Tentativi di ritorno a una qualche forma di normalità: con l'allentarsi, temo soltanto stagionale, delle restrizioni "sanitarie", si ripropongono eventi ormai entrati nel repertorio, come il benemerito Far East Film Festival, probabilmente quello più importante che si svolga al di fuori dell'area geografica in oggetto, che si tiene a Udine solitamente a metà primavera. Con l'aggirarsi del vairus di merda, l'anno passato ebbe luogo in estate, ma soltanto in streaming; tra fine giugno e inizio luglio (chiusura domani) quest'anno parzialmente in presenza, nelle sale del rinnovato Visionario e al Centrale, e per il resto on line sulla piattaforma MyMovies. Opportunità di fruizione, quest'ultima, che ho privilegiato sia per evitare spostamenti, controlli, orari rigidi, sia per la comodità di stare spaparanzato in casa, ventilatore a manetta, bibita in mano, sbracato, con il dito indice sempre posizionato sul comando "pausa", opzione provvidenziale quando fuori si viaggia a 35 °C con un tasso di umidità da Sud Est Asiatico, giusto per rimanere in atmosfera, e si desidera darsi una tregua. Che i film in questione ogni tanto richiedono per poter essere apprezzati in modo ottimale. Sono orgoglioso di questo Festival e della passione e competenza che ci mettono coloro che lo organizzano e ne curano la comunicazione, come del fatto che sia stato inventato e abbia luogo proprio nella regione in cui abito e di cui sono originario: l'estremo lembo del Nord Est, per lo più negletto dal resto del Paese di cui pure fa parte (e non esattamente per propria volontà, a dispetto di come la "storia", illustre sconosciuta alle nostre latitudini e comunque scritta da chi detiene il potere, la racconti), così come dell'altro, il Trieste Film Festival, che si tiene in gennaio, che guarda anch'esso a Est, ma entro i confini del nostro Continente. Il che conferma come la gente di queste parti, nota per una scarsa espansività e un rigore asburgico, sia in realtà estremamente aperta, più che disponibile al confronto reale e all'integrazione con il vicino più prossimo, che è sempre stato quello che veniva dall'Oriente. Anche con quello più lontano, proveniente da quel Cataio che Marco Polo visitò già nel 13° secolo. Mi viene da pensare che, da un mondo in formato ridotto com'è il Friuli, la Piciule Patrie, sia più facile vedere le cose in una dimensione più grande. In questo caso uno schermo cinematografico. Mi limito a fare un cenno a un paio di film che ho visto in presenza e che, presumo, siano quelli che più probabilmente avranno una distribuzione nelle sale. Il primo è The Eight Hundred, spettacolare kolossal che racconta un episodio di resistenza da parte di un battaglione di 800, per l'appunto, soldati cinesi a guardia di un magazzino in cui si trovava un deposito di armi a Shanghai durante l'invasione giapponese del 1937, film epico e spettacolare che conferma l'altissimo livello tecnico (e spettacolare) raggiunto dalla cinematografia cinese, confermato dalla seconda, un'altra pellicola molto suggestiva e godibile, Cliff Walkers, regista il grande Zhang Yimou, che confezione un'intricata storia di spie ambientata nella Harbin degli anni Trenta, ai confini della Russia recentemente sovietizzata, estremamente suggestiva. Due filmoni cinesi, non esenti da intenti propagandistici, che vanno a colpo sicuro, ma mi piace segnalare ulteriormente l'ironico Money Has Four Legs, unico film birmano in concorso, che racconta le peripezie di un cineasta locale nel fare il proprio lavoro pure in in quel breve periodo in cui il suo Paese, dopo 50 anni di feroce dittatura militare, aveva goduto di una relativa, e fragile libertà: mi ha fatto piacere e a tratti commosso rivedere vedere la ex capitale Yangon (Rangoon per gli inglesi), città che ho amato molto, come tutto il Paese e soprattutto la sua stupenda gente, e che temo di non riuscire più a rivedere, vista la situazione politica. Temo che non si vedranno mai sui nostri schermi il potente e ipnotico Limbo, rigorosamente in bianco e nero, che scava nella disperazione di Hong Kong: una dimensione ben lontana dalla celebrazione delle virtù cinesi dei due pur gradevoli ma enfatici, film di cui sopra prodotti nella "casa madre", che gli orgogliosi e tenaci hongkonghesi non considerano tale; come neppure l'esemplare noir giapponese Last of the Wolves, incentrato su una vicenda di corruzione poliziesca in combutta con la yakuza di Hiroshima e la follia paranoica di uno sbirro fuori controllo e del suo degno avversario mafioso. Il livello generale rimane comunque alto e non rimane che ringraziare chi, nonostante gli impedimenti messi sul cammino, è riuscito a organizzare il festival. Bravi davvero.
