica, tra le maggiori vergogne di cui si sono coperti gli USA negli ultimi vent'anni e per la cui denuncia perseguitano tuttora Julian Assange ed Edward Snowden) e i motivi dei suoi comportamenti alquanto sociopatici vengono svelati man mano, dopo l'incontro, non casuale, con Cirk a una conferenza sulla sicurezza tenuta dall'ex ufficiale che l'aveva istruito (ma senza pagare, come William e il padre del ragazzo, suicidatosi, il conto con la giustizia) e quello successivo con La Linda, alla caccia di giocatori d'azzardo da inserire nella sua "scuderia" e in grado di trovargli dei finanziatori per mettersi nel "grande giro": William accetta, ma lo scopo non è il denaro in sé, bensì soltanto un mezzo per mettere fine al suo senso di colpa e redimersi, aiutando Cirk ad abbandonare il suo desiderio di vendetta e riconciliarsi con la madre. Si andrà a un pelo dallo happy end, che però in un film di Shrader non può esistere sic et simpliciter, però il finale sarà comunque, oltre che sorprendente, consolatorio, almeno per un senso di giustizia generale e per la buona coscienza del personaggio principale. Interpretato con grande intensità, nella sua fissità talvolta inespressiva, dal bravissimo Oscar Isaac, così come quelli non secondari di La Linda e Cirk rispettivamente da Tiffany Haddish, perfettamente a suo agio anche in un ruolo non comico, e da Tye Sheridan. Ambienti posticci, solo un paio di volte squarciati da lampi di crudo realismo nei flash back che rivanno ai campi di prigionia e tortura, atmosfere stranianti, alla Edward Hopper, non luoghi, luci livide, una colonna sonora magistrale (Geoff Barrow dei Portishead), fanno de Il collezionista di carte un film notevole, suggestivo, da non perdere. 

mercoledì 8 settembre 2021

Mondocane

"Mondocane" di Alessandro Celli. Con Dennis Protopapa, Giuliano Soprano, Alessandro Borghi, Barbara Ronchi, Ludovica Nasti, Federica Torchetti, Josafat Vagni e altri. Italia 2021 ★★★½

Lungometraggio d'esordio per Alessandro Celli, finora autore di corti e lavori televisivi di successo, con un film inconsueto nel panorama nostrano e prodotto, non a caso, da Matteo Rovere, regista a sua volta, che nelle sue due vesti professionali ha sicuramente introdotto nuova linfa nell'esausto cinema italiano, affrontando temi non banali, mischiando generi e strumenti narrativi diversi nonché ciò che di meglio fornisce la tecnologia in termini di realizzazione, sprovincializzandolo e adeguandolo al gusto internazionale e, soprattutto, delle generazioni più giovani: mi riferisco alla trilogia iniziata con Smetto quando voglio, a Il campione fino al recente Rose Island in veste di produttore e a Veloce come il vento e Il primo re in quella di regista. Come spesso capita ai film etichettati come distopici, e in questo caso appartentente al "genere" post-apocalittico e proto-cyberpunk, qualsiasi cosa vogliano significare queste definizioni, Mondocane rappresenta uno sviluppo più che plausibile (e in parte già in gestazione) di una situazione ben concreta e reale (e puntualmente rimossa) come le acciaierie ex Ilva di Taranto, immanenti sullo schermo, sfavillanti di luci malate nell'atmosfera spesso tenebrosa di questa pellicola, una parte della città che si ipotizza essere stata evacuata in seguito alle letali esalazioni che per anni hanno avvelenato la zona senza che alcuno muovesse un dito. Nella zona di esclusione, come Chernobyl è diventata terreno di caccia di squadre di stalker, si muove un'umanità disperata, senza futuro, composta da gang che lottano per il controllo del territorio fra cui furoreggia quella delle Formiche, una sorta di mega famiglia formata da ragazzini e guidata da un giovane adulto, Testacalda, interpretata da un "cattivo  per eccellenza" come Alessandro Borghi; ad entrare a farne parte è chiamato Christian, che come "prova" d'ammissione aveva incendiato un negozio per animali chiamato per l'appunto Mondocane, da cui titolo del film e soprannome del protagonista, il quale accetta di entrare nel sodalizio soltanto se ne farà parte anche Pietro, il coetaneo con cui vive alla corte, si fa per dire, di un vecchio pescatore che li ha "adottati", in realtà utilizzandoli come bassa manovalanza nella pesca delle cozze. In un primo tempo Pietro, chiamato Pisciasotto a causa delle perdite che ha durante frequenti crisi di epilessia, viene rifiutato proprio in quanto malato: in seguito si rivelerà lui il più fedele a Testacalda nonché un irrinuncialbile tiratore scelto e sarà lui incaricato di giustiziare l'amico, rivelatosi troppo fragile davanti alla prova del fuoco, ossia l'omicidio a sangue freddo. Sarà una lotta senza quartiere con le forze di polizia di una improbabile e del tutto posticcia Nuova Taranto, una sorta di città ideale dove sono stati trasferiti i più abbienti, dove a volte i due amici si avventurano a nuoto, correndo il rischio di essere scoperti: li riconosce infatti una ragazzina originaria pure di Tamburi, evacuata e costretta a lavorare nella nuova città, che promette di non tradirli se la porteranno al cimitero nella zona interdetta dove sono sepolti i suoi genitori. Si intrecciano così le alterne vicende dell'amicizia dei due ragazzini, quelle di una poliziotta (pure lei originaria di Tamburi), la brava e mai abbastanza utilizzata Barbara Ronchi, che cerca di individuare l'esatta posizione del Formicaio, la parabola di Testacalda, il guru e padre-padrone delle Formiche; l'amore adolescenziale; le modalità del film d'azione, del noir, del dramma, sostenuti da una fotografia eccellente. Bravissimi i due interpreti bambini, e riuscirci a lavorarci per un regista è indice di grandi capacità. Bene la prima, dunque, sperando di rivederlo presto all'opera.

