domenica 31 ottobre 2021

I'm Your Man

"I'm Your Man" (Ich bin dein Mensch) di Maria Schrader. Con Maren Eggert, Dan Stevens, Sandra Hüller, Hans Löw, Annika Meier, Jürgen Tarrach e altri. Germania 2021 ★★★1/2 

Per immaginare le conseguenze dell'incontro fra un umano e un androide, a Maria Schrader, bravissima attrice tedesca (per tutti In the Darkness e le serie TV Deutschland 83/86/89 nonché Fortitude) nonché sceneggiatrice e regista (Unorthodox) non è stato necessario ambientarlo in un futuro più o meno distopico, come nel pur più che discreto Her, ma nel cuore della Berlino di oggi, e precisamente sulla Museuminsel sulla Sprea, dove Alma (Maren Egger, superlativa), un'archeologa che lavora presso il Pergamon Museum incaricata di condurre uno studio sulla la scrittura cuneiforme persiana, per compiacere il suo superiore al fine di ottenere contributi per le sue ricerche accetta di testare per tre settimane, prendendolo in carico, e in casa, un androide costruito per assecondare in tutto e per tutto qualsiasi esigenza del suo "partner" umano, in questo caso, l'uomo, si fa per dire, ideale (l'inglese Dan Stevens (Downton Abbey, all'altezza della sua controparte). E' una commedia, ovviamente, ma per nulla inverosimile e tutt'altro che una pagliacciata: la vita e la storia di Alma, che l'hanno portata a essere indipendente, refrattaria a ogni romanticismo e per nulla disposta a iniziare una relazione, sono completamente calate nella realtà dei nostri tempi (che comunque sembra già fantascienza vista da un migliaio di chilometri più a Sud, dove il rincoglionimento collettivo, anche senza l'ausilio di automi nel quotidiano, ché quelli ce li abbiamo già al governo, è giunto da tempo oltre i livelli di guardia) sono credibili, così come i suoi rapporti, per esempio con un padre anziano che cerca di essere orgogliosamente autosufficiente per quanto affetto da demenza senile, e con il suo ex compagno nonché collega, dal quale l'ha diviso l'esito infelice di una gravidanza non portata a termine. Trattandosi di una farsa moderna, intelligente e acuta, il lieto fine è dietro l'angolo, ma non sarà l'umano ad adattarsi alla macchina, bensì quest'ultima in grado di intuire le più profonde esigenze di Alma, che hanno le radici nell'età fra infanzia e adolescenza, nel primissimo amore di gioventù. Aria fresca, e ce n'è sempre bisogno in abbondanza: Maria Schrader ne ha portata quanto serve a trascorrere un paio d'ore serenamente. 

giovedì 28 ottobre 2021

Diplomazia


"Diplomazia" di Cyril Gely, traduzione di Monica Capuano. Uno spettacolo di Elio De Capitani e Francesco Frongia. 
Luci di Michele Ceglia, suono Luca De Marinis. Con Ferdinando Bruni, Elio De Capitani, Michele Radice, Alessandro Savarese, Simon Waldvogel. Produzione Teatro dell'Elfo e Teatro Stabile di Catania in coproduzione con LAC Lugano. Al Teatro Elfo Puccini di Milano fino al 14 novembre

Sono sempre imperdibili le occasioni in cui i due "Elfi" più rappresentativi, Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani, si trovano a duettare come coprotagonisti, anzi, mattatori, in un duello dialettico, tanto si completano a vicenda: era già successo, relativamente di recente, in occasione di Frost/Nixon e de Il vizio dell'arte; questa volta danno vita, rispettivamente, al console svedese Raoul Nordling e al generale della Wehrmacht Dietrich von Choltitz, con il primo che riesce a convincere il secondo, da poco nominato governatore di Parigi da Hitler in persona con l'ordine di raderla al suolo prima dell'arrivo delle truppe nemiche ormai alle porte della città o che questa cada nelle mani della resistenza, nel frattempo insorta. Una realtà storica, che il generale tedesco alla fine abbia deciso di disobbedire al Führer rifiutandosi di distruggere la Ville Lumière, che ormai era stata minata nei punti strategici con una quantità impressionante di esplosivo, e sottoscrivendo l'atto di capitolazione, che gli è valsa la gratitudine eterna del francesi, e la sua collaborazione col diplomatico svedese, mentre romanzata è la vicenda raccontata nella commedia scritta da Cyril Gely, alla base anche del celebre film Parigi brucia di René Clement e Diplomacy di Volker Schlöndorff, a sua volta tratto dall'omonimo spettacolo teatrale che già aveva riscosso grande successo nei teatri parigini e tradotto in più lingue e portato in Italia dal Teatro dell'Elfo nell'ottobre dell'anno scorso per poche repliche, prima del secondo lock down per Covid. L'atto unico si svolge in una torrida notte d'agosto, trascorsa insonne dal generale Von Choltitz nel suo quartier generale presso l'Hotel Meurice di Rue de Rivoli, in procinto di diramare l'ordine di far saltare in aria Parigi quando, da una entrata segreta, viene raggiunto dal Nordling che si fa latore di una lettera in cui il generale Leclerc gli chiede la resa ma che, con fine psicologia, sa che può far breccia nella mente del militare perché ne conosce l'animo e l'amore per Parigi e quel che rappresenta, benché Von Choltitz sia ben conscio, in caso di rifiuto e eseguire gli ordini, della minaccia della Sippenhaft, responsabilità collettiva estesa ai suoi famigliari rimasti nella natìa Baden Baden, prevista dalla legge marziale tedesca e inasprita dopo il fallito attentato a Hitler organizzato dal Colonnello Von Stauffenberg e da altri alti ufficiali della Wehrmacht poche settimane prima: il console ne garantisce il trasferimento in Svizzera. La scena è lo studio del generale, con le finestre aperte verso il giardino delle Tuileries e vista sul Louvre, e vi si svolge l'affilata tenzone verbale tra i due uomini, uno che usa le armi della ragione, del cuore, dell'amore per l'arte e la cultura, l'altro che gli oppone il senso del dovere e dell'onore militare (era uno degli alti ufficiali di più grande prestigio dell'esercito tedesco) nonché la preoccupazione per la sorte sia dei suoi famigliari, sia dei suoi uomini, ma l'elemento che forse lo fa decidere a contravvenire alle disposizioni ricevute e a salvare la città è la prospettiva dei rapporti fra i due Paesi dopo la fine di una guerra che lui per primo ritiene già persa con la Germania destinata a seguire nel suo cupio dissolvi il dittatore ormai completamente impazzito e la sua cerchia di fanatici: la distruzione di Parigi avrebbe reso impossibile qualsiasi prospettiva di riconciliazione futura. Due ruoli, quelli del diplomatico e del militare, che sembrano cuciti addosso ai panni, rispettivamente, di Bruni e De Capitani, sia da un punto di vista fisico sia di attitudine: due mostri di bravura, semplicemente impeccabili, con scambi di battute serrate, perfettamente calibrate, che con misura e naturalezza danno sfoggio di argomentazioni sottili ed efficaci, che raccontano molto della struttura mentale di due caratteri contrapposti ma soprattutto di due uomini uniti dall'amore per la città e, soprattutto, dall'idea di dare una prospettiva di speranza al mondo uscito dalla folle avventura della guerra. 

