domenica 27 febbraio 2022

Una femmina

"Una femmina" di Francesco Costabile. Con Lina Siciliano, Fabrizio Ferracane, Anna Maria De Luca, Simona Malato, Luca Massaro, Mario Russo, Vincenzo Di Rosa e altri. Italia, 2022 ★★★1/2

Esordio potente, e che lascia il segno, quello del calabrese Francesco Costabile e quello della conterranea Lina Siciliano (bravissima), attrice non professionista, da lui scelta al primo colpo per interpretare il personaggio principale del film che prende spunto dal libro Fimmine ribelli di Lirio Abbate, il quale cura anche la sceneggiatura, in cui il giornalista racconta storie di donne che si sono sottratte al destino di complici della 'ndragnheta e delle sue logiche omertose e familistiche, pagandone spesso un prezzo altissimo: quella di Agata ne racchiude alcune delle più significative. La ragazza, rimasta orfana da bambina, vive assieme a uno zio, Tore,  tiranneggiante erede di una famiglia affiliata a una 'ndrina, alla nonna Berta, la zia Rita e il cugino Natale in un paesino sperduto nella Sila, un ambiente chiuso, soffocante, e dal passato riemergono vaghi ricordi rimossi da parte della famiglia legati alla scomparsa della madre Cetta, finché le diventa chiaro, anche attraverso la frequentazione di Gianni, il giovane custode del locale cimitero, che è stata soppressa per non avere rispettato il codici d'onore e, soprattutto, l'obbligo del silenzio. Sveglia, intelligente, già poco disposta ad accettare un destino preordinato e le sistematiche sopraffazioni dello zio, dalla ribellione, che viene presto soffocata e rimane sterile, passa a meditare la vendetta. Mi limito a dire che la otterrà, ma a carissimo prezzo, ma almeno parzialmente giustizia e chiarezza sarà fatta. Non è il caso di aggiungere altro sulla trama, benché non si tratti di un classico noir, piuttosto di un film che con estremo realismo, e cognizione di causa, mentalità e ambiente, fa calare nella realtà mafiosa che affligge una regione negletta come la Calabria, in particolare quella rurale dell'interno, dove la 'ndragheta e le sue attività che coprono tutto l'orizzonte percepibile, soprattutto quello mentale, è la sola realtà presente e immutabile. L'unica possibilità è tentare di andarsene da una terra maledettamente bella, ma anche questo non riuscirà ad Agata, che dovrà trovare un altro modo, in qualche modo interno alla logica mafiosa, per raggiungere il suo scopo. Film cupo, un bel pugno nello stomaco, che illustra molto efficacemente le dinamiche malate dei rapporti famigliari in un contesto culturale simile: ci vuole un bel coraggio a pensarlo, girarlo e produrlo, e solo per questo andrebbe visto e apprezzato, per quanto abbia delle lacune, che si perdonano volentieri. 

venerdì 25 febbraio 2022

È l’ABC: non occorre un genio…



Condivido e ripubblico l'editoriale di Marco Travaglio uscito oggi sul Fatto Quotidiano, perché sono le stesse cose che chi mi conosce sa che dico da trent'anni, dai tempi della dissoluzione dell'URSS, e ho scritto anche in questa sede in più di un'occasione. E che ribadisce quanto espresso in diverse recenti interviste da Sergio Romano, ex diplomatico di lungo corso e con particolare competenza in materia, essendo stato ambasciatore italiano prima presso la NATO (1983/85) e poi a Mosca (1985/89). Ossia quanto appare lampante a chiunque non parli per partito preso oppure abbia un minimo di  un'infarinatura di geopolitica e storia nonché di memoria, il che non è il caso di chi fa informazione embedded o propaganda.  E questo a prescindere da qualsiasi valutazione etica sulla guerra in generale che, a mio parere, è sempre il risultato dei giochi di potere (un puerile e demenziale a chi ce l'ha più duro: Slavoj Žižek la definisce stupro di impotenti) e degli interessi in denaro sonante di chi sta al governo, in preda a deliri nazionalistici, imperialistici, idolatrie statalistiche, furori ideologici o religiosi, in nome di una "giusta causa", quando non è pure "santa", e combattuta, subita e pagata regolarmente dalla gente comune, il popolo cosiddetto "sovrano" che tale non è mai, sotto alcun regime. Perché così stanno le cose, se non si vogliono confondere i desideri (o le fantasie) con la realtà, che ci piaccia o no. E a me procura un certo ribrezzo.

Zitti e Mosca

L’attacco criminale di Putin all’Ucraina è un post scriptum degli imperialismi del XX secolo, totalmente fuori sincrono rispetto al comune sentire delle opinioni pubbliche mondiali. Non solo per le nuove generazioni che la guerra, fredda o guerreggiata che fosse, l’hanno letta sui libri di storia, ma anche per quelle che l’hanno vissuta e poi archiviata. Per questo lascia la gente senza parole e rende false e vuote le parole dei governanti che ne sono prodighi. Quelli che menano le danze, Putin e Biden, sono due cascami del Novecento che stanno per compiere 70 e 80 anni, formattati mentalmente nel vecchio mondo che ora rispunta dalla tomba come gli zombi. Con una differenza: Putin parla a un popolo che non dimentica nulla, tantomeno la sua vocazione nazionalista ancora frustrata dal crollo dell’Urss e dalle provocazioni dell’Occidente che ha fatto di tutto per umiliarlo, violando l’impegno di non allargare la Nato a Est; Biden parla a un popolo che non ricorda quasi nulla, salvo i tributi di sangue pagati a far guerre in giro per il mondo, perdendole drasticamente tutte dal 1945. Quindi la guerra non toglie consensi a Putin (a meno che la perda), ma ne toglierebbe parecchi a Biden (che già ne ha pochi) col rischio che ne approfitti la terza potenza, quella tragicamente più al passo coi tempi: la Cina. Quanto a noi, cittadini della cosiddetta Europa, pagheremo il solito tributo di soldi per conto terzi, passando da uno stato d’emergenza (sanitario) a un altro (bellico). Con l’aggravante – per noi italiani – di doverci pure sorbire il cinepanettone delle Sturmtruppen in servizio permanente effettivo, che trasformano le peggiori tragedie nell’eterna commedia all’italiana.

