"Un semplice incidente" (Yak taṣādof-e sāde) di Jafar Panahi. Con Vahid Mobasseri, Mariam Afshari, Ebrahim Azizi, Hadis Pakbaten, Majid Panahi, Mohamed Ali Elyasmer, Delmaz Najafi, Afsaneh Najmabadi e altri. Iran, Francia, Lussemburgo 2025 ★★★★1/2
Risolti, si spera definitivamente, i seri problemi giudiziari avuti nel corso degli anni col regime degli ayatollah iraniani, e nonostante i limiti posti alle sue attività, che non sono comunque riusciti a impedire a Jafar Panahi di fare sentire la sua voce escogitando sempre una maniera per esercitare la sua professione di autore e regista e dire la sua, ecco finalmente nelle sale italiane il film con cui ha ottenuto la Palma d'Oro all'ultimo Festival di Cannes. Un semplice incidente (come da titolo), un cane che di notte finisce sotto le ruote di un'auto (i mezzi di trasporto sono una costante nei lavori di Panahi) e costringe la famigliola a una sosta per una riparazione in un paesino poco lontano da Teheran, dà il via a una serie di eventi in parte grotteschi e rocamboleschi, che ammantano di toni da commedia a tratti noir un film che è da una parte di denuncia della ferocia dell'apparato repressivo e dall'altra una riflessione su quanto la violenza esercitata dal potere, qualunque esso sia, possa agire da innesco per una risposta altrettanto feroce da parte di chi la subisce, insomma sull'umanità di tutte le persone coinvolte. Nell'officina in cui viene ricoverata l'automobile danneggiata, un meccanico rimane nascosto perché riconosce nella camminata del proprietario quella dell'aguzzino che l'aveva torturato durante la sua detenzione: quella di un uomo con una gamba artificiale, arto che l'ufficiale in questione si vantava di aver perso in guerra in Siria. Decide di rapirlo, lo carica su un furgone e lo porta nel deserto dove scava una fossa per seppellirlo vivo, ma gli viene un dubbio: prima di procedere, vuole essere assolutamente certo della sua identità, e così coinvolge una serie di personaggi (una ex giornalista ora fotografa di matrimoni, la coppia che sta per sposarsi, il suo ex fidanzato), tutti a loro volta reduci da trattamenti analoghi durante la loro prigionia. Prende il via una serie di situazioni ai limiti dell'assurdo ma che sono capaci più di tanti lunghi discorsi o documentari di descrivere la realtà di un Paese dove comunque l'opprimente cappa liberticida e oscurantista imposta dagli Imam ha allentato la sua presa, perché comunque la gente comune ha sempre trovato il modo di resisterle o di sfuggirle, magari prendendosene gioco, non perdendo mai la propria dignità. Qualcosa insomma sta cambiando, da quelle parti, come testimonia il numero di donne senza velo nella pellicola, soprattutto dopo le rivolte femminili (e non solo) del 2022: Panahi lo testimonia ma, come accennavo, oltre a denunciare le persecuzioni il regista, pur con molta ironia, non manca di sottolineare quanto una realtà fatta di violenza e arbitrio riesca a turbare la capacità di giudizio e indurre anche le persone più ragionevoli a reazioni incontrollate, in un cerchio che non si chiude. La risposta non c'è e il finale non è esattamente ottimista, ché lascia intendere come gli incubi possono sempre ritornare, specialmente per chi li ha già sperimentati. Però un sorriso a tratti beffardo è sempre un ottimo antidoto. Così come questo suo ennesimo bellissimo film.

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