“Stringimi forte” (Serre-moi fort) di Mathieu Amalric. Con Vicky Krieps, Arieh Worthalter, Aurelia Petit, Anne-Sophie Bowen-Chatet, Juliette Benveniste, Sacha Ardilly, Aurèle Gzresik, Erwan Ribard, Cuca Bañeres Flos e altri. Francia 2021 ★★+
Coi film francesi è una questione matematica: per una volta che caschi bene (l'ultima è stata con Ozon), le altre due rimani invariabilmente deluso, o perché è una vera e propria merda, oppure perché un pippone incomprensibile. E' il caso di questa pellicola di Mathieu Amalric, che ritorna nella veste di regista anziché in quella abituale di attore, il quale porta sullo schermo un lavoro teatrale di Claudine Galéa, Je reviens de loin, che racconta la fuga di una giovane donna e madre, Clarisse, da una realtà che non può sopportare, in sostanza il tentativo, fallito, dell’elaborazione di un tremendo lutto che l'ha colpita. E tra reale e fittizio, su due piani altalenanti, si muove tutto il film, iniziando dalla fuga della giovane donna a bordo di una station wagon una mattina all'alba, mentre la famigliola dorme, per andare a vedere il mare della Bretagna, con frequenti flash back e flash forward che si alternano a scene di vita quotidiana (immaginaria) in un ridente borgo della campagna francese; cartoline, o meglio istantanee abbastanza slegate tra loro, con un contrappunto musicale scelto con indubbia accuratezza (la figlia di Clarisse, Lucie, ha la passione del piano e la madre ne disegna il percorso di bambina prodigio fino a un'audizione per essere ammessa al conservatorio di Parigi). In buona sostanza, come nel recente America Latina dei gemelli D'Innocenzo, è un viaggio nella psiche allucinata del personaggio principale, alle prese con il dolore e con i propri fantasmi, ma il risultato è ben diverso: lì lo spettatore finiva per immedesimarsi col protagonista, calando nei suoi abissi mentali; qui proprio non ci riesce: la Krieps, pur molto brava nel rendere lo straniamento e la sostanziale afasia di Clarisse (a parte quando inveisce in un tedesco improbabile per una che di mestiere dovrebbe fare la traduttrice, e ancor più per un'attrice lussemburghese che lo pronuncia come Matteo Renzi l'inglese, è imperdonabile) non ha nemmeno lontanamente la potenza di un Elio Germano, che non ha bisogno di un profluvio di parole che sembrano buttate lì a caso per esprimersi e comunicare la sua sofferenza interiore. Ora io sarò anche prevenuto nei confronti dei francesi, anche se non manco di riconoscere i loro meriti quando è il caso, e da tempo sostengo che nel loro cinema, salvo eccezioni, l'espressione verbale ha il sopravvento sull'immagine, il che si spiega con la loro insopportabile propensione alla logorrea, però il pubblico relativamente numeroso presente in sala, probabilmente richiamato dall'entusiastica accoglienza di questo film da parte della critica "professionale", quando si sono riaccese le luci era decisamente perplesso e si scambiava domande sul senso della storia: nessuno ci aveva capito nulla, nonostante i minuti finali suggeriscano una traccia plausibile. I giudizi generali non mi sono sembrati in linea con quelli letti sui giornali e propinati dagli "esperti". Per quanto mi riguarda, benché la durata sia di poco superiore all'ora e mezzo, sintomatica è stata la "prova orologio": dopo i primi venti minuti cominciavo già a compulsarne lo schermo, segno inequivocabile di rottura di coglioni. Non un brutto film, questo non si può dire, ben girato e interpretato ma noioso, verboso, pretenzioso, inutilmente virtuosistico. Non mi sento di stroncarlo brutalmente, ma nemmeno di consigliarlo. Però se avete voglia di una dose di onanismo intellettuale, ecco: benserviti.
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