venerdì 3 settembre 2021

Il gioco del destino e della fantasia

"Il gioco del destino e della fantasia" (Gozo to soso - Wheel of Fortune and Fantasy) di Ryûsuke Hamaguchi. Con Kotone Furokawa, Fusako Urabe, Ayumo Nakajima, Hyunri, Mori Katsuki, Kai Shouma, Kawai Aoba. Giappone 2021 ★★★★

Film raffinato, lieve, tutto o quasi al femminile, basato sul piacere del narrare e sulla casualità che domina gli incontri e, alla fine, sui rapporti umani e, al tempo stesso, l'occasione per lo spettatore occidentale di gettare un'occhiata sulla realtà giapponese e, in particolare, sul ruolo della donna in quella società, intrisa di una cultura così diversa dalla nostra ma altrettanto condizionata e resa traballante dalla dipendenza da tecnologie sempre più invasive e disumanizzanti. Tre sono gli episodi in cui è suddiviso il lungometraggio: nel primo, dopo uno shooting fotografico, due modelle e amiche si trovano su un taxi e una confida all'altra di aver trascorso un'intera giornata con un giovane imprenditore con cui è probabilmente scoccata la scintilla e che le ha confessato che quelle passate insieme sono state le più belle ore della sua vita, in particolare dalla fine della sua relazione più importante. Peccato di tratti proprio dell'ex fidanzato della ragazza che, per tutto il tempo, era rimasta ascoltando, partecipe e complice, alla nascita di un nuovo amore la quale, rimasta sola, lo raggiunge per mettere nuovamente alla prova i sentimenti di entrambi. Nel secondo una studentessa, già madre, si fa convincere dal suo più giovane amante a farsi strumento di una vendetta architettata da quest'ultimo nei confronti di un professore di francese, appena reduce dall'aver ricevuto un prestigioso premio letterario per un romanzo in parte autobiografico, che gli avrebbe rovinato la carriera universitaria: la donna si reca nel suo studio, che il docente vuole, a scanso di equivoci, rigorosamente con la porta aperta, e cerca di intortarlo leggendogli (e registrando il tutto) le parti più erotiche del suo libro, ma finisce per confessargli il tranello dopo la piega sincera che ha preso il loro colloquio. Nell'ultimo episodio una donna ritorna nella città natale, Sendai, per partecipare a un ritrovo di ex liceali con la speranza di incontrare la ragazza che è stata il suo primo, indimenticato amore: il regista ipotizza (siamo pur sempre in epoca di pandemia globale) che un virus informatico abbia fatto tornare la comunicazione all'epoca delle lettere e della parola. L'ex compagna di scuola non era tra i presenti ma, tornando alla stazione per rientrare a Tokio, dove vive, la protagonista crede di riconoscerla in una donna coetanea che incrocia casualmente sulle scale mobili: entrambe cadono nell'equivoco ma, anche dopo che sarà stato chiarito, già si è instaurato fra loro un rapporto di complice e sincera amicizia, come se davvero si fossero conosciute e state intime amiche vent'anni prima. Un racconto garbato, dicevo, mai lezioso, a tratti ironico nonostante alcuni momenti drammatici e tesi; realistico per quanto avvolto in un'atmosfera a momenti trasognata e atemporale ma al contempo assai concreta e realistica; molti elementi simbolici, fra un'inquadratura e l'altra, mai casuali ma senza cadere nella citazione pedante e fastidiosa. Tre novelle contemporanee che fanno un bel film, girato con bravura e senza bisogno di alcun effetto speciale: bastano le sei bravissime interpreti, quelli maschili sono puramente di contorno.