sabato 31 luglio 2021

Marx può aspettare

"Marx può aspettare" di Marco Bellocchio. Con Letizia, Maria Luisa, Alberto, Piergiorgio e Marco Bellocchio. Italia 2021 ★★★★★

E’ stato definito come documentario: in realtà l’ultimo lavoro di Marco Bellocchio, che rivela esplicitamente le motivazioni di fondo delle tematiche che ricorrono in tutti i suoi film, è puro meta-cinema, qualcosa che va ben oltre il lungometraggio, e di più. Qualcosa di perfetto, concluso. Che dà un senso compiuto a tutto quel che questo grande regista e intellettuale ha prodotto durante la sua lunga e meritoria attività. L'idea gli è venuta cinque anni fa in dicembre, in occasione di una riunione di famiglia organizzata per festeggiare vari compleanni presso il Circolo dell'Unione di Piacenza, fondato dall'avvocato Bellocchio, presenti i sei figli sopravvissuti, i consorti e i nipoti. Assenti, perché ormai morti, ma convitati di pietra, Paolo, il fratello maggiore, malato di schizofrenia e Camillo, gemello di Marco, il bello della famiglia ma anche il meno "realizzato", suicidatosi ventinovenne il 27 dicembre del 1968. Un anno particolare e significativo, che ha a che vedere col titolo, poiché è l'ultima frase che il regista ha udito dal suo gemello, come risposta quando lo sollecitava a uscire dal suo stato di apatia per impegnarsi nella lotta per cambiare il mondo. Camillo, la sua introversione, la sua infelicità erano stati semplicemente rimossi dai fratelli, che per compiacere la madre, ansiosa e in preda a deliri religiosi, nemmeno concepiva l'idea che uno dei suoi figli potesse essersi tolto la vita, per decenni hanno inscenato la commedia dell'incidente, senza affrontare l'argomento. Cosa che il regista ha fatto in questa occasione, ricostruendo durante gli ultimi cinque anni come in un'indagine tutte le possibili cause del gesto del fratello, parlandone coi fratelli, interrogandoli, compresa la sordomuta e deliziosa Letizia, e "confessandosi" lui stesso (in realtà lo aveva già fatto attraverso tutti i suoi film esprimendo un inestinguibile senso di colpa, gli fa notare un amico gesuita, intervistato a sua volta), lavoro che, ha affermato in occasione della presentazione del film al Festiva di Cannes, è stato un'esperienza liberatoria ma non assolutoria. E' un ambiente famigliare profondamente disfunzionale, e borghesemente ipocrita, con un padre autoritario e una madre ostaggio di un senso religioso oscurantista, il terreno di coltura sia del senso di inadeguatezza e solitudine di Camillo, sia dell'anaffettività dei fratelli, tutti talmente impegnati a pensare alla propria sopravvivenza psichica e riuscendoci indirizzando le proprie energie nell'affermazione personale, ognuno nel proprio campo, da non riuscire a vedere, e nemmeno volere vedere, il disagio di questo ragazzo indeciso, irrealizzato, che si sentiva incapace di trovare la propria dimensione e ruolo, e che pure di segnali, col senno di poi, ne aveva lanciati diversi. Questo è il tema di questa lucidissima operazione di autoanalisi collettiva, svolta con una sincerità disarmante, a volte dura ma anche con leggerezza e intelligente autoironia, come sempre,  in Bellocchio e comune a tutti i fratelli, che ripercorre la vicenda della loro stirpe, dell'epoca e del Paese in cui si è svolta, con filmati e fotografie d'epoca tratte dagli albi di famiglia, ma anche spezzoni tra i più significativi, e in tema, dei precedenti film del regista. Come dicevo, Marx può aspettare è molto più di un film, peraltro tecnicamente ineccepibile, commento musicale compreso, un lavoro di grande onestà intellettuale effettuato su sé stessi, che solo un uomo di grande intelligenza, cultura, sensibilità artistica è in grado di fare. Commovente. A Cannes se ne sono accorti assegnandogli la Palma d'oro d'onore, probabilmente per farsi perdonare di non averlo mai premiato con quella ufficiale in precedenza.