“Noi l’avevamo detto”. È il mantra dei Nando Mericoni a mezzo stampa (“Pronto-Amerega-me-senti?”), che da tre mesi si calano l’elmetto sul capino e rilanciano ogni giorno le veline della Cia sull’invasione russa “tra oggi e domani” e ora, dopo aver fatto e rifatto lo stesso titolo fasullo, si vantano di averci azzeccato. Come se il compito dell’informazione fosse ripetere cento volte una fake news sotto dettatura (“oggi piove”) e poi, quando la centunesima volta si avvera, fingere che fosse sempre stata vera (“visto che oggi piove?”). E come se drammatizzare urlando “Al lupo! Al lupo!” non fosse il modo migliore per sdrammatizzare: un regalo al lupo che, quando arriva, non ci crede o non si scandalizza più nessuno. Ora semmai qualcuno si chiede come mai l’amico americano, se sapeva tutto da mesi, ha lasciato l’Ucraina così impreparata e sola dinanzi all’attacco.

“Legalità internazionale”. Bei tempi quando qualche governo poteva insegnarla agli altri.Oggi non ci sono “buoni” titolati a dare lezioni ai “cattivi” russi, visto che Usa e Ue si sono macchiati di guerre illegali e criminali (peggio ancora se avallate dall’Onu) in ex-Jugoslavia, Afghanistan, Iraq, Libia, Somalia e via bombardando.

“Ci vorrebbe l’Europa”. Fa il paio col “non ci sono più le mezze stagioni”. L’Europa politica e militare non è mai nata per non dispiacere al residuato bellico della Nato (a 31 anni dalla fine del Patto di Varsavia), con alleati indecenti come la Turchia (impegnata a sterminare i curdi nel silenzio degli atlantisti). Finché accetteremo che lo Zio Sam faccia casini in giro lasciandoci il conto da pagare, in termini di migranti (Libia e Afghanistan), terrorismo (Iraq), affari mancati (Cina) e bollette (Ucraina), resteremo il vaso di coccio fra due potenze che si rafforzano a scapito nostro. E piangere sull’Europa che non c’è non sarà solo inutile: sarà ridicolo.

“Tremenda vendetta!”. Posto che, in base ai trattati, la Nato non può inviare truppe in Ucraina, la reazione sarà in forma di parole e di sanzioni. Le parole abbondano e mettono tutti d’accordo. Ma Putin le snobba, anzi le capitalizza agli occhi del suo popolo e del suo establishment(che l’altroieri era tutt’altro che allineato e coperto). Altra cosa sono le sanzioni, che per la Ue escludono gas e banche, per gli Usa no. Su questo conta Mosca: quando si passerà dalle parole ai fatti, il fronte occidentale si rivelerà pura finzione.

“Abbasso i putiniani!”. La caccia agli amici di Putin scatenata dai giornaloni e dal Pd c’entra poco con la guerra in Ucraina e molto con le guerricciole da buvette di Montecitorio: serve a screditare Salvini (che con e sulla Russia ne ha dette e fatte di tutti i colori, ma Putin manco lo conosce) e Conte (reo di un approccio multilaterale in politica estera, peraltro in linea con la tradizione diplomatica italiana, da Moro ad Andreotti, da Prodi a D’Alema allo stesso Frattini). Altrimenti sul banco degli imputati ci sarebbe anzitutto B., quello dei festini con l’amico Vlady nella dacia e a villa Certosa, delle sceneggiate a base di lettoni e plaid trapuntati, delle leccatine alle democrazie-modello di Putin e Lukashenko. Invece è tutto prescritto, in vista del campo largo di Letta (zio e nipote).

“Finché c’è guerra non si tratta”. È la linea di Biden, dunque di Draghi. Ma quando si dovrebbe trattare: in tempo di pace? I negoziati servono quando si combatte, per ottenere tregue e poi trattati. E a mediare non è adatto chi è intruppato in una fazione. Perciò servirebbe, in Europa, qualcuno che tenga una postura più terza e meno appiattita sugli Usa. O almeno che si levi l’elmetto, guardi al di là del proprio naso e scopra ciò che è ovvio dalla notte dei tempi: gli amici te li puoi scegliere, i nemici no.

martedì 22 febbraio 2022

Leonora addio

"Leonora addio" di Paolo Taviani. Con Fabrizio Ferracane, Matteo Pittiruti, Dania Marino Dora Becker, Claudio Bigagli, Massimo Popolizio, Nathalie Rapti Gomez, Giulio Pampiglione, Martina Catalfamo, Freddy Drabble. Italia 2022 1/2

