sabato 28 settembre 2019

La vita invisibile di Eurídice Gusmão

"La vita invisibile di Eurídice Gusmão" (A vida invisível de Eurídice Gusmão) di Karim Aïnouz. Con Carol Duarte, Júlia Stockler, Gregório Duvivier, Barbara Sanos, Flávia Gusmão, António Fonseca, Fernanda Montenegro e altri. Brasile 2019 ★★★★½
Filmone. Tratto dall'omonimo romanzo d'esordio del 2016 della giornalista brasiliana Marta Batalha, che spesso ha affrontato la questione dell'emancipazione delle donne nel suo Paese appoggiandone le battaglie, diretto da un regista e sceneggiatore di cui non conoscevo le opere precedenti, è stato definito un meló tropicale, e per rendere l'idea può andare bene, ma è anche qualcosa di più: soprattutto è una bella storia, raccontata bene e fotografata meglio, che è anche un affresco della vita e della mentalità brasiliane lungo quasi settant'anni di storia, dagli inizi degli anni Cinquanta a oggi, interpretata da due attrici formidabili nei panni di due sorelle legatissime, Guida (Julia Stockler), la maggiore e intraprendente, ed Eurídice, più timida, uno straordinario talento pianistico, che sogna di essere accolta in conservatorio, la quale ne copre le scappatelle di fronte ai severi genitori, che da bravi portoghesi possiedono un avviato panificio. Una notte Guida non torna, fuggendo in Europa con un baldo marinaio greco; le cose non vanno come sperava e rientra a Rio quasi al termine della gravidanza, ma il padre la butta fuori di casa e le vieta di tornarvi. Cominciano così le vite parallele delle due sorelle: Guida in mezzo ai poveri, vivendo presso una ex prostituta che diventa la sua migliore amica, lavorando in un cantiere navale e arrotondando facendo le pulizie per tirare su, in solitudine, suoi figlio; Eurídice, ignara della sorte della sorella, a seguire la strada indicatale dal padre, intralciata nella sua volontà di dedicarsi alla musica da un marito tradizionalista e dalla mentalità ristretta quanto il suocero e da una maternità indesiderata: quando riuscirà a farsi accogliere al conservatorio di Rio, risultando la migliore del concorso, le verrà rinfacciato di trascurare i suoi doveri famigliari e finirà per incendiare il suo amato pianoforte; le due donne sentono una grandissima mancanza l'una dell'altra, una convinta dalle parole del padre che l'altra si trovi a Vienna; Euridíce che Guida sia svanita da qualche parte in Europa e l'abbia dimenticata, mentre vive a poca distanza da dove abita (a Santa Teresa, uno dei quartieri più caratteristici e ancora miracolosamente quasi intatti della metropoli carioca) ma in un mondo completamente diverso da quello suo, perbenista e piccolo borghese. Il tempo viene scandito dalle lettere che Guida indirizza a Euridíce spedendole all'indirizzo dei genitori perché gliele inoltrino, ma il loro padre non glie le consegnerà mai, conservandole in una scatola che capiterà nelle mani di Euridíce soltanto dopo la sua morte: finale commovente, quando da vecchia, interpretata da una superba Fernanda Montenegro, l'indimenticabile protagonista di Central do Brasil di Walter Selles, leggendo le lettere che Guida le aveva mandato, scoprirà che era sempre stata amatissima e presente al cuore della sorella e dalla nipote, che riuscirà a recuperare, saprà che l'aveva sempre descritta come una bravissima e affermata pianista. Anche la colonna sonora, va da sé, è all'altezza: senz'altro da vedere. 