martedì 27 luglio 2021

Una donna promettente

"Una donna promettente" (Promising Young Woman) di Emerald Fennell. Con Carey Mulligan, Bo Burnham, Laverne Cox, Clancy Brown, Jennifer Coolidge, Christopher Mintz-Plasse, Molly Shannon, Chris Lowell, Alfred Molina. USA 2020 ★★+

Spesso scelgo i film da vedere in base agli attori: alcuni di cui ho stima, nella fattispecie Carey Mulligan, qui nel ruolo della protagonista, sono solitamente garanzia di un prodotto valido, tantopiù se un'inglese accetta di recitare in un film ambientato in un'anonima città dell'Ohio, nell'America profonda (agghiacciante e sintomatico l'arredamento delle case nonché il modo di vestirsi e nutrirsi), ma in questo caso il risultato è stato ben lontano dalle attese. Brava come sempre lei a interpretare una giovane donna, Cassandra (Cassie) Thompson, 30 anni appena compiuti, che ha rinunciato a continuare gli studi in medicina, facoltà in cui primeggiava, per lavorare in una modesta caffetteria e vivere ancora coi genitori. Coltivando una sola stranezza: nei fine settimana si agghinda per l'occasione, si reca in locali dove si beve e, fingendosi sbronza e incapace i tenersi in piedi, si fa abbordare da sconosciuti che, con la scusa di volerla aiutare, se la portano a casa e immancabilmente tentano di approfittare del suo stato per portarsela a letto, venendo regolarmente beccati in flagrante, e umiliati dal suo sarcasmo. E questo lo si capiva già dal trailer del film che girava ormai da mesi. Il suo rifiuto di avere rapporti con l'altro sesso comincia a venire meno quando incontra Ryan, un chirurgo pediatrico suo coetaneo molto garbato che la "filava" già dai tempi dell'università, e che a sua volta, pur non prendendone viva parte ma essendo presente e senza impedirlo, aveva assistito allo stupro di gruppo di Nina, l'amica del cuore di Cassie, che non si sarebbe più ripresa dal muro di omertà elevato da compagni di studi, docenti, polizia, e soprattutto dal pregiudizio che, ubriacandosi, avrebbe incoraggiato i violentatori, passando in sostanza dalla parte del torto e finendo per suicidarsi. Caso da manuale ed estremo di bullizzazione, oltretutto. E' la sete di vendetta e di giustizia a muovere Cassie, che prima va a scovare e affrontare chi, potendo testimoniare il vero aveva a suo tempo preferito tacere o soprassedere, poi a colpire il vero colpevole e i suoi complici, infilandosi nella festa di addio al celibato di costui. Il tutto è giocato in una chiave che vorrebbe essere dark senza riuscirci se non a tratti e in maniera talmente scontata e lenta da finire con l'essere irritante, rifacendosi però nel finale con un colpo di scena geniale e dal sapore amarognolo che non posso raccontare perché è l'unica cosa che riabilita un film altrimenti mediocre. La Mulligan è padrona della scena, sempre convincente; i comprimari nei limiti degli onesti mestieranti, la regìa senza grandi sprazzi, ad aleggiare quel sottofondo melmoso di "politicamente corretto" che infesta tutto quanto prodotto dalle parti di Hollywood negli ultimi anni: in mano a un regista britannico (o a un Tarantino), da questa sceneggiatura, opportunamente rielaborata, sarebbe venuto fuori qualcosa di memorabile e davvero cattivo.  