mercoledì 27 ottobre 2021

Rivoltarsi nella tomba


Torno a Milano per vedere finalmente Diplomazia, lavoro teatrale prodotto dal Teatro dell'Elfo e, gioco forza, trovandosi nello stesso stabile, mi tocca passare davanti alla vetrina della Feltrinelli di Corso Buenos Aires, che invece di essere allestita con le zucche, nello spirito di Halloween, è addobbata a stelle e strisce, per pubblicizzare, come se non lo fosse stato già abbastanza in TV, l'uscita di Renegades - Born in the USA, libro tratto da una serie di podcast di due autentici cialtroni, rinnegati a tutti gli effetti: Barack Obama e Bruce Springsteen, non a caso due idoli del progressismo nostrano, l'asinistra alle vongole, e non solo. Il primo, ex presidente degli USA, memorabile per essere stato insignito del Nobel per la Pace appena eletto, nel 2009: un premio alle intenzioni, visto che si è rivelato guerrafondaio come tutti gli inquilini "democratici" che lo hanno preceduto alla Casa Bianca; il secondo, noto in alcuni ambienti come Il pizzaiolo (mancato) del New Jersey, cantore supremo e sbraitante del Mito Americano e delle sue ineguagliabili "opportunità", anche se in nome, a sentire lui e i suoi fans, di una classe operaia umiliata e offesa (la stessa che, incazzata nera con le politiche del primo presidente di colore, per quanto pallido, degli Stati Uniti, avrebbe votato in buona parte per Trump, come del resto da noi per la Lega e altri fascisti), due personaggi (che non a caso viaggiano in coppia, come i coglioni) che avrebbero la pretesa, niente meno, di "dare voce agli esclusi". Non bastava, per la casa editrice fondata meritoriamente da Giangiacomo Feltrinelli, lo sfregio di aver pubblicato, quattro anni fa, un libro di Matteo Renzi, Avanti. Perché l'Italia non si ferma (e infatti è precipitata nelle mani di Draghi), adesso anche la vetrina yankee nella via più commerciale della città. Poi mi chiedono perché sono scappato da qui...

martedì 26 ottobre 2021

France

"France" di Bruno Dumont. Con Léa Seydoux, Blance Gardin, Benjamin Biolay, Emanuele Arioli, Juliane Köhler, Gaëtan Amiel, Jawad Zemmar, Marco Bettini e altri. Francia, Germania, Italia, Belgio 2021 ★+🍒🔨