giovedì 1 luglio 2021
Far East Film Festival 23
Tentativi di ritorno a una qualche forma di normalità: con l'allentarsi, temo soltanto stagionale, delle restrizioni "sanitarie", si ripropongono eventi ormai entrati nel repertorio, come il benemerito Far East Film Festival, probabilmente quello più importante che si svolga al di fuori dell'area geografica in oggetto, che si tiene a Udine solitamente a metà primavera. Con l'aggirarsi del vairus di merda, l'anno passato ebbe luogo in estate, ma soltanto in streaming; tra fine giugno e inizio luglio (chiusura domani) quest'anno parzialmente in presenza, nelle sale del rinnovato Visionario e al Centrale, e per il resto on line sulla piattaforma MyMovies. Opportunità di fruizione, quest'ultima, che ho privilegiato sia per evitare spostamenti, controlli, orari rigidi, sia per la comodità di stare spaparanzato in casa, ventilatore a manetta, bibita in mano, sbracato, con il dito indice sempre posizionato sul comando "pausa", opzione provvidenziale quando fuori si viaggia a 35 °C con un tasso di umidità da Sud Est Asiatico, giusto per rimanere in atmosfera, e si desidera darsi una tregua. Che i film in questione ogni tanto richiedono per poter essere apprezzati in modo ottimale. Sono orgoglioso di questo Festival e della passione e competenza che ci mettono coloro che lo organizzano e ne curano la comunicazione, come del fatto che sia stato inventato e abbia luogo proprio nella regione in cui abito e di cui sono originario: l'estremo lembo del Nord Est, per lo più negletto dal resto del Paese di cui pure fa parte (e non esattamente per propria volontà, a dispetto di come la "storia", illustre sconosciuta alle nostre latitudini e comunque scritta da chi detiene il potere, la racconti), così come dell'altro, il Trieste Film Festival, che si tiene in gennaio, che guarda anch'esso a Est, ma entro i confini del nostro Continente. Il che conferma come la gente di queste parti, nota per una scarsa espansività e un rigore asburgico, sia in realtà estremamente aperta, più che disponibile al confronto reale e all'integrazione con il vicino più prossimo, che è sempre stato quello che veniva dall'Oriente. Anche con quello più lontano, proveniente da quel Cataio che Marco Polo visitò già nel 13° secolo. Mi viene da pensare che, da un mondo in formato ridotto com'è il Friuli, la Piciule Patrie, sia più facile vedere le cose in una dimensione più grande. In questo caso uno schermo cinematografico. Mi limito a fare un cenno a un paio di film che ho visto in presenza e che, presumo, siano quelli che più probabilmente avranno una distribuzione nelle sale. Il primo è The Eight Hundred, spettacolare kolossal che racconta un episodio di resistenza da parte di un battaglione di 800, per l'appunto, soldati cinesi a guardia di un magazzino in cui si trovava un deposito di armi a Shanghai durante l'invasione giapponese del 1937, film epico e spettacolare che conferma l'altissimo livello tecnico (e spettacolare) raggiunto dalla cinematografia cinese, confermato dalla seconda, un'altra pellicola molto suggestiva e godibile, Cliff Walkers, regista il grande Zhang Yimou, che confezione un'intricata storia di spie ambientata nella Harbin degli anni Trenta, ai confini della Russia recentemente sovietizzata, estremamente suggestiva. Due filmoni cinesi, non esenti da intenti propagandistici, che vanno a colpo sicuro, ma mi piace segnalare ulteriormente l'ironico Money Has Four Legs, unico film birmano in concorso, che racconta le peripezie di un cineasta locale nel fare il proprio lavoro pure in in quel breve periodo in cui il suo Paese, dopo 50 anni di feroce dittatura militare, aveva goduto di una relativa, e fragile libertà: mi ha fatto piacere e a tratti commosso rivedere vedere la ex capitale Yangon (Rangoon per gli inglesi), città che ho amato molto, come tutto il Paese e soprattutto la sua stupenda gente, e che temo di non riuscire più a rivedere, vista la situazione politica. Temo che non si vedranno mai sui nostri schermi il potente e ipnotico Limbo, rigorosamente in bianco e nero, che scava nella disperazione di Hong Kong: una dimensione ben lontana dalla celebrazione delle virtù cinesi dei due pur gradevoli ma enfatici, film di cui sopra prodotti nella "casa madre", che gli orgogliosi e tenaci hongkonghesi non considerano tale; come neppure l'esemplare noir giapponese Last of the Wolves, incentrato su una vicenda di corruzione poliziesca in combutta con la yakuza di Hiroshima e la follia paranoica di uno sbirro fuori controllo e del suo degno avversario mafioso. Il livello generale rimane comunque alto e non rimane che ringraziare chi, nonostante gli impedimenti messi sul cammino, è riuscito a organizzare il festival. Bravi davvero.
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