venerdì 23 luglio 2021

Coincidenze


Libertà di movimento - Libertà senza confini diceva questo striscione. Ora ci abbiamo la Pandemia. Bel progresso. Non sono un reducista e, nel ventennale dei fatti del G8 di Genova, caduto in questi giorni, ho evitato di partecipare, almeno pubblicamente, alla profusione di ricordi, testimonianze, analisi e giudizi, espressi in quantità industriali soprattutto da chi non c'era. E che comunque non ha capito ancora adesso di cosa si trattasse. Ma non potevo fare a meno di notare la coincidenza, ovviamente del tutto casuale, della data della morte di Carlo Giuliani, il 20 luglio, con quella della prima scampagnata nello spazio da parte di un privato, appunto vent'anni dopo. Emblematica. Perché il legame c'è eccome, se lo si vuol vedere. Chiarissimo. Il movimento nato allora spontaneamente in tutto il mondo 
contro la globalizzazione, l'ultimo sulla scia di quelli novecenteschi, aveva indicato chiaramente il pericolo che incombeva sulle sorti del pianeta e dell'umanità intera lasciando briglia libera al liberismo integrale e alla dittatura del mercato e della finanza, a cominciare dal disastro ambientale, ed è ben per questo che è stato stroncato con forza, anzi: con tutta la durezza possibile, affinché non potesse più riprendersi. Dopo 20 anni il rappresentante più simbolico di questa feccia che definire umana è arduo, trattandosi a tutti gli effetti di androidi, Jeff Bezos, colui che ha creato Amazon (a proposito, bottegai di tutto il mondo: andate avanti a votare coloro che sostengono un sistema che vi sta uccidendo, complimenti!), va a farsi un giretto su una navicella spaziale a un costo che basterebbe a sfamare l'intera Africa per un anno, a 100 chilometri dalla superficie terrestre. Per me il messaggio è chiarissimo, nonostante le parole ipocritamente preoccupate pronunciate sull'ambiente e le sorti della Terra da questo individuo e da quell'altro campione di Elon Musk, il plastificato mutante patron della Tesla (che insulto il fatto che il nome di un genio sia stato usato per le sue sofisticate macchinine supertecnologiche ed "ecologiche"): "noialtri ci stiamo preparando ad andarcene, l'alternativa è là fuori" (nel cosmo, tra le stelle, chissà) "e potremo andarci in pochi, solo gli eletti". Ossia quelli, per come la vedo io, che già hanno rinunciato a essere umani, disposti, pur di soddisfare la loro smania di una qualche forma di immortalità, di farsi impiantare qualsiasi aggeggio elettronico, chip, o diavoleria pur di salvare la ghirba ed elevarsi (loro e i loro eredi) dal resto dell'umanità, il 99 per cento o forse meno, degli abitanti del Pianeta, che può tranquillamente andare a farsi fottere, per cui tanto vale che lo sfruttino fino all'ultimo per procurarsi il necessario. Panorama descritto da decine di autori di fantascienza ormai da svariati decenni, e sempre più prossimo ad avverarsi. "Dopo di me, il diluvio". L'aveva già detto qualcun altro, più volte, nel corso della storia. Se non apriamo per bene gli occhi tutti quanti, questa potrebbe essere anche quella buona e costoro aver avuto ragione. Definitivamente.