Fra tutti i film francesi in circolazione sugli schermi nostrani (sempre troppi, immagino in nome della "parentela" latina: mi chiedo però perché non vengano altrettanto diffusi con altrettanta generosità film spagnoli, portoghesi o romeni, per non parlare di quelli di ottime scuole cinematografiche come quella argentina o brasiliana, dove la popolazione di origine italiana, peraltro, conta milioni di persone e, in riva al Rio de la Plata, la maggioranza degli abitanti) ho optato inopinatamente per France, sembrandomi quello più promettente e ho sbagliato, almeno per quanto riguarda la parte sostanziale. Non nelle premesse, ché l'idea era ottima: prendere di mira il mondo cialtronesco e artefatto dell'informazione (si fa per dire) al giorno d'oggi, in particolare quella televisiva, e la sua interazione con i suoi succedanei, ossia i social network, con cui si interfaccia, ma solo in apparenza, perché si tratta di dimensioni che vivono in simbiosi reciproca: una non può fare a meno dell'altra; anzi, vi si nutre. Il risultato però è, come spesso capita nei film d'oltralpe, sconfortante: un pippone verboso, inconcludente, tutto ammiccamenti e mossettine puerili (c'è anche Macron, degno presidente di un Paese simile) che per fortuna non ho dovuto sorbirmi in lingua originale, considerato quanto si presta alle smorfie che deformano grottescamente i tratti facciali. Eroina del film è France De Meurs, sedicente giornalista televisiva specializzata nei teatri di guerra africani in quelle ex colonie che lo Stato francese considera tuttora di sua pertinenza e in cui invia il suo esercito a perpetuare i guasti già causati nel corso degli ultimi due secoli e mezzo, dove va a inscenare il suo teatrino mediatico pensando di essere in un teatro di posa e non nella realtà, tale è la mancanza di qualsiasi etica professionale e il vuoto pneumatico esistente nel suo cervello: a interpretarla Léa Seydoux, già rivista di recente come Bond Girl piuttosto fiacca (il troppo stroppia) il cui pregio è di rendere credibile il personaggio nella sua odiosità; l'attrice è poi il classico esempio di come i cugini transalpini siano abili nel vendere come unico e fenomenale il banale e financo il brutto e lo sgradevole: nella fattispecie, se vista al naturale, gli occhi piccoli e distanziati, il viso da bambola corrucciata, i lineamenti "picassiani", come li ha definiti efficacemente una mia amica, tanto sono irregolari, riescono a trasformarla in una icona sexy, un "pacco dono" avvolto in abiti Dior, raccapriccianti per quanto sono orrendi e vistosi ma tanto à la page e squisitamente pargini. Una che "buca" lo schermo, ma tutta fuffa. Che però un bel giorno si scontra con gli eventi della vita quotidiana quando, per sbadataggine, mentre sta sparando le solite puttanate al cellulare invece di concentrarsi sulla guida, investe un povero rider marocchino. Niente di grave, il disgraziato si rompe solo una gamba, ma Francine, peraltro subito beccata dalla concorrenza e sbattuta in prima pagina perché i testimoni del fatto l'hanno immortalata coi cellulari mandando immediatamente tutto in rete, sembra fare un tuffo nella realtà e comincia a molestare la famiglia del malcapitato per convincerla ad accettare un indennizzo, un po' per senso di colpa e un po' per scena. Anche in casa (e che casa: basta vedere come è arredata per capire la consistenza del personaggio e il buon gusto dei francesi) le cose non vanno meglio: tratta il marito, un romanziere piagnucoloso, e il loro odioso figlio preadolescente, come come due macachi, e qui per una volta siamo solidali con lei ma fino a un cerro punto: del resto uno l'ha scelto, e l'altro lo ha prodotto. Cade in depressione, molla il programma di cui è l'unica star e si rifugia per un mese tra le montagne savoiarde o svizzere, già depressive per conto loro, dove in una struttura per malati mentali di lusso incrocia un giovine cazzone che si spaccia per professore di latino e se ne innamora; peccato che sia un suo collega annusapatte in cerca di scoop, ma l'idiota lo scoprirà soltanto una volta rientrata a Parigi e al lavoro, da cui si era per un certo periodo sospesa. Oh: finalmente la legge del contrappasso e finalmente la stronza ha quel che si merita, pensa lo spettatore, ma non è finita, perché altre sciagure si abbattono sulla deficiente, ma nulla riesce a smuoverla dalla sua tetragona imbecillità e dal suo egocentrismo patologico, peraltro alimentato dalla sua assistente, se possibile ancora più insopportabile di lei: non vado oltre con lo spoiler, anche se a questo punto vi sarete resi conto che cerco di sconsigliarvi la visione di questa mappazza indigesta, a meno che non desideriate alimentare la vostra avversione verso tutto ciò che è francese. Due ore e un quarto, quando una e mezzo sarebbero già state più che sufficienti per quel poco che il regista è riuscito a mettere sul piatto mentre l'argomento avrebbe meritato o un approccio più serio, o una vena sarcastica ben più dissacrante di questa satira all'eau de rose, innocua e perfino compiaciuta, quasi complice. Fate voi...

domenica 24 ottobre 2021

Marilyn ha gli occhi neri

"Marilyn ha gli occhi neri" di Simone Godano. Con Stefano Accorsi, Miriam Leone, Thomas Trabacchi, Mario Pirrello, Andrea Di Casa, Orietta Notari, Marco Messeri, Giulia Petrignani, Ariella Reggio e altri. Italia 2021 ★★★★

Quelli bravi si riconoscono subito, e Simone Godano lo è: dopo il felice esordio nel lungometraggio con il gustoso Moglie e marito con la coppia Favino-Smutnjak quattro anni fa, si conferma firmando, sempre insieme alla sceneggiatrice italo-americana Giulia Louise Steigerwalt, quest'altra commedia di buon gusto, divertente per quanto con un sottofondo amarognolo, spigliata il giusto, ottimista ma per nulla superficiale, che affronta il tema del disagio mentale senza retorica e con molta umanità. Anche questa volta uno dei segreti del successo è affidarsi a una coppia di attori affiatata e non scontata in questi ruoli come quella formata da Stefano Accorsi e Miriam Leone, che già avevano lavorato molto bene insieme nelle tre stagioni di 1992, 1993 e 1994, probabilmente la migliore serie televisiva italiana prodotta finora, che prendeva di petto il periodo di Tangentopoli e del nascente (e perdurante) berlusconismo. Lui, Diego, è uno chef affetto da tic e balbuzie che "sbrocca" facilmente, e dopo aver distrutto il ristorante dell'albergo di lusso dove lavorava in uno scatto d'ira perché un suo assistente non aveva seguito le sue istruzioni, per non perdere anche la possibilità di vedere la figlia, affidata alla moglie da cui è separato, è costretto ad andare in trattamento psichiatrico dove, assieme a un gruppo seguito da Paris, il sempre bravo Thomas Trabacchi, un volto che finalmente si vede più spesso sugli schermi, incontra Clara, una bugiarda patologica, mitomane, che lo toglie dai pasticci facendosi passare per la sua nuova fidanzata e fornendogli un alibi che gli evita l'ennesimo, serio e forse definitivo guaio con la ex consorte. Paris decide che il suo gruppo di disagiati vari, per evitare di avvitarsi su sé stessi, si occupi di interagire col prossimo e li incarica di preparare un pranzo nella sede del centro d'igiene mentale per i membri di una bocciofila dirimpettaia facendoli coordinare proprio da Clara, e l'esperimento riesce così bene da dare sfogo alla sua megalomania inducendola a creare la pagina web di un locale immaginario, il Monroe (l'attrice a cui si riferisce il titolo), e a scrivere una valanga di false recensioni iperboliche ed elogiative che lo fanno subito salire nella classifica di quelli più trendy, come si usa dire al giorno d'oggi, della capitale. Ma è quando il gioco si fa duro che i duri iniziano a giocare e cosiddetti "svitati" alla fine riescono a collaborare e a tenere botta, e il locale diventa davvero, a suo modo, di culto grazie alla fama acquisita sui social network per opera di Clara, e anche qui la sorniona critica al mondo virtuale risulta piuttosto efficace mostrando quanto facilmente e acriticamente le masse imbesuite seguano "a pecora" l'onda dell'ultima moda appena lanciata in rete. Ma non è questo il fulcro nel film, quanto la capacità di accettare i propri limiti e i difetti del prossimo, con il quale, se si vuole, si può cooperare per degli scopi concreti e degli obiettivi comuni, proprio perché nessuno è perfetto, a cominciare da chi si ritiene tale. Ossia, di norma, proprio coloro che si ritengono normali e in diritto di giudicare il prossimo in base ai propri parametri e pregiudizi. La mano del regista è felice e leggera, la sceneggiatura scorrevole ed equilibrata, ottima la sinergia della coppia di protagonisti, con una nota di merito in più per la versatilità di Miriam Leone, il tutto ben supportato dal resto del cast. Il tutto funziona, a dimostrazione che, se affidata alle mani giuste, la commedia intelligente in Italia ha ancora qualcosa da dire e da dare. 