mercoledì 25 settembre 2019

Burning - L'amore brucia

"Burning - L'amore brucia" (Beoning) di Chang-dong Lee. Con Yoo Ah-In, Steven Yeun, Jong-seo Jun, Yong-ok Lee, Soo-Kyunk Kim, Seungho Choi. Corea del Sud, 2018 ★★★★
Non ho letto il racconto breve di Haruki Murakami da cui è tratto (o ha preso spunto: lo ignoro) Burning, del regista sudcoreano Chang-dong Lee, che nasce come scrittore ed è stato ministro della Cultura del proprio Paese, ma rende bene quel senso di indeterminato, casuale, magico, ambiguo che caratterizza l'autore giapponese, il suo realismo surreale, le sue domande senza risposta, il tema del passaggio da un'adolescenza, di solito segnata da eventi perturbanti, all'età adulta (o anche no), e tanti altri dettagli che chi frequenta Murakami conosce molto bene. Non è un film facile né leggero: stratificato com'è il racconto, si fatica a orientarvisi e a trovare un senso e ha bisogno di sedimentare, ma dalla sua visione si rimane con l'impressione che, avendo toccato tanti punti sensibili, alla fine tutto torni. Un giovane aspirante scrittore, l'introverso Jong-su, che vive di lavoretti precari a Seul dopo aver svolto il servizio militare ed essersi laureato, incontra per caso una sua vecchia compagna di scuola, Haemi, ai tempi completamente ignorata, originaria del suo stesso paese di campagna vicino al confine con la Corea del Nord, con cui comincia a frequentarsi e che gli chiede se può occuparsi del suo gatto, Boiler, mentre è in viaggio in Africa: un gatto fantasma, che Jong-su non incontrerà mai durante le sue visite nel miniappartamento della ragazza, trovandone invece le deiezioni. Finirà per trovarlo verso la fine del film a casa di Ben, un giovane ricco e annoiato, egolatra nonché piromane, che Haemi, di cui nel frattempo Jong-su si è innamorato, ha conosciuto in viaggio e con cui inizia una frequentazione che porta a una sorta di triangolo quando, alla ricerca di Haemi, scomparsa dopo un diverbio verbale, l'animale, scappato dal lussuoso appartamento di Ben in cui in cui misteriosamente è venuto a trovarsi, si farà docilmente catturare dal ragazzo. Voci misteriose al telefono; fantasmi che riappaiono dal passato; Haemi che studia mimo e gioca con l'inesistente facendolo apparire reale; le disavventure giudiziarie del padre di Jung-su, un testardo allevatore andato in rovina; la sparizione della ragazza e la ricerca di serre incendiate (nel racconto di Murakami erano granai) nel paesino di campagna; la difficoltà di capire il mondo che vorrebbe raccontare, e quindi l'assenza dell'oggetto del romanzo a cui sta lavorando da parte dell'aspirante scrittore... Una narrazione lenta ma mai noiosa, a tratti avvincente, a cui è bene abbandonarsi per fluttuare tra suggestioni, domande e pensieri, assieme ai disorientati e disorientanti protagonisti: alla fine un gran bel film. 