E' senz'altro degno di ammirazione che a 91 anni Paolo Taviani, il sopravvissuto della più celebrata coppia di fratelli del cinema italiano, abbia ancora voglia di mettersi dietro la macchina prendendo spunto dalla curiosa vicenda della traslazione delle ceneri di Luigi Pirandello nella natìa Sicilia, cercando di coglierne gli aspetti grotteschi, ciò non toglie che risulti un pippone quasi insopportabile: benché duri soltanto, e per fortuna, 90', non regge la prova orologio, che ho compulsato almeno 10 volte durante la visione della pellicola. Quindi non vi ammorbo a mia volta con il mio pensiero sull'opera dei Taviani e vi rimando a quanto scritto a proposito di Una questione privata. Qui siamo da capo: cinema stantìo, che spesso indulge all’estetica dello squallore facendolo passare come "cinema verità e di impegno civile", l'estetica e l'orizzonte culturale rimane sempre quello del PCI togliattiano (un altro "Migliore", il Palmiro, precursore di quello che è al capo del governo al giorno d'oggi) degli anni Cinquanta e Sessanta, così come l'intento sempre dogmatico, pedantesco e paternalista e l'animo sostanzialmente bigotto. Del resto il catto-comunismo ha tanti punti in comune col clerico-fascismo, benché pretenda di esserne l'opposto: io sono sempre stato convinto di no, e quindi non apprezzo. Pirandello (che peraltro non ho mai amato né capito, quindi colpa mia essermi inflitto la visione di Leonora addio), Premio Nobel per la letteratura nel 1934 e scomparso a Roma due anni dopo, aveva espresso la volontà di venire cremato e di non avere funerali in pompa magna e che le sue ceneri, possibilmente, fossero disperse nelle campagne della terra natìa, in Sicilia. In un primo tempo i suoi resti furono tumulati nel cimitero del Verano a Roma, e lì rimasero custodite durante il periodo bellico; ma subito dopo la guerra un dirigente del Comune di Agrigento fu inviato nella capitale per recuperarle e trasportarle nella città natale dello scrittore, e metà del film racconta del viaggio che fecero, in uno scalcagnato vagone di un treno a vapore, dopo che venne annullato un volo speciale ottenuto da De Gasperi in persona dall'USAF perché gli altri passeggeri si rifiutavano di volare con "il morto a bordo". E dàgli con il luogo comune dell'italiano inguaribilmente scaramantico (ma tanto pitorescou), così come del povero ma bello, dell'immancabile e interminabile scena di ballo, onnipresente in qualsiasi film nostrano, manco fossimo un Paese di scimmie tarantolate, al di là della credibilità di un vagone merci trasformato in sala da ballo con tanto di pianista che suona tipo "saloon", il tutto in bianco e nero che fa tanto vintage e neorealismo (farlocco). L'ultima parte del film, girata invece a colori, si svolge tra la Sicilia e New York ed è la riduzione dell'ultimo lavoro di Pirandello, Il chiodo, che racconta l'omicidio compiuto da un ragazzino siciliano che il padre ha portato con sé a forza, staccandolo dalla madre, il quale ha accoppato con l'oggetto in questione una ragazzina che stava litigando con un'altra: pura masturbazione mentale sull'emigrato involontario e infelice. C'è a chi piace, e allora questo film fa per lui. Paolo Taviani ha mestiere, non c'è dubbio, ed è anche bravo a trovare filmati d'epoca che utilizza specialmente nella prima parte del film; alcuni degli interpreti, a cominciare da Ferracane nella parte del funzionario che recupera i resti e Bigagli nel gustoso cameo del vescovo agrigentino risultano molto efficacie ben scelti, altri meno; alcune sciatteria, come la tedesca alsaziana doppiata da cani sono imperdonabili: eppure in Italia vivono almeno 300 mila persone madrelingua tedesche a cui affidare il compito e altrettante capaci di farlo bene, a invece no. Come se non bastasse la noia infinita del film, sono cose che indispongono ulteriormente. Io, almeno, la vedo così. 

domenica 20 febbraio 2022

Piccolo corpo

"Piccolo corpo" di Laura Samani. Con Celeste Cescutti, Ondina Quadri, Marco Geromin, Giacomina Dereani, Luca Sera, Anna De Bernardis e altri Italia, Francia, Slovenia 2021 ★★★★

Parafrasando il titolo, quello d'esordio di Laura Samani, regista e sceneggiatrice esordiente nel lungometraggio dopo un paio di "corti", è un piccolo, grande film: una favola dolente, ma non piagnucolosa; essenziale, ma attentissimo ai dettagli; duro come i paesaggi che la protagonista, Agata, deve attraversate nel suo doloroso viaggio, ma pieno di poesia. Siamo all'inizio del secolo scorso e Agata abita in un'isola di pescatori della Laguna Veneta settentrionale (immagino dalle parti di Marano) e nonostante i rituali propiziatori (alcune gocce di sangue della giovane sparse in mare) partorirà morta la sua prima figlia: secondo la tradizione cristiana non è possibile battezzarla e la sua anima è destinata a rimanere in eterno nel Limbo. La ragazza non si rassegna e la perpetua, intenerita, la indirizza verso un vecchio saggio locale che le rivela che in una remota vallata friulana, su per le montagne che si intravedono a Nord, c'è un saltuario dove per un attimo, il tempo di un respiro, si riportano in vita i corpi dei bambini nati morti: giusto il tempo per dare loro un nome e toglierli dal nulla a cui sarebbero destinati. Agata parte di nascosto con in spalla la cassetta che custodisce il corpo della neonata, voga fino alla terraferma e si inoltra in un mondo per lei sconosciuto: già nella boscaglia rischia di perdersi se non incontrasse Lince, un ragazzo ambiguo, che non dice nulla di sé, che le indicherà il cammino verso le montagne. Prima rischia di essere costretta a fare la balia per dei signori locali, ma durante il trasferimento il carro su cui viaggiano viene assalito da un gruppo di briganti la cui capa, accortasi delle condizioni della puerpera, lascia liberi di proseguire lei Lince, col quale Agata stringe un patto: gli darà metà di ciò che contiene la cassetta se lui la scorterà al santuario, che si trova dalle parti di dove è nato lui. Il viaggio e la crescente confidenza fra i due costituiscono la parte centrale del film, che molto deve al modo di raccontare di Ermanno Olmi, maestro nel dipingere quell'Italia rurale che sembra distante anni lice e invece è dietro l'angolo: cento anni non sono molti. E' anche la storia della resistenza di una donna all'idea che continua a esserle insinuata che dimenticherà il dolore perché di figli tanto ne arriveranno altri: per lei quella figlia nata morta è unica, e il dolore resterà invariato finché non potrà darle almeno un nome e liberarla da quel nulla rappresentato dal Limbo, e l'unicità di quella maternità è il fulcro del film, parlato sia in veneto sia in friulano, dialoghi scarni e pertanto comprensibili nel loro senso anche senza la necessità che vengano sottotitolati in italiano. Molto brave le due interpreti, Celeste Cescutti nella parte di Agata e Ondina Quadri in quelli di Lince, ottima la regia della triestina Laura Samani, una giovane autrice da seguire. 

venerdì 18 febbraio 2022

After Love

"After Love" di Aleem Khan. Con Joanna Scanlan, Nathalie Richard, Talid Ariss, Nasser Nemarzia, Seema Morar e altri. GB 2020 ★★★★