venerdì 22 ottobre 2021

No Time To Die

"No Time To Die" di Cry Joji Fukunaga. Con Daniel Craig, Léa Seydoux, Naomie Harrys, Ralph Fiennes, Ben Whishaw, Rory Kinnear, Ramy Malek, Ana de Armas, Lashana Links, Christoph Waltz, Jeffrey Wright e altri. USA, GB 2021 ★★★-

Non è tempo di morire, recita il titolo, eppure Daniel Craig, all'ultima interpretazione (la quinta) nei panni di James Bond, l'unico credibile dopo Sir Sean Connery, oltre a essere portatore di un virus letale per chi porta un DNA simile al suo (se ho ben capito nel guazzabuglio della trama, sempre più incomprensibile e fantasiosa), alla fine salta per aria insieme a tutta l'isola, situata fra Russia e Giappone, dove si trovava la base del cattivo di turno. Che questa volta non è la Spectre di Ernst Stavro Blofeld (riesumato da Christoph Waltz, al capolinea definitivo pure lui, fulminato dalla bioarma attorno a cui ruota tutto il film), bensì Lyutsifer Safin, cui dà il volto l'orrido Rami Malek (già Freddy Mercury in Bohemian Rapsody, che avevo accuratamente evitato di vedere a so tempo), che invece la Spectre la vuole sterminare, riuscendoci, perché da bambino gli hanno ucciso la famiglia e lui prima di impazzire del tutto si trasforma nel Vendicatore per eccellenza. Per farlo, si impossessa di un'arma biologica, incautamente sviluppata proprio dallo MI6 guidato dal mitico M (Ralph Fiennes). C'è un antefatto, che si svolge fra i "Sassi" di Matera, dove Bond e la sua fiamma, la giovane psicologa Madeleine Swann (Léa Seydoux), reduce da Spectre, il precedente film della saga, si godono una sorta di luna di miele, interrotta brutalmente da un attacco ordinato da Blofeld: 007 sospetta che la fanciulla nasconda qualcosa e la molla. Lo ritroviamo cinque anni più tardi, nel suo buon retiro in Giamaica dopo essersi autosospeso dal servizio attivo, dove viene rintracciato dal suo vecchio amico Felix Leiter della CIA (il terzo dei personaggi storici che defungerà prima della parola THE END) che gli chiede aiuto per rintracciare uno scienziato rapito assieme alla bioarma nel laboratorio segreto di Londra, poi fatto esplodere dagli uomini di Lyutsifer. Bond vola a casa, cazzia M per avere insistito a portare avanti il progetto Heracles (quello dell'arma biologica letale, che si scatena legandosi al DNA di chi si vuole colpire), e scopre di essere stato sostituito, come 007, da Nomi, una ragazza di colore, con cui alla fine gli tocca collaborare, per cui questa volta gli 007 saranno ben due, maschio e femmina, bianco e nera, per non farci mancare nulla: il gay il transgender ci sono stati per ora risparmiati, ma non è detto che ci si arrivi, perché di Bond sopravvive Mathilda, la figlia che James ha avuto da Madeleine, benché questa ne negasse, inizialmente, la paternità. Come sempre la trama è un puro pretesto per la messa in scena, che è godibile, inverosimile e movimentata come sempre a patto di non prendere il film sul serio, per quanto, da quando l'agente più famoso del mondo viene interpretato (impeccabilmente) da Daniel Craig, l'ironia e il tipico sense of humour inglese abbiano lasciato spazio agli psicologismi e all'introspezione. Si viaggia per il mondo, da Matera, come detto, ai Caraibi: dopo la Giamaica una tappa "esplosiva" a Cuba; nel prologo e poi verso la fine in Norvegia, dove non si sa perché abitino due francofone (Swann) e la figlia; ovviamente Londra (questa volta Q, l'inventore che fornisce gli aggeggi più strani a Bond e la fida Moneypenny hanno un ruolo più rilevante nell'azione stessa) infine il remoto Mare di Bering. Il cattivo di turno avrà ciò che si merita, l'umanità sarà salvata dal supremo sacrificio del Comandante Bond e due ore e 40' saranno passati ancora una volta senza quasi accorgersene, e scusate se è poco. Vedremo cosa saranno capaci di inventarsi la prossima volta, se ci sarà: Mathilda Bond come nuova zero-zero-setta?

martedì 19 ottobre 2021

Ariaferma

"Ariaferma" di Leonardo Di Costanzo. Con Toni Servillo, Silvio Orlando, Fabrizio Ferracane, Roberto De Francesco, Salvatore Striano, Pietro Giuliano, Nicola Sechi e altri. Italia, Svizzera 2021 ★★★★★