domenica 22 settembre 2019

C'era una volta a... Hollywood

"C'era una volta a... Hollywood" (Once Upon a Time in Hollywood) di Quentin Tarantino. Con Leonardo DiCaprio, Brad Pitt, Margot Robbie, Emile Hirsch, Margaret Qualley, Timothy Olyphant, Austin Butler, Dakota Fanning, Bruce Dern, Kurt Russell, Al Pacino, Damian Lewis, Luke Perry, Lorenza Izzo e altri. USA 2019 ★★★★★
Da convinto tarantiniano della prima ora, lasciatevi dire che questo nono film del Maestro, se all'apparenza è quello più lontano dai cliché che una critica snob quanto banale gli ha appiccicato addosso, è in realtà quello che più dice del suo autore, di ciò che pensa e, soprattutto, della sua sensibilità: qui, sempre nelle forme della favola, come del resto negli altri suoi lavori, il cinema riscrive la realtà (l'aveva fatto, in modo particolare, in Bastardi senza Gloria); in più, lo fa in forma poetica e commossa. Questo pur non facendo mancare alcuno dei suoi ingredienti più tipici con cui ha conquistato fedeli seguaci come il sottoscritto: dal pulp, ai piedi femminili, alle citazioni cinematografiche (in un film sulla Hollywood che fu il terreno è particolarmente fertile), a una colonna sonora da sballo. Multicolore, sgargiante, irriverente, ambientato nella Hollywood del 1969, la guerra del Vietnam sullo sfondo, racconta la crisi di un attore in declino, Rick Dalton (Leonardo DiCaprio), fossilizzato nella parte di cattivo di film western e serie TV (come gli fa notare Al Pacino nelle parti del produttore Marvin Schwarz, che lo convince a trasferirsi per un periodo in Europa a girare Spaghetti Western) in un momento in cui va affermandosi un nuovo genere di attore, adatto a un cinema diverso, e quella parallela della sua controfigura, lo stunt man e suo amico nonché angelo custode Cliff Booth (Brad Pitt), ex combattente, a quanto si dice "moglicida", che vive in una roulotte in compagnia di Brenda, una pitbull dolce quanto feroce all'occorrenza, del tutto simile nel carattere al suo compagno bipede: si alternano le giornate di lavoro di Rick, tra una ripresa, magagne e incontri fra set e studios, compresa la trasferta in Italia da dove torna con qualche soldo, una moglie e tanti dubbi in più, e quelle di Cliff, in giro per le strade di Hollywood e dintorni, a cominciare dagli ex studios in smantellamento dove aveva girato anni prima e ora occupati dai membri della Family di Charles Manson. Eh, sì, perché nell'ancora rutilante Mecca del cinema di quel fatale 1969 (era anche l'anno dello sbarco sulla Luna ma il buon Quentin, e glie ne siamo eternamente grati, ci risparmia la commemorazione dell'evento) c'erano anche loro e non solo: vicini di casa di Rick, e all'occasione di Cliff quando lo assiste nei momenti di delirio alcolico, sono Roman Polanski e il suo entourage, a cominciare dalla moglie Sharon Tate, che dalla Manson Family verrà massacrata insieme ad altri amici il 9 agosto di quell'anno nella realtà, ma non nella versione di Tarantino: è lei il terzo personaggio principale del film, interpretata dalla fulgida Margot Robbie, che attraversa la pellicola come una fata innocente, sempre stupefatta da quel mondo magico che era, o sembrava, quello del cinema di una volta. Una favola a lieto fine, come dev'essere una favola bella. E quella del buon Quentin lo è. Per me, scontato quanto si vuole, il massimo dei voti e un bravissimo a tutti, con menzione speciale per Damian Lewis (il Bobby Axelrod di Billions, per intenderci), che nella parte di Steve McQueen è sensazionale e Margaret Qually in quella di Pussycat, in quelli della hippie svitata che vuole accalappiare lo scettico Cliff. 