Eccellente esordio nel lungometraggio dello scrittore e regista britannico d'origine pakistana Aleem Khan, finora autore di alcuni apprezzati cortometraggi, e una superba interpretazione di Joanna Scanlan nei panni di Mary, un'inglese di mezza età, convertita all'Islam per amore del marito, Ahmed, un ufficiale di marina commerciale pakistano sulla rotta tra Dover e Calais, rimasta improvvisamente vedova, che scopre la doppia vita del marito dopo aver trovato la carta d'identità di una di una donna sconosciuta, Geneviève, nel suo portafogli e una serie di messaggi inequivocabili sul suo cellulare. Decide quindi di recarsi a Calais per affrontarla, pur essendo assalita dai dubbi su come fare e cosa dirle. La salva dall'imbarazzo proprio Geneviève, l'altrettanto brava Nathalie Richard, che vedendola titubante davanti alla porta di casa la scambia per la donna delle pulizie mandata dall'agenzia che aveva contattato per sistemare la casa nell'imminenza di un trasloco. Mary sta al gioco, e ha così occasione di osservare attraverso gli oggetti che si trovano nell'abitazione e la problematica inetrazione tra la donna francese il figlio Solomon, un ragazzo adolescente che non si capacita delle continue assenze del padre, ancora più agitato perché da giorni non risponde al cellulare, e che vorrebbe trasferirsi da lui in Inghilterra, le dinamiche dell'altra famiglia di Ahmed, per quanto "irregolare". Se Mary è il personaggio principale, e inizialmente lo spettatore vede scoprire i contorni di una diversa verità attraverso i suoi occhi, man mano che la storia procede entrano in gioco anche sentimenti e motivazioni degli altri protagonisti, e il loro punto di vista sulla relazione con il compagno e padre. Passa del tempo prima che Mary sveli alla "rivale" di essere la moglie inglese di cui Geneviève era a conoscenza ma di cui non voleva sapere nulla, conscia che Ahmed non l'avrebbe mai abbandonata, mentre la notizia non sconvolge più di tanto Solomon, che nel frattempo ha sviluppato una buona intesa istintiva con Mary, anche grazie ai manicaretti pakistani che lei ha occasione di preparargli e a colloqui che hanno in lingua urdu, che è un terreno comune su cui riescono a capirsi almeno per l'essenziale, essendo un idioma acquisito per entrambi. In una vicenda che ha al centro la scoperta di una verità sconosciuta e il diverso modo di vederla e affrontarla, simboleggiato anche dal fatto che le due donne vivono in realtà speculari come le due città che si fronteggiano su quello stretto, ma per molti aspetto largo tratto di mare, pur senza cadere nello sdolcinato e nel buonismo d'accatto, emerge anche l'opportunità di mettersi nei panni dell'altro, e per Mary sarà anche l'occasione per elaborare non solo il lutto per la morte del marito e quello per il suo tradimento, ma anche uno più lontano, la perdita della figlia morta alla nascita, che aveva avuto con Ahmed. Un film intelligente, composto, essenziale, ma anche molto suggestivo, che si affida più alle espressioni degli interpreti che alle parole, e che suggerisce anche temi diversi da quelli della doppia vita dello scomparso, a cominciare dall'abbraccio della fede musulmana per amore da parte di Mary. Un debutto davvero promettente per un giovane talento dal sicuro avvenire.   

mercoledì 16 febbraio 2022

A White, White Day

"A White, White Day - Segreti nella nebbia" (Hvítur, HvíturDagur) Hilynur Palmason. Con Igvar Eggert Sigurosson, Ída Mekkín Hlynsdóttir, Hilmir Snaer Guonasson, Björn Ingi Hillmarsson, Elma Stefania Agustsdottir, Sara Dögg Ásgeirsdóttir, Laufey Eliasdóttir e altri. Islanda, Danimarca, Svezia 2019 ★★★1/2

Vincitore del Torino Film Festival di tre anni fa e ben accolto nelle sale europee, il secondo lavoro di Hilynur Palmason è un pregevole e inconsueto noir psicologico, che vede protagonista Ingimundur, il capo della stazione di polizia di uno sperduto paesino islandese in congedo per lutto dopo aver perso la moglie, morta in seguito a un inspiegabile incidente automobilistico. Lo seguiamo lungo l'arco delle stagioni che si susseguono in un anno elaborare il dolore mentre si dedica alla ristrutturazione di una casa dove andrà ad abitare la figlia e occupandosi della nipotina Salka, di otto anni (i rispettivi interpreti, assieme al breve cameo della Asgeirsdóttir nella parte della moglie de poliziotto, sono una spanna sopra gli altri). Quando gli viene consegnata una scatola contenente gli effetti personali della moglie scomparsa, e ne prende visione, il vago sospetto della sua infedeltà diventa certezza man mano che, partendo da alcune tracce, si mette a indagare: del resto non può farlo professionalmente, perché le sedute di psicoterapia obbligatorie a cui è sottoposto da regolamento lo tengono ancora lontano dal lavoro in quanto soggetto a rischio presunto di suicidio (se uno non ci è portato di suo, uno psichiatra scandinavo è in grado di indurlo all'azione, a meno che non opti per sopprimere il terapeuta), ma l'istinto dell'investigatore prende il sopravvento, e finisce per scoprire il cornificatore, un uomo che del suo stretto giro di conoscenza che dovrebbe essere un suo amico (sempre secondo i parametri scandinavi). Il quale se la vede brutta davanti alla crescente ossessione di Ingimundor, che diventa furia quando ha la pessima idea di farsi raccontare i dettagli intimi della tresca. Questa è la trama, in sintesi, e potrebbe dirsi una sorta di "dramma della gelosia in salsa vichinga" ma non è il succo della storia, che è invece una sottile radiografia di uno stato d'animo che passa dall'amore all'odio e viceversa, da una perdita a una sorta di riconquista o riconsiderazione del rapporto letto da un'altra prospettiva, e il cui giudizio non si può appiattire sull'onta di un tradimento in qualche mondo postumo; la nebbia cui accenna il titolo è quella che avvolge i fatti ma anche i sentimenti del protagonista, che scopre lati oscuri di sé durante questa indagine che probabilmente è la più scomoda della sua carriera, perché non riguarda tanto la moglie fedifraga e il falso amico, ma sé stesso e la sua visione delle cose. Altro aspetto fondamentale è il rapporto con la nipotina (bravissima la giovanissima Ída), intensissimo e specchio dei tormenti di Ingimundur, interpretato in modo encomiabile da Igvar Eggert Sigurosson, sul quale il regista, anche nella veste di sceneggiatore, ha cucito con abilità sartoriale il personaggio. Buon film, particolarmente consigliato a  chi ha apprezzato la serie televisiva Trapped trasmessa su Netflix.