The Harder They Come, The Harder They Fall, oltre a essere il titolo di una pellicola storica (1972) che ha contribuito in modo fondamentale alla diffusione della musica reggae, è una regola che vale sempre, in particolare per il cinema: più alte le aspettative, più cocente la delusione. Qui succede il contrario: oltre alla sicurezza di assistere a un duetto inedito, quello fra Silvio e Orlando e Toni Servillo, coprotagonisti di una bravura inarrivabile proprio perché capaci come pochi di recitare sottotono entrando nelle pieghe più intime dei personaggi che interpretano, c'è la sorpresa di un film magnifico, di cui la prestazione di questi due fenomeni è soltanto un aspetto, per quanto è coeso, equilibrato, coerente, esemplare per il modo in cui non soltanto racconta una storia ma riesce a rendere qual è davvero la realtà carceraria nella sua essenza, che va ben oltre a quello che viene raccontato negli innumerevoli film e ora anche serie di "genere", specie statunitensi ma non solo. Qui non abbiamo a che fare col tipico prison movie, benché tutta la vicenda si svolga all'interno di un carcere in via di smantellamento in una località isolata dell'Italia (in realtà si tratta di quello dismesso di San Sebastiano, che si trova nel centro sella città di Sassari) nell'arco dei tre giorni che dovrebbero precedere la sua chiusura definitiva: il grosso dei detenuti è già stato smistato in altri istituti, anche la direttrice è stata spostata altrove. Rimangono cinque agenti di custodia a sorvegliare dodici detenuti che non possono al momento essere trasferiti in attesa del provvedimento che indichi la loro destinazione: il vero tema è la situazione di precarietà che prigionieri e guardie condividono, oltre allo spazio stesso, "l'aria" del titolo, in cui si trovano e il rapporto di necessaria fiducia che si deve per forza instaurare per trovare un modus vivendi, tanto più necessaria quando l'istituzione si allontana (personale di sostegno e sanitario, perfino quello religioso, che viene a mancare, la cucina che chiude). Del comando viene investito l'agente più anziano, Gargiulo (Servillo), combattuto fra senso di responsabilità e compassione, mentre la sua controparte è Lagioia, il detenuto più carismatico e pericoloso, un "lungodegente", giunto a fine pena per una serie di crimini gravissimi di cui tuttavia non si fa cenno, come per nessun altro dei carcerati salvo due: l'anziano Arzano, probabilmente protagonista di qualche reato a sfondo sessuale e quindi isolato dai suoi stessi compagni, e il giovane, fragile Fantaccini, cresciuto in una casa famiglia, il classico disgraziato vittima degli eventi, che raccoglie la solidarietà di tutti, carcerieri compresi. Di  fatto è una pellicola che si basa sulla fiducia, elemento fondamentale che, al di là di regole, differenza di ruoli e gerarchie, sta alla base dell'equilibrio instabile e sui generis che regge la vita all'interno della più tipica delle "istituzioni totali": ne so qualcosa per esperienza personale e posso assicurare che situazioni come queste si presentano, qui esemplificate nei dettagli, in ogni momento della vita quotidiana in qualsiasi carcere, o almeno in quelli italiani, per lo più vecchi e decrepiti come quello del film, un'ottocentesca struttura di forma panottica a cinque raggi molto simile a San Vittore a Milano, dove peraltro ho svolto il mio servizio di leva e che conosco molto bene. E' proprio questo spazio condiviso che deve e può diventare il centro della trasformazione dell'individuo, se della detenzione non si ha una visione meramente punitiva e senza sbocchi ma, nel momento in cui lo Stato si dilegua e lascia la responsabilità al solo personale di custodia, togliendo spazi di lavoro, formazione, istruzione, socialità per mancanza di finanziamenti, è solo sul senso di umanità di quest'ultimo, a sua volta abbandonato come chi è tenuto a sorvegliare, dall'altro lato della "gabbia" ma pur sempre nello stesso spazio e dentro le stesse logiche, che viene scaricata l'unica possibilità di cambiamento per chi si trova a scontare una condanna ma rimane pur sempre una persona. Tutto questo il film non ha bisogno di dirlo esplicitamente ma lo si ricava alla perfezione da soli. Leonardo Di Costanzo, di cui avevo già avuto modo di apprezzare L'intervallo, I ponti di Sarajevo, e L'intrusa, è ancora una volta bravissimo a creare una tensione costante, senza dover ricorrere a scene di violenza, ricatti,  sangue, vendette ed efferatezza varie: lo fa creando un'atmosfera sospesa ma sempre in bilico, in cui qualsiasi cosa, anche l'irreparabile, può accadere in ogni momento; la fluidità del racconto si accompagna all'attenzione per i particolari, all'uso stringato ed essenziale della parola, a una fotografia eccezionale (Luca Bigazzi) e a un accompagnamento musicale di prim'ordine ed estremamente evocativo. Oltre al duo Orlando-Servillo, eccellenti anche gli altri interpreti: un film superlativo, questo sì da candidare agli Oscar. Grande cinema e impegno civile che non ha bisogno di essere esibito e comunque tanto raro quanto prezioso di questi tempi.  

mercoledì 13 ottobre 2021

Titane

"Titane" (Une merde titanique) di Julia Ducourneau. Con Agathe Rousselle, Vincent Lindon, Garance Marillier, Lais Salameh, Dominique Frot, Bertrand Bonello, Theo Hellermann, Myriem Akheddiou e altri. Francia, Belgio 2021 💩🤮