giovedì 19 settembre 2019

Martin Eden

"Martin Eden" di Pietro Marcello. Con Luca Marinelli, Jessica Cressy, Vincenzo Nemolato, Marco Leonardi, Denise Scardisco, Calro Cecchi, Carmen Pommella, Autilia Ranieri, Pietro Ragusa, Gaetano Bruno, Anna Patierno, Aniello Arena e altri. Italia 2019 ★★★★
Qualcosa di più di un film, e di più complesso, che si serve del mezzo (la sceneggiatura, liberamente tratta, ma con rigore, dal Martin Eden di Jack London, edito nel 1909; la macchina da presa, il montaggio, il materiale d'archivio, riproposto in originale oppure opportunamente trattato; la notevole colonna sonora) cinematografico per proporre qualcosa di completamente diverso e polimorfo, in cui anche la dimensione temporale è fluttuante, ambientata com'è la vicenda, invece che nella San Francisco di inizio Novecento, in una Napoli che spazia dai primi comizi anarchici e socialisti agli scontri tra interventisti e neutralisti prima dell'entrata in guerra nel 1915 agli anni Settanta. Il sempre ispirato e a tratti spiritato Luca Marinelli, che per l'interpretazione ha vinto la Coppa Volpi maschile all'ultima Mostra del Cinema di Venezia, è un Martin Eden napoletano che lavora come marinaio e a cui capita di entrare in contatto con la borghese e liberale famiglia Orsini per avere salvato da un pestaggio il suo rampollo Alfredo: quando viene invitato per essere ringraziato, è amore a prima vista con la sorella del ragazzo, Elena, cosa che stimola Martin, già intelligente e affamato di conoscenza per conto suo, di farsi una cultura, incoraggiato da lei. La motivazione è doppia: non soltanto cercare, tramite un'istruzione adeguata, di superare le barriere sociali tra lui e la ragazza, ma anche assecondare la sua vena poetica e la ferma volontà di diventare scrittore, per raccontare il mondo e la realtà così come lo vede con i suoi occhi di uomo del popolo. Durante la sua crescita intellettuale,  abbraccia le idee di Herbert Spencer, assumendo posizione anarchiche, ponendosi così in contrasto sia con i liberali borghesi sia con i socialisti, che accusa di assecondare una nuova forma di schiavitù in nome dello Stato o del sindacato trascurando completante la dimensione individuale dell'uomo. In una prima fase ogni suo scritto o saggio viene rifiutato, ma con l'intervento del suo amico e mentore Russ Brissenden, l'unico altro personaggio che conserva il nome originale datogli da London (non si capisce il perché), diviene una sorta di caso editoriale e, dopo aver assunto posizioni sempre più nichiliste, anche per la rottura con Elena e il suo ambiente, una specie di fenomeno da baraccone spedito in tournée promozionale come gli scrittori del giorno d'oggi. Premesso che non è il mio genere, anche se, come detto, di "genere" non si può propriamente parlare, e che nella seconda parte il film concede un po' troppo al feuilleton per i miei gusti, è indubbio che il lavoro di Pietro Marcello sia di grande qualità e rappresenti un qualcosa di inconsueto, come del resto aveva già fatto vedere con La bocca del Lupo, uscito sugli schermi dieci anni fa: non è un autore prolifico, ma quando fa qualcosa, è con cognizione di causa. Personalmente avrei visto meglio una versione teatrale di questo Martin Eden. Ineccepibili gli attori, in particolare felice la scelta di quelli, eccezionali, che lavorano sulle scene partenopee, uno più bravo dell'altro; un'eccezione per la fiacca interpretazione di Jessica Cressy nella parte di Elena, la quale non si capisce perché debba parlare con accento francese; una scelta probabilmente dovuta alla coproduzione con i cugini transalpini. 