giovedì 1 luglio 2021

Far East Film Festival 23


Tentativi di ritorno a una qualche forma di normalità: con l'allentarsi, temo soltanto stagionale, delle restrizioni "sanitarie", si ripropongono eventi ormai entrati nel repertorio, come il benemerito Far East Film Festival, probabilmente quello più importante che si svolga al di fuori dell'area geografica in oggetto, che si tiene a Udine solitamente a metà primavera. Con l'aggirarsi del vairus di merda, l'anno passato ebbe luogo in estate, 
ma soltanto in streaming; tra fine giugno e inizio luglio (chiusura domani) quest'anno parzialmente in presenza, nelle sale del rinnovato Visionario e al Centrale, e per il resto on line sulla piattaforma MyMovies. Opportunità di fruizione, quest'ultima, che ho privilegiato sia per evitare spostamenti, controlli, orari rigidi, sia per la comodità di stare spaparanzato in casa, ventilatore a manetta, bibita in mano, sbracato, con il dito indice sempre posizionato sul comando "pausa", opzione provvidenziale quando fuori si viaggia a 35 °C con un tasso di umidità da Sud Est Asiatico, giusto per rimanere in atmosfera, e si desidera darsi una tregua. Che i film in questione ogni tanto richiedono per poter essere apprezzati in modo ottimale. Sono orgoglioso di questo Festival e della passione e competenza che ci mettono coloro che lo organizzano e ne curano la comunicazione, come del fatto che sia stato inventato e abbia luogo proprio nella regione in cui abito e di cui sono originario: l'estremo lembo del Nord Est, per lo più negletto dal resto del Paese di cui pure fa parte (e non esattamente per propria volontà, a dispetto di come la "storia", illustre sconosciuta alle nostre latitudini e comunque scritta da chi detiene il potere, la racconti), così come dell'altro, il Trieste Film Festival, che si tiene in gennaio, che guarda anch'esso a Est, ma entro i confini del nostro Continente. Il che conferma come la gente di queste parti, nota per una scarsa espansività e un rigore asburgico, sia in realtà estremamente aperta, più che disponibile al confronto reale e all'integrazione con il vicino più prossimo, che è sempre stato quello che veniva dall'Oriente. Anche con quello più lontano, proveniente da quel Cataio che Marco Polo visitò già nel 13° secolo. Mi viene da pensare che, da un mondo in formato ridotto com'è il Friuli, la Piciule Patrie, sia più facile vedere le cose in una dimensione più grande. In questo caso uno schermo cinematografico. Mi limito a fare un cenno a un paio di film che ho visto in presenza e che, presumo, siano quelli che più probabilmente avranno una distribuzione nelle sale. Il primo è The Eight Hundred, spettacolare kolossal che racconta un episodio di resistenza da parte di un battaglione di 800, per l'appunto, soldati cinesi a guardia di un magazzino in cui si trovava un deposito di armi a Shanghai durante l'invasione giapponese del 1937, film epico e spettacolare che conferma l'altissimo livello tecnico (e spettacolare) raggiunto dalla cinematografia cinese, confermato dalla seconda, un'altra pellicola molto suggestiva e godibile, Cliff Walkers, regista il grande Zhang Yimou, che confezione un'intricata storia di spie ambientata nella Harbin degli anni Trenta, ai confini della Russia recentemente sovietizzata, estremamente suggestiva. Due filmoni cinesi, non esenti da intenti propagandistici, che vanno a colpo sicuro, ma mi piace segnalare ulteriormente l'ironico Money Has Four Legs, unico film birmano in concorso, che racconta le peripezie di un cineasta locale nel fare il proprio lavoro pure in in quel breve periodo in cui il suo Paese, dopo 50 anni di feroce dittatura militare, aveva goduto di una relativa, e fragile libertà: mi ha fatto piacere e a tratti commosso rivedere vedere la ex capitale Yangon (Rangoon per gli inglesi), città che ho amato molto, come tutto il Paese e soprattutto la sua stupenda gente, e che temo di non riuscire più a rivedere, vista la situazione politica. Temo che non si vedranno mai sui nostri schermi il potente e ipnotico Limbo, rigorosamente in bianco e nero, che scava nella disperazione di Hong Kong: una dimensione ben lontana dalla celebrazione delle virtù cinesi dei due pur gradevoli ma enfatici, film di cui sopra prodotti nella "casa madre", che gli orgogliosi e tenaci hongkonghesi non considerano tale; come neppure l'esemplare noir giapponese Last of the Wolves, incentrato su una vicenda di corruzione poliziesca in combutta con la yakuza di Hiroshima e la follia paranoica di uno sbirro fuori controllo e del suo degno avversario mafioso. Il livello generale rimane comunque alto e non rimane che ringraziare chi, nonostante gli impedimenti messi sul cammino, è riuscito a organizzare il festival. Bravi davvero.