domenica 13 febbraio 2022

Takeaway

"Takeaway" di Renzo Carbonera. Con Carlotta Antonelli, Libero De Rienzo, Primo Reggiani, Paolo Calabresi, Anna Ferruzzo, Camillo Grassi e altri. Italia, Germania 2021 ★★★1/2

Secondo film di finzione di Renzo Carbonera dopo il promettente Resina, in cui le doti documentaristiche del regista friulano tornano utili per narrare una storia storia emblematica che da un lato affronta il problema del doping nelle competizioni sportive, e dall'altro, come nel film precedente, l'impatto che le aberranti logiche mercatistiche e competitive che dominano la vita delle metropoli, ma anche l'onda lunga della crisi finanziaria che ha investito il mondo globalizzato dopo la bancarotta della Lehmans Brothers nel settembre del 2008 (anno in cui si svolge la vicenda), hanno su realtà piccole e isolate. Anche in questo caso si tratta di una comunità montana, la località è il Terminillo, la "montagna dei romani", desolatamente deserto fuori dalla stagione turistica che comunque, colpita dalla crisi economica, si preannuncia ben poco promettente. Lì si è rifugiato Johnny (Libero De Rienzo alla sua ultima interpretazione prima della morte avvenuta nel luglio scorso), un ex preparatore atletico che ha lavorato nell'ex DDR, a suo tempo radiato dalla federazione atletica per l'utilizzo di sostanze vietate, che gestisce un distributore di carburante con annesso spaccio (Takeaway è il nome del locale), il quale vive con Maria (la bravissima Carlotta Antonelli), figlia di albergatori locali, una giovane marciatrice che intende passare al professionismo, con il sostegno del padre, che vede attraverso lei un mezzo per riscattarsi, e si rende disponibile a finanziare il genero per l'acquisto dei supporti farmaceutici necessari per incrementare le prestazioni della ragazza; più perplessa la madre, una depressa cronica impasticcata pure lei pesantemente per conto suo, che preferirebbe concentrare gli investimenti sulla ristrutturazione dell'albergo di famiglia, per renderlo più gardevole con l'illusione di attirare nuovamente la clientela persa nelle ultime, sempre più magre, stagioni. Maria è perplessa ma continua ad allenarsi duramente accettando di prendere gli intrugli che le propina il compagno e allenatore, che se li è procurati per diverse migliaia di euro attraverso un chimico con cui aveva già intrallazzato in passato, il quale la "lavora" anche psicologicamente, inculcandole la mentalità "vincente" che, coniugata secondo il suo modo di vedere, significa che ogni mezzo è lecito, purché non si venga scoperti, per ottenere lo scopo, che è sempre e comunque la vittoria, a costo di malori e crisi da scompenso che, a suo modo di vedere, fanno parte di un gioco (la conquista di un podio che conta) che vale la candela. La ragazza entra ancora più in conflitto con sé stessa quando conosce Tom, venuto a eseguire i lavori nell'albergo dei genitori, un ex mezzofondista la cui carriera e salute sono state compromesse proprio da Johnny, che lo allenava a suo tempo, e finirà per autodenunciarsi. Una brutta storia, più diffusa di quel che gli ambienti sportivi vogliano fare credere, che ha un relativo lieto fine, raccontata in modo semplice, con pochi ma significativi dialoghi, soprattutto attraverso le immagini: quella dei snervanti e faticosi allenamenti della ragazza, dei sordidi maneggi di Johnny, del sostanziale menefreghismo dei genitori, volutamente ciechi davanti all'evidenza e quindi conniventi, da cui emerge il malinteso lato motivazionale, l'imperativo di apparire ed essere ammirati e riconosciuti dagli altri, che diventa l'unico scopo dell'attività agonistica. Un film ben poco compiacente, un bel pugno nello stomaco per chi non vuol vedere né sapere, insolito, fuori dal coro e che dà da pensare. E vale la pena vedere.

giovedì 10 febbraio 2022

Stringimi forte

“Stringimi forte” (Serre-moi fort) di Mathieu Amalric. Con Vicky Krieps, Arieh Worthalter, Aurelia Petit, Anne-Sophie Bowen-Chatet, Juliette Benveniste, Sacha Ardilly, Aurèle Gzresik, Erwan Ribard, Cuca Bañeres Flos e altri. Francia 2021 ★★+

