"El Jockey" di Luis Ortega. Con Nahuel Pérez Biscayart, Úrsula Corberó, Mariana di Girolamo, Daniel Fanego, Daniel Giménez Cacho, Roberto Carnaghi e altri. Argentina, Spagna, Danimarca, Messico 2024 ★★★★1/2
Presentato in concorso all'ultima edizione del Festival di Venezia, El Jockey, pluripremiato in America Latina, non era passato inosservato ma non aveva entusiasmato i critici di mestiere, quelli che pascolano nel milieu cinematografaro, per cui è già un miracolo che sia stato distribuito in Italia, non a caso dalla Lucky Red di Andrea Occhipinti, grazie alla cui apertura mentale appaiono sui nostri schermi anche film poco convenzionali come questo. Disdicevole, poi, come ho già avuto più volte modo di far notare, è la scarsa attenzione al cinema del Continente Desaparecido, a cominciare da quello brasiliano e cileno, ma soprattutto argentino, benché almeno la metà della popolazione sia di origine italiana e perfino il castigliano parlato a quelle latitudini sia talmente italianizzato, tanto per il vocabolario quanto per la cadenza, da essere facilmente comprensibile anche senza l'ausilio dei sottotitoli (che comunque sono previsti nell'edizione originale che circola da noi da alcune settimane). Cinematografie di Paesi e realtà che ci sono molto più vicine e familiari di altre che ci vengono proposte e spesso imposte a profusione, a cominciare da quelle nordamericane o scandinave. Tornando a bomba, Remo Manfredini (Nahuel Pérez Byscayart, un Buster Keaton del Terzo Millennio, di una bravura strabiliante) è un fantino dal talento inarrivabile, che assieme alla fidanza Abril (Úrsula Corberó, universalmente nota come l'interprete di Tokyo ne La casa di carta) lavora per il Clan Sirena, ma è dipendente da alcol e da qualsiasi additivo chimico gli capiti a tiro, con risultati disastrosi per la carriera. Quando non è in condizione di montare, lo fa Abril al posto suo, pur essendone incinta, ma nella gara più importante della sua carriera, e dopo l'acquisto milionario (in dollari) di un cavallo giapponese da parte dei suoi capi, gli tocca correre di persona per saldare i debiti che ha accumulato coi suoi datori di lavoro. Pur essendo tenuto strettamente sotto controllo dagli scagnozzi del boss (tutte facce stupendamente inquietanti, pescate probabilmente nei bassifondi di Buenos Aires, e straordinariamente vere) riesce a bombarsi in maniera tale da tirare dritto sull'ovale del famoso Hípodromo Argentino de Palermo della capitale, sfondandone le transenne, accoppando il cavallo e fracassandosi completamente. Da lì in poi il Clan Sirena gli darà la caccia per fargli la pelle. Traumatizzato e con probabili lesioni al cervello, lo ritroviamo in ospedale con una fasciatura a turbante che gli dà un aspetto femminile: messo sull'allerta da Abril, raccatta una pelliccia lasciata su una sedia e una borsetta e si avventura per le strade di Buenos Aires senza una meta precisa, ma in fuga. Non solo dai Sirena, ma anche dalla sua vita e identità precedente, insomma da sé stesso, senza nemmeno rendersene conto. Perché, come già l'aveva avvertito Abril, cambiare registro si può, ma "ammazzando" l'io precedente. Lo aiuta un vagabondo alcolizzato che incontra in un sordido bar de barrio, e che poi raggiunge nel suo tugurio pur non sapendone l'indirizzo, e che si dimostra il suo unico e vero amico disinteressato e gli consente di difendersi dai Sirena procurandogli una rivoltella. Di cui Manfredini farà buon uso, ma finendo in un ospedale psichiatrico, dove lo ritroviamo ormai completamente femminilizzato, in permanente, sobriamente truccato, che di mestiere ora fa la parrucchiera. Del tutto surreale, a tratti picaresco, ironico e grottesco (i riferimenti a Almodóvar, Jodorowski e soprattutto Kaurisimäki sono evidenti), il film è però tipicamente argentino, i rock "leningradesi" del maestro finlandese sono sostituiti dai tango canción di Gardel, di cui proprio quest'anno ricorrono i 100 anni dalla scomparsa (nonostante ciò, nella considerazione dei porteños, El Troesma "cada día canta mejor"), ma anche da ritmi house parossistici sui quali la coppia Remo/Abril si esibisce con movenze disarticolate ed esilaranti. Potrebbe sembrare un film che ammicca al transgender, ma se lo fa è solo marginalmente, perché il tema vero è l'identità. E per quanto uno possa cercare la propria essenza e cercare di sfuggire agli schemi in cui è costretto dalle circostanze (famiglia, società, il coro stesso), ostaggio di convenzioni o regole rimarrà comunque un individuo, se va bene, in libertà vigilata. E sotto stretta sorveglianza. 96', conciso, timing perfetto, divertente, suggestivo ed evocativo. Io poi ci ho ritrovato un mondo e un ambiente umano che conosco abbastanza bene: un tuffo nel passato che per una volta non mi ha riempito soltanto di malinconia, perché è una realtà che ha una sua vitalità, nonostante tutto. Di Luis Ortega era già uscito, 6 anni fa, L'angelo del crimine, che non mi aveva del tutto convinto, con El Jockey ha fatto dei grandi passi in avanti. Spero di averne presto la riprova.
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