Già il fatto di aver vinto la Palma d'Oro all'ultimo, squalificato Festival di Canes, la cui giuria quest'anno era preseduta da un mentecatto come Spike Lee, avrebbe dovuto mettermi sull'avviso; in più, il fatto di essere una coproduzione franco-belga, infine, essere diretto da una regista incazzosa e con la truncia incorporata il cui intento precipuo, da brava figlia della borghesia altolocata transalpina, è quello di sbalordire e sconcertare, in questo caso con immagini intenzionalmente violente e ripugnanti, in realtà volgari mirate unicamente a stupire, proprio i suoi consimili, darmi la certezza di assistere a una cagata memorabile, e non sono stato smentito. Uno dei film più idioti, inutilmente provocatorio e cervellotico che mi sia capitato di vedere. Alexia è una bambina insopportabile e disturbata che durante un viaggio in macchina col padre gli rompe talmente i coglioni da provocare un incidente in cui rimane ferita alla testa, e le viene impiantata una lastra di titanio, da cui il titolo di questa orrida cagata: da quel momento si innamora delle automobili. Cresciuta, si mette a esibirsi come ballerina, contorcendosi nel tipico frastuono cacofonico da rave party, ovviamente sui tetti degli oggetti meccanici dei suoi desideri erotici, in locali equivoci allestiti come saloni di concessionarie: lei ha un aspetto androgino e maschi e femmine le sbavano dietro per avere i sui favori sessuali e lei li elimina regolarmente conficcando loro un appuntito fermaglio per capelli nell'orecchio, mentre il sesso preferisce praticarlo con le macchine ben carrozzate e "dotate" e rimane incinta di una Cadillac. Dopo una serie di omicidi si traveste da ragazzo, e si fa passare per Adrien, un ragazzino scomparso una decina d'anni prima, la cui foto vede in una stazione di polizia dove è in stato di fermo, al quale potrebbe assomigliare: il figlio del capitano di una stazione di pompieri (Vincent Lindon) che sembrano uscire da un video dei Village People versione 2020, un altro disturbato che per combattere l'invecchiamento non esita a riempirsi di iniezioni di steroidi, che pur rendendosi conto che non si tratta di Adrien vuole credere che lo sia e l'accoglie come tale e, al disvelarsi della vera identità di Alexia, non solo l'accetta la ragazza come figlia ma anche, come nonno, la mostruosa creatura cyber-creatura che l'ha aiutata a partorire. Siccome è giusto punirsi per aver deciso di vedere quella che si annunciava come una stronzata galattica, sono rimasto a vedere quello che definire film è arduo fino al termine. Se vi volete male, fate la mia stessa cazzata e andate a vederlo. 

giovedì 7 ottobre 2021

Drive My Car

"Drive My Car" (Doraibu mai kā) di Riūsuke Hamaguchi. Con Hidetoshi Nishijima, Toko Miura, Reika Kirishima, Masaki Okada, Perry Dizon e altri. Giappone 2021 ★★★★★

Fresco reduce dall'Orso d'Argento all'ultima Berlinale per l'ottimo e garbato Il gioco del destino e della fantasia, uscito nelle nostre sale soltanto un mese fa, questa volta Riūsuke Hamaguchi supera sé stesso con un gioiello raro, un film esemplare, che nonostante la notevole durata (tre ore nette) scorre via che è un piacere, per quanto non siano lievi né liete le vicende che portano due persone dai trascorsi molto diversi ad avvicinarsi e capirsi aprendosi, pur con molta circospezione, durante una serie di spostamenti a bordo di una Saab 900 Turbo rossa, coprotagonista del film assieme a Kafuku, un attore e regista teatrale in trasferta da Tokio a Hiroshima, e la sua occasionale autista Misaki. Kafuku vive nel rimpianto della moglie, Oko, a sua volta scenografa, che gli raccontava le sue trame mentre facevano sesso, trovata morta al rientro a casa per un'emorragia cerebrale proprio la sera in cui gli aveva detto che avrebbe dovuto parlargli, e accetta di mettere in scena Lo zio Vanja di Checov per un festival che si tiene a Hiroshima, dove si trasferisce per fare i provini e allestire lo spettacolo e gli viene assegnata la giovane Misaki come autista. Dapprima riluttante ad affidarle l'automobile, a cui è molto affezionato, ben presto ne apprezza la bravura nonché la discrezione e la pazienza con cui ascolta, durante i tragitti, le cassette del dramma che sta preparando. Un film dove la parola svolge un ruolo centrale: prima nel talamo dei due coniugi dove Oko raccontava le sue storie immaginarie che Kafuku traduceva in sceneggiature, poi nel teatro di Hiroshima, nel corso delle audizioni prima e dello studio del testo di Cechov poi, letto ad alta voce dagli attori, ciascuno nella propria lingua madre (non solo giapponese ma anche coreano, mandarino, filippino...), infine nelle pur rare ed essenziali conversazioni che si sviluppano durante gli spostamenti tra Kafuku e Misaki, che si scopre essa stessa reduce da un trauma, la morte della madre in seguito a una frana che ha travolto la casa in cui vivevano, di cui si sente in qualche modo responsabile, evento che l'ha allontanata dalla natìa isola di Hokkaido, nel Nord del Paese; a sua volta, anche la coppia Kafuku-Oko aveva sofferto, prima della morte di lei, quella della loro unica figlia, a 4 anni, che aveva cambiato la vita della madre, attrice, la quale aveva in seguito abbandonato le scene, e il rapporto col marito, con cui nonostante le parole e  l'amore profondo che li legava, s'era creata una frattura di "non detto" o, meglio, non comunicato. Nel rapporto che si instaura tra Kafuku e Misaki saranno invece proprio i silenzi, talora più significativi ancora delle parole, ad essere essenziali per la comprensione reciproca, che passa, innanzitutto, per l'accettazione di sé stessi, cosa che per entrambi avviene per gradi proprio durante la loro, seppur "professionale", frequentazione. Ed è questo il fulcro della storia, la "morale", se vogliamo, che Riūsuke Hamaguchi trae, magistralmente, da uno dei racconti di Murakami Haruki che fanno parte della raccolta Uomini senza donne, con uno stile visivo e di racconto sulla falsariga di quello utilizzato dal grande autore nelle sue pagine scritte, impresa non facile e per questo ancor più meritoria. Tornando all'uso della parola, e a quello correlativo dei silenzi, anch'essi parte essenziale della comunicazione fra persone, è da notare quanto nel cinema orientale, e giapponese in particolare sia sempre essenziale, di solito misurata, evocativa, spesso suggestiva; al contrario di quanto avviene in quello occidentale, dove oltre alla logorrea dominante, all'iperbole, alla battuta ad ogni costo, il vuoto parlarsi addosso raggiunge cime inarrivabili nella commedia francese, tallonata a poca distanza da quella nostrana e spagnola, ma anche gli americani non scherzano per niente. Fumo tanto, arrosto poco, insomma. La profondità, associata alla leggerezza, è un'altra cosa. Questo film ne è un felice esempio, e gli attori scelti a interpretarlo all'altezza. Lo raccomando vivamente.

lunedì 4 ottobre 2021

Quo vadis, Aida?