Coi film francesi è una questione matematica: per una volta che caschi bene (l'ultima è stata con Ozon), le altre due rimani invariabilmente deluso, o perché è una vera e propria merda, oppure perché un pippone incomprensibile. E' il caso di questa pellicola di Mathieu Amalric, che ritorna nella veste di regista anziché in quella abituale di attore, il quale porta sullo schermo un lavoro teatrale di Claudine Galéa, Je reviens de loin, che racconta la fuga di una giovane donna e madre, Clarisse, da una realtà che non può sopportare, in sostanza il tentativo, fallito, dell’elaborazione di un tremendo lutto che l'ha colpita. E tra reale e fittizio, su due piani altalenanti, si muove tutto il film, iniziando dalla fuga della giovane donna a bordo di una station wagon  una mattina all'alba, mentre la famigliola dorme, per andare a vedere il mare della Bretagna, con frequenti flash back e flash forward che si alternano a scene di vita quotidiana (immaginaria) in un ridente borgo della campagna francese; cartoline, o meglio istantanee abbastanza slegate tra loro, con un contrappunto musicale scelto con indubbia accuratezza (la figlia di Clarisse, Lucie, ha la passione del piano e la madre ne disegna il percorso di bambina prodigio fino a un'audizione per essere ammessa al conservatorio di Parigi). In buona sostanza, come nel recente America Latina dei gemelli D'Innocenzo, è un viaggio nella psiche allucinata del personaggio principale, alle prese con il dolore e con i propri fantasmi, ma il risultato è ben diverso: lì lo spettatore finiva per immedesimarsi col protagonista, calando nei suoi abissi mentali; qui proprio non ci riesce: la Krieps, pur molto brava nel rendere lo straniamento e la sostanziale afasia di Clarisse (a parte quando inveisce in un tedesco improbabile per una che di mestiere dovrebbe fare la traduttrice, e ancor più per un'attrice lussemburghese che lo pronuncia come Matteo Renzi l'inglese, è imperdonabile) non ha nemmeno lontanamente la potenza di un Elio Germano, che non ha bisogno di un profluvio di parole che sembrano buttate lì a caso per esprimersi e comunicare la sua sofferenza interiore. Ora io sarò anche prevenuto nei confronti dei francesi, anche se non manco di riconoscere i loro meriti quando è il caso, e da tempo sostengo che nel loro cinema, salvo eccezioni, l'espressione verbale ha il sopravvento sull'immagine, il che si spiega con la loro insopportabile propensione alla logorrea, però il pubblico relativamente numeroso presente in sala, probabilmente richiamato dall'entusiastica accoglienza di questo film da parte della critica "professionale", quando si sono riaccese le luci  era decisamente perplesso e si scambiava domande sul senso della storia: nessuno ci aveva capito nulla, nonostante i minuti finali suggeriscano una traccia plausibile. I giudizi generali non mi sono sembrati in linea con quelli letti sui giornali e propinati dagli "esperti". Per quanto mi riguarda, benché la durata sia di poco superiore all'ora e mezzo, sintomatica è stata la "prova orologio": dopo i primi venti minuti cominciavo già a compulsarne lo schermo, segno inequivocabile di rottura di coglioni. Non un brutto film, questo non si può dire, ben girato e interpretato ma noioso, verboso, pretenzioso, inutilmente virtuosistico. Non mi sento di stroncarlo brutalmente, ma nemmeno di consigliarlo. Però se avete voglia di una dose di onanismo intellettuale, ecco: benserviti.

martedì 8 febbraio 2022

La fiera delle illusioni - Nightmare Alley

"La fiera delle illusioni - Nightmare Alley" di Guillermo del Toro. Con Bradley Cooper, Cate Blanchett, Rooney Mara, Willem Defoe, Toni Collette, Ron Perlman, David Strathairn, Richard Jenkins, Mary Steenburgen, Tim Blake Nelson e altri. USA 2021 ★★★★

Filmone cupo, denso, immaginifico, un noir visionario ma immerso in un'atmosfera estremamente realistica, grazie a un'ambientazione, a cavallo degli anni Trenta e Quaranta, accuratissima e a una fotografia di grande spessore, che se occorre conferma ancora una volta il talento del regista di origine messicana, una delle poche vere stelle espresse da quella Fiera delle Illusioni che è Hollywood, ovvero il titolo in italiano della pellicola, che racconta la parabola circolare di Stanton (Stan) Carlisle, molto ben reso da Bradley Cooper, da tempo una certezza anche lui, un giovane perspicace e ambiguo, con un passato da parricida da seppellire, che, dopo aver girovagato nell'America ancora immersa nella Grande Depressione, trova lavoro un un circo itinerante, dove diventa custode della grande attrazione: l'uomo bestia, che si nutre di polli vivi, un poveraccio alcolizzato reso schiavo da una micidiale mistura di metanolo e oppiacei. Nel frattempo, impara i trucchi del mestiere da una chiaroveggente, Zeena (Toni Collette), e a carpire i principi del mentalismo da suo marito Pete, non più in grado, data la sua dipendenza dall'alcol, di prodursi nel numero: farà una brutta fine, ma Stan carpirà il suo libretto con i preziosi appunti. Salvato il titolare dalla chiusura del circo grazie a un numero di illusionismo esercitato sui poliziotti venuti a indagare sulla presenza di casi di umani schiavizzati e di alcolici (vigeva ancora il protezionismo), e messi gli occhi su Molly (Rooney Mara), un'altra circense sotto la protezione del padrone della baracca, si trasferisce con lei in città e diventano famosi lavorando in coppia in numeri di illusionismo nelle sale dei migliori alberghi di Buffalo, in spettacoli per l'élite della città. Lì incrocia, per sua fortuna all'inizio e dannazione poi, la glaciale e quanto lui ambigua psicologa Lilith Ritter, una grandiosa Cate Blanchett, che sarà la sua nemesi: dubbiosa delle sue capacità lei lo sfida ma lui sarà capace di smentirla e ha la malaugurata idea di umiliarla in pubblico. Benché fra simili si attraggano, inizino una relazione e architettino il modo di sfruttare le doti di lui e le confidenze ricevute professionalmente da lei da alcuni facoltosi e potenti clienti, sfruttando i loro sensi di colpa e facendo loro credere di poterli mettere in contatto coi trapassati, in un caso il figlio morto in guerra di un giudice, nell'altro l'amante di un ricchissimo imprenditore. In un crescendo di nefandezze, finirà male, molto male per Brad, che tornerà dalle tenebre da dove è venuto. Guillermo del Toro ama i mostri, immancabili nei suoi film, ultimo dei quali La forma dell'acqua; qui lo sono tutti o quasi gli umani, e il meno mostruoso è proprio Enoch, un feto con un occhio solo conservato sotto formalina e imbottigliato, che ricorre come memento nel corso di tutta la vicenda. Un film avvincente, che cattura lo spettatore e lo avvinghia alla poltrona, incurante della durata, che arriva alle due ore e mezzo. 

domenica 6 febbraio 2022

Miracoli metropolitani


"Miracoli metropolitani" di Gabriele Di Luca/Carrozzeria Orfeo. Regia di Gabriele Di Luca, Massimiliano Setti, Alessandro Tedeschi. Con Elisa Bossi, Ambra Chiarello, Federico Gatti, Beatrice Schiros, Massimiliano Setti, Federico Vanni, Aleph Viola. Musiche originali di Massimiliano Setti; scenografie e luci di Lucio Diana; costumi di Stefania Cempini. Una coproduzione Marche Teatro/Teatro dell'Elfo/Teatro Nazionale di Genova/Fondazione Teatro di Napoli. Al Teatro PalaMostre di Udine il 4 febbraio 2022. Qui le prossime tappe 