"Quo vadis, Aida?" di Jasmila Žbanić. Con Jasna Djurić, Boris Isaković, Johan Heldenburg, Raymond Thiry, Emir Hadzihafifbegović, Reinout Bussemaker, Jelena Kordić, Johan Heldenberg, Edita Malovčić, Mario Knezović, Boris Ler e altri. Bosnia ed Herzegovina, Austria, Romania, Paesi Bassi, Germania, Polonia, Francia, Norvegia, Turchia 2020 ★★★1/2

Jasmila Žbanić, regista e sceneggiatrice sarajevese, già aveva scavato nelle ferite lasciate dalle guerre jugoslave degli anni Novanta con Grbavica (in italiano Il segreto di Esma), col quale aveva vinto l'Orso d'Oro alla Berlinale del 2006. Con questo film drammatico, ispirato alla testimonianza del traduttore bosniaco Hasan Nuhanović, che nel 1995 lavorava per i Caschi Blu olandesi incaricati di garantire la sicurezza della zona, racconta l'eccidio di Srebrenica, in cui vennero uccisi 8372 musulmani bosniaci di sesso maschile, esclusi i bambini, e lo fa in maniera impeccabile, ricostruendo con credibilità e il massimo di obiettività per lei possibile le fasi che hanno portato al tragico epilogo e le relative responsabilità: in primis quella del generale Ratko Mladić, comandante delle truppe della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina, condannato all'ergastolo dal Tribunale Penale Internazionale per l'ex Jugoslavia dell'Aja, ma alla pari con gli imbelli militari olandesi e i loro capi, per non parlare dei loro referenti presso l'ONU, irreperibili nel momento di massima necessità. Queste le verità storiche, che emergono dalla vicenda che vede protagonista Aida, una professoressa di inglese che lavora come interprete per i Caschi Blu olandesi all'interno della base di Potočari, un ex capannone industriale dove si erano radunate migliaia di profughi bosniaci, e altre se ne stavano ammassando all'esterno, in fuga davanti all'avanzata delle truppe serbe, che sarebbero entrate a Srebrenica l'11 luglio del 1995, città che era stata dichiarata Zona Sicura, senza specificare cosa significasse e con quali garanzie e mezzi, ma che, in mancanza di copertura aerea, pur più volte sollecitata inutilmente, era caduta nelle mani degli uomini del generale Mladić. Che ne garantiva l'incolumità e il trasferimento a Kladanj, e per questo aveva avviato trattative con gli olandesi e i rappresentanti del profughi, tra cui il marito di Aida, già preside del liceo cittadino. Mentre queste erano in corso, in un fumoso locale del comando serbo, altri uomini dello stesso Mladić si presentavano a Potočari, rimasta sguarnita di ufficiali superiori, pretendendo di entrare nella base per controllare che non vi fossero presenti uomini armati, e seminando così il terrore fra i profughi già provati da giorni di incertezza, fame e disagi. Aida è testimone di tutto questo e anche parte personale: conosce ed è conosciuta dai suoi concittadini che le chiedono di intervenire per potere essere accolti nella base e così forse sfuggire ai serbi, a caccia di vendetta, ma il massimo che otiene è farvi nascondere per una notte il marito e i due giovani figli, che però gli stessi olandesi consegneranno agli uomini di Mladić quando, come da accordi, la base verrà abbandonata e il trasporto dei profughi organizzato: ma riguarderà solo donne e bambini, perché i maschi verranno separati e fucilati in massa nel retro della base stessa. Non sotto gli occhi di tutti ma abbastanza perché non mancassero dei testimoni. Nelle ultime scene Aida tornerà, dopo anni, nella sua città, per il riconoscimento di quanto ritrovato dei suoi cari nelle fosse comuni e nel suo appartamento, per recuperarne delle foto dagli occupanti attuali e ottenerne la restituzione, e tornerà a insegnare inglese ai bambini della scuola locale: una difficile riconciliazione è avviata, vuole dire la regista, e per questo occorre ristabilire la memoria, senza rimuoverla. Come troppi hanno fatto. E qui veniamo al lato dolente della faccenda, che non inficia il valore del film in quanto tale, che va visto, per il suo rigore e la sua onestà e la bravura degli interpreti, in particolare Jasna Djurić, Boris Isaković, nei panni della protagonista Aida e del generale Mladić che, guarda caso, sono entrambi serbi. Il che mi suggerisce la considerazione che, benché in ogni film sulle Guerre Jugoslave vengano regolarmente dipinti come dei malvagi, dei mostri, dei sadici, hanno sempre, già ai tempi, messo in discussione le scelte dei loro dirigenti politici, e successivamente riconosciuto le proprie responsabilità e chiesto scusa, anche per il massacro di Srebrenica, benché il governo serbo si rifiuti, e con qualche ragione, di considerarlo un genocidio. Cosa che non mi è mai capitato di notare con altrettanta chiarezza dall'altra parte, croata o bosniaco-islamica, né nella società civile né nella "narrazione" storica, né nella trasposizione cinematografica. Non ci sono innocenti, in tutte le scelte che hanno portato a quelle guerre. Meno che mai in quella bosniaca. Dove si dimentica spesso che l'indipendenza venne proclamata nel marzo del 1992 in seguito a un referendum forzato e truffaldino a cui non aveva partecipato la "minoranza" serba, che costituiva il 34% della popolazione e abitava un terzo del territorio. Cui era stata negata analoga possibilità di chiedere di rendersi indipendente ed accorpato alla Serbia, e invece avrebbe dovuto accettare di essere governato da una maggioranza (comunque relativa: poco oltre il 40% della popolazione) e per di più islamica. L'altro aspetto che si dimentica è che quest'ultima componente, assieme a quella croata, metteva in campo oltre 250 mila uomini armati, compreso qualche migliaio di jihadisti venuti dall'estero, sostenuti e foraggiati da pressoché tutti i Paesi occidentali (leggi NATO, Turchia compresa), contro gli 80 mila della Republika Srpska, pur coadiuvata da cetnici e paramilitari, appoggiati, di fatto, soltanto da Russia e Grecia. E che ci si trovava in guerra, non a un pranzo di gala, e quella guerra i soldati serbi la stavano vincendo (non a caso l'Impero Austroungarico, conoscendone il valore, li aveva stanziati nelle krajine, zone di frontiera con l'Impero Ottomano, le stesse krajine da cui la Croazia, sempre a proposito di "pulizia etnica", ne avrebbe sloggiati 250 mila dove avevano abitato per oltre 300 anni, offrendo protezione e terre in cambio dell'autodifesa dei territori), e in tutto il film non ci si chiede mai dove fossero finiti i soldati dell'esercito bosniaco, che invece erano spariti lasciando la loro gente da sola in mano agli avversari. Domande di buon senso che, per spirito d'equità, è lecito farsi. Come anche sui Paesi che sono coinvolti nella produzione del film: tutti o quasi quelli che avevano parteggiato per la dissoluzione dell'ex Jugoslavia riconoscendo da subito la dichiarazione d'indipendenza di Slovenia e Croazia e poi quella bosniaca, sostenendo e armando il presidente Izetbegović e l'alleanza bosgnacco-croata (finché ha retto) e avversato in ogni modo la Serbia. L'avevo notato nei titoli di coda e l'ho verificato di nuovo: guarda caso c'è anche la Turchia. Manca solo il Vaticano: ci avrei visto bene lo IOR tra i finanziatori della pellicola. 

venerdì 1 ottobre 2021

Tre piani

"Tre piani" di Nanni Moretti. Con Margherita Buy, Nanni Moretti, Alessandro Sperduti, Riccardo Scamarcio, Elena Lietti, Alba Rohrwacher, Adriano Giannini, Anna Bonaiuto, Stefano Dionisi, Tommaso Ragno e altri. Italia, Francia 2021 👽

Rincresce doverlo ammettere, ma non ricordo di aver visto nell'ultimo anno in film più insulso, inutile, pietoso di Tre piani, che Nanni Moretti ha tratto piuttosto fedelmente da un romanzo dell'israeliano Eshkol Nevo, ambientando in un villino signorile di Prati una vicenda che nell'originale si svolgeva in un analogo quartiere residenziale di Tel Aviv, e che probabilmente riflette la particolare situazione di assedio perenne che affligge la popolazione israeliana anche nella sua città più vivace; qui nient'altro che la psicopatologia della tipica borghesia di Roma Nord. Le vite dei quattro nuclei famigliari che vi abitano vengono sconvolte da un botto: una notte, l'auto guidata a folle velocità da Andrea, ubriaco, figlio di una coppia di giudici (lo stesso Moretti e Margherita Buy) che vive nell'attico, investe e uccide una donna incinta e finisce incastrata nella vetrina dello studio di un vicino di casa. Un evento che avrà le sue ripercussioni nell'immediato, poi a 5 e infine a 10 anni di distanza dal fatto sulle vite di tutti i protagonisti, che vedremo legati da un medesimo destino, il nulla assoluto, nel corso di un decennio. In un limbo di idiozia, banalità, perbenismo, ipocrisia, paura erano, un deserto senza oasi, e nello stesso vi si ritroveranno, una vita trascorsa per niente, senza un minimo, vero cambiamento, senza essere capaci di guardarsi dentro, figurarsi essere in grado di capire il prossimo. Questo nulla il film lo esprime così bene da risultare nullo pure lui. Le l'altre coppie sono un "creativo", interpretato da Scamarcio, capace della stessa espressione di stolida fissità nel corso di due ore di film (e del decennio che racconta) e sua moglie più gli anziani vicini di casa, cui per pigrizia usava affidare la figlia invece di assumere una baby sitter, per poi sospettare un povero vecchio malato di abusarne e rimanerne ossessionato perseguitandolo, salvo rivelarsi incapace di tenere il cazzo nei pantaloni davanti alla nipote di costui, e dando così l'opportunità a Moretti di cimentarsi, con risultati imbarazzanti, nella prima scena erotica (si fa per dire) che ricordi di avere visto in oltre 43 anni di onorata carriera cinematografica. L'ultima coppia è composta da una squinternata, Alba Rohrwacher, lei sì perfetta nella parte che, ormai assuefatta all'assenza del marito per motivi di lavoro (ognuno in questo film è talmente concentrato su sé stesso, ossia sul nulla, da essere incapace di relazionarsi col prossimo), che non si sa come faccia a tirare su due figli piccoli senza conseguenze per loro catastrofiche, pur parlando con corvi immaginari e in preda ad allucinazioni. Come non bastasse la mancanza dell'oggetto, o meglio il sottovuoto spinto, piattume assoluto, nessuno spunto degno di nota salvo la scena, catartica non fosse ancora a metà della pellicola, in cui Andrea si ribella al padre, saccente e odioso, e lo riempie di botte e mette a tacere, per una volta, Moretti. Noia, lentezza, ma soprattutto nemmeno un briciolo di autoironia. E senza di questa, presente pure nei film più riflessivi e anche drammatici dell'autore, non c'è Moretti. Dispiace ma non stupisce, da parte di una delle rare voci lucide di quello che si definiva sinistra in Italia, vista la parabola di quest'ultima. Però mi auguro che si sia trattato di un incidente e che sarà buona la prossima, quando il vecchio Nanni tornerà a raccontare, si spera, una storia sua.