Questa volta i "carrozzieri" mantovani, che solitamente vedo al Teatro dell'Elfo di Milano il quale, anche in questa occasione, coproduce il loro spettacolo, sono venuti a domicilio, per una tappa in Friuli, e non potevo farmeli sfuggire, evitandomi così peraltro una trasferta di 800 chilometri complessivi. L'atto unico, della durata di 135' a un ritmo indiavolato che tiene ben desta l'attenzione di una platea finalmente piena, si svolge proprio all'interno di una ex carrozzeria, dove una famiglia sgangherata, come spesso sono quelle dipinte con sarcasmo da questa affiatata compagnia, ha messo in piedi un'impresa che si dedica alla preparazione di cibo per celiaci, in costante aumento assieme al tasso d'inquinamento, contraffazione degli alimenti (guarda caso) e a quello di disoccupazione (ormai giunto al 62%) che affligge il mondo esterno, da cui giungono notizie via radio o TV sempre più allarmanti: le fogne tracimano di rifiuti tossici ed escrementi, la città è invasa da liquami mefitici e la popolazione, sempre più allarmata anche su istigazione di politici irresponsabili che attribuiscono ogni responsabilità agli immigrati e che per distrarre la cittadinanza dai problemi veri si concentra sulla caccia ad essi, è rinchiusa in casa: non per il Covid19, bensì come conseguenza di un modo di produrre e consumare demenziale. In questo universo claustrofobico e non troppo distopico, si muovono otto personaggi (uno è il rider che porta le consegne e non si vede mai: un ex professore universitario libanese): Plinio, un ex chef stellato ridotto a cucinare cibo di merda con materiali di dubbia provenienza; sua moglie Clara, ex lavapiatti ambiziosa e arrivista che vive sui social e dirige la baracca, interpretata dalla instancabile e bravissima Beatrice Schiros; suo figlio di primo letto Igor, emotivamente instabile e disadattato, rincoglionito dai videogiochi; il travolgente Mosquito, un carcerato in semilibertà e aspirante attore che alterna provini alle consegne, Hope, la sguattera, poi aiuto e infine promossa cuoca, un'etiope da passato misterioso che nasconde un segreto; alla congrega si aggiungono Cesare, un ex insegnante aspirante suicida entrato in contatto con Clara per un equivoco nato in internet e, chicca finale, Patty, ma madre di Plinio, un residuato degli anni della contestazione sfociati in quelli di piombo, femminista e militante non pentita. Come sempre con gli "Orfei" è tanta la carne al fuoco, i temi sono d'attualità e ben reali, anche se non se ne parla preferendo deviare l'attenzione sulla pandemia o, come di recente, sulla pantomima quirinalizia o, ancora, lo scemenziario di Sanremo, e vengono affrontati con ironia, sarcasmo, evidenziando i lati grotteschi e la sostanziale solitudine dell'uomo, alla disperata ricerca di un qualcosa a cui aggrapparsi, ultimo ritrovato allo scopo lo smartphone e l'illusione di crearsi un'esistenza parallela e puramente virtuale, per dimenticare la merda che, letteralmente, è sul punto di sommergerci. Tutto in forma di una commedia briosa, spigliata, irriverente, messa in scena da un gruppo assai ben rodato che conosce alla perfezione i meccanismi della comicità e che è sempre un piacere vedere all'opera. Comunque, se si ride molto e a scena aperta, il finale è piuttosto amarognolo e lascia il segno nonché spazio alla riflessione. Bravi. 

venerdì 4 febbraio 2022

Tiepide acque di primavera

 

"Tiepide acque di primavera" (Chun jiang shui nuan) di Xiaogang Gu. Con Zhenyang Dong, Hongjun Du, Wei Mu, Luqi Peng, Youfa Qian, Zhangjian Sun e altri. Cina 2019 ★★★★

Pittorico è l'aggettivo che meglio descrive questo film d'esordio di Xiaogang Gu, e primo di una trilogia che il regista cinese ha in progetto, e del resto il titolo originale è lo stesso di quello di un celebre dipinto della metà del 14° secolo di Huang Gongwan, costituito da un rotolo lungo ben sei metri, e pittorici sono gli scorci lungo il fiume Fuchun e le montagne che lo circondano, che Gu va a cercare fra quelli che rimangono intatti nel panorama della cittadina lacustre di Fuyang, un tempo placido centro rivierasco dedito alla pesca, stravolta a partire dall’inizio della fase di transizione economica avviata da Deng Xiao Ping, che ha subito un'accelerazione dal 1989 in poi, quando ha ospitato una cartiera che ha contribuito ad avvelenarne le acque, e quindi definitivamente assorbita nell'area urbana di Hangzhou, poco a Sud di Shanghai, con l'abbattimento di buona parte delle abitazioni rimaste, dietro indennizzi che non possono coprire neanche lontanamente i costi degli appartamenti di nuova costruzione in condomini costituiti da falansteri di altezze spropositate, con tutti i comfort previsti dai moderni criteri di abitabilità e socialità (non possono mancare scuole, campi da gioco, palestre, spazi comuni di un anonimato agghiacciante). Sono le bellezze del capitalismo, dunque il tema principale, che ricorre ossessivamente, sono i soldi, che non bastano mai, ed è questo il filo conduttore delle vicende di una famiglia, che coprono il corso di un anno, a partire dalla cena per festeggiare i 70 anni della madre di quattro fratelli nel ristorante del più anziano di essi, che lo conduce assieme alla moglie. Il secondogenito, da cui si rifornisce di materia prima, è un pescatore in difficoltà economiche che vive su una barca assieme alla moglie e al figlio; il terzo è un giocatore d'azzardo, perennemente indebitato, rimasto vedovo e con a carico un figlio handicappato: additato come la pecora nera, è in realtà quello più sensibile e ricco di umanità; l'ultimo è l'idiota di turno che, in una famiglia come si deve, non può mai mancare. Durante la cena l'anziana donna ha un infarto, e le discussioni famigliari, con relative sottili strategie da parte delle consorti per influenzare i mariti, prendono il via da chi deve curarsene, mantenerla e ospitarla, e inizialmente saranno i gestori del ristorante, alle prese anche con la figlia in rotta con la madre perché intende sposare il ragazzo di cui è innamorata, un giovane insegnante (povero ma bello e intelligente), e non il “buon partito” che la genitrice ha previsto per lei con lo scopo principale di risolvere i problemi economici del locale. Questo è il quadro generale e il film si compone di una serie di piccoli dettagli ed episodi che si susseguono e intrecciano nel tempo, che sono l'occasione per scrutare nelle pieghe dei caratteri dei vari personaggi, il tutto sullo sfondo di un panorama a tratti dolcissimo e a tratti stuprato da uno sviluppo disumanizzante e disarmonico. Frequente ma funzionale l'uso di piani sequenza assai suggestivi, bellissimo quello che accompagna dal largo i due innamorati in una lunga passeggiata sul sentiero alberato che segue il fiume; notevole la fotografia; si viene immersi man mano in un'atmosfera sospesa e circolare (del resto abbiamo a che fare con una cultura buddhista) e ne fa parte anche la lentezza solo apparente del film, che dura sì due ore e mezzo, ma senza che che questo stanchi o ammorbi lo spettatore. Il risultato è decisamente ottimo e incoraggiante per il futuro della carriera di Gu. 

martedì 1 febbraio 2022

Moby Dick alla prova


"Moby Dick alla prova" di Orson Welles, adattamento dal romanzo di Melville, traduzione di Cristina Viti. Uno spettacolo di Elio De Capitani. Costumi di Ferdinando Bruni, musiche di Mario Arcari, luci di Michele Ceglia, suono di Gianfranco Turco, maschere di Marco Bonadio, assistente alla regia Alessandro Frigerio. Con Elio De Capitani, Angelo Di Genio, Giulia Viana, Cristina Crippa, Marco Bonadei, Enzo Curcurù, Michele Costabile, Massimo Somaglino, Alessandro Lussiana, Vincenzo Zampa. Al Teatro Elfo Puccini di Milano fino al 6 febbraio, al teatro Carignano di Torino dall'8 al 20 febbraio

Un blitz "toccata e fuga" a Milano due giorni fa, domenica, ma ne è valsa la pena: ero certo di assistere a uno spettacolo memorabile, che Orson Welles aveva portato sulle scene a Londra nel lontano 1955 immaginando una compagnia di attori alle prese con le prove del Re Lear di Shakespeare che, in corso d'opera, sarebbero diventate quelle della trasposizione teatrale del Moby Dick di Melville, in cui la figura del tirannico, monomaniaco e delirante comandante Achab ha parecchi tratti in comune con il re di Britannia, così come il buon Starbuck con quella di Cordelia. Elio De Capitani è stato il primo a proporlo in Italia (coproduzione Teatro dell'Elfo e Stabile di Torino),e il suo Moby Dick ha avuto una lunga gestazione, con le prove che si sono estese durante il lock down dello scorso anno, ed è stato finalmente presentato in prima nazionale l'11 gennaio scorso nella "Tana degli Elfi" di Corso Buenos Aires. In sala Shakespeare (quella più capiente), per l'appunto. "Pensate, quando parliamo di balene, oceani, e baleniere di vederli davvero", viene preavvertito il pubblico (numeroso, fino a stipare la sala al massimo della capienza consentita dalle disposizioni in essere) e, nonostante una scenografia essenziale, che non fa alcun riferimento diretto a vascelli, alle infinite distese marine, ai venti flagellanti, ai cieli infiniti e burrascosi, li vede per davvero, avvolto e incantato dalle parole della voce narrante (quella di Ishmael, che sarà l'unico sopravvissuto della forsennata spedizione della Pequod al comando di Achab, all'inseguimento della propria nemesi: il capodoglio bianco come un fantasma, Moby Dick), quella dell'ottimo Angelo Di Genio, purtroppo penalizzata nell'occasione da un microfonamento lievemente difettoso che lo faceva sembrare talvolta vittima di una zeppola degna di Jovanotti: quando utilizzava il tradizionale microfono ad asta, come i cantanti dei complessi rock fino agli anni Ottanta, la sua dizione risultava invece, come sempre, ineccepibile. C'è stato un altro inconveniente tecnico, causa positività da Covid: la musica, solitamente eseguita dal vivo dal maestro Mario Arcari, su cui si innescano gli evocativi cori marinari, i Sea Shanty che accompagnano il lavoro della ciurma, per fortuna è stata salvata su nastro e ripordotta per l'occasione. Su tutti e su tutto, la voce possente di Elio De Capitani, "capitano" (e Meister) più che mai, sia di un paio di generazioni di Elfi sia, in quanto Achab (ma anche un po' colonnello Kurtz di Francis Ford Coppola, ossia il cuore di tenebra di Conrad), di un equipaggio che riesce a soggiogare e mandare al massacro in nome delle sue paranoie monomaniache. Non diversamente da altri personaggi altrettanto preoccupanti che hanno caratterizzato il nostro passato anche recente e che Elio ha già esplorato sulla scena impersonando sia il Nixon di Peter Morgan sia il Roy Cohn di Angels in America, altri due memorabili spettacoli dell'Elfo, scandagliando il lato oscuro dell'animo americano, quello che non si rassegna a trovare limiti al suo furibondo bisogno di malinteso "progresso", in realtà sete di denaro, dominio, sopraffazione e affermazione di un ego smisurato quanto inconsistente e miserabile. Che si avvita su sé stesso nella propria pochezza: hanno conservato molta più "umanità"  i cetacei che pacificamente convivono negli abissi, molto più capaci degli umani di trovare forme di autentica comunicazione ed empatia. Tutto bellissimo, nonostante gli intoppi, emozionante e partecipato, quasi due ore e mezzo mozzafiato, livelli altissimi. Finché c'è teatro c'è vita, e viceversa. Grazie a tutti per esserci, ed essere sempre, inesorabilmente, "sul pezzo".