martedì 17 settembre 2019

La mafia non è più quella di una volta

"La mafia non è più quella di una volta" di Franco Maresco. Con Letizia Battaglia, Ciccio Mira, Franco Maresco e altri. Italia 2019 ★★★★★
Appena rientrato dalla Grecia nella Terra dei Cachi, non ho avuto dubbi di scegliere come film d'esordio della stagione cinematografica 2019/2020 quest'ultimo lavoro di Franco Maresco, che mette un'altra pietra tombale sulla retorica dell'antimafia, vuota e contropoducente come quella dell'antifassismo, sul luogo comune degli italiani brava gente, dell'onestà o comunque dell'innocenza di un "popolino" abbrutito perché lasciato in balìa di sé stesso, nell'ignoranza e nella colpevole assenza di una qualsiasi prospettiva, e di uno Stato capace di farsi odiare quando si presenta in divisa, senza peraltro essere stato capace di sradicare mafia, delinquenza e degrado in oltre tre lustri di storia unitaria, e disprezzabile quando si fa vedere, tronfio quanto vuoto, nelle sembianze dei suoi massimi rappresentanti, alle vuote, ripetitive celebrazioni dei suoi "eroi" lasciati sul campo, in questo caso Falcone e Borsellino, col risultati di farli disprezzare ancora di più di quanto fossero da vivi, quando se non altro erano temuti. Maresco prende spunto da una di queste occasioni, il 23 maggio del 2017, nel venticinquesimo anniversario della strage di Capaci, cui fece seguito due mesi dopo l'attentato di Via D'Amelio, in cui vennero uccisi e quindi eliminati i due giudici, peraltro diventati scomodi anche allo Stato, una parte del quale, che definire "deviato" è fuorviante, nel frattempo trescava con la Cupola mafiosa, e coinvolge anche un irriducibile icona della lotta alla mafia come Letizia Battaglia, fotografa palermitana ottantenne di fama mondiale, che ne ha raccontato le guerre interne con i suo scatti lungo decenni. Lei stessa, inizialmente contraria al rassegnato scetticismo di Maresco, rimane inorridita quando si rende conto della pagliacciata che è diventata la rituale manifestazione in ricordo dei due giudici: una sagra da strapaese, con tanto di canti e balli di giovani inconsapevoli, girotondisti fuori tempo massimo: "ci manca soltanto il maiale alla griglia", sentenzia sconsolata Letizia, prima di eclissarsi dal corteo in memoriam. Come controcampo alla storica militante dell'antimafia, Maresco propone nuovamente un altro personaggio altrettanto iconico, l'impresario specializzato in feste di quartiere e cantanti neomelodici Ciro Mira, già protagonista dell'ultimo suo film, Belluscone, anch'esso presentato al Festival di Venezia cinque anni or sono, che a modo suo celebra la "scomparsa" (sia mai detto che si parli di assassinio) di Falcone e Borsellino con uno spettacolo a dir poco raccapricciante che si tiene al quartiere Zen 2. Non aggiungo altro, perché La mafia non è più quella di una volta è molto più di una pellicola: è un trattato filosofico-politioco-antropologico in parole e immagini, e va semplicemente visto e ascoltato. 

martedì 10 settembre 2019

Brianzolitudine molesta



Ero intenzionato a trascorrere l'ultima giornata balneare di questa settimana "zantesca" sulla spiaggia di Daphni, sul lato occidentale della penisola di Vasilikos, nel Sud di Zante, quella meno afflitta dal turismo becero, che ha l'ulteriore vantaggio di essere di non facile accesso (uno sterrato abbastanza sconnesso di qualche chilometro pieno di curve cieche nonché di pendenze, in salita e in discesa, che costringono a innestare prevalentemente la seconda quando non la prima marcia, oltre a impedire l'accesso ai bus e tenere alla larga i quad che infestano l'isola, guidati prevalentemente da giovani bifolchi inglesi in fase di dopo-sbronza e attempati giovanilisti italioti dal sorriso radiosamente stupido stampato in faccia e possibilmente dotati di bandana di berlusconiana memoria) nonché nell'area più protetta del golfo di Laganas, a sua volta parte di un Parco Marino, creato per la preservazione dei siti dove vanno a deporre le uova le tartarughe marine "caretta caretta" e dove è vietato transitare con natanti di ogni tipo, barche a vela comprese. Uno di questi siti è per l'appunto la spiaggia di Daphni, dai fondali sabbiosi che danno all'acqua una trasparenza incredibile donando loro una colorazione che abbraccia tutte le tonalità dall'azzurro chiaro al blu passando per il turchese: sembra di immergersi in un acquario. Lì si affacciano tre taverne, dotate di qualche ombrellone e sdraio, disponibili gratuitamente se si decide di pranzare in loco oppure dietro pagamento di una quota di 5 €, o anche dietro consumazione, il tutto molto discreto e nel segno della tranquillità più assoluta. Turbata, per l'appunto con il chiassoso arrivo, attorno alle 11 del mattino di ieri, di una comitiva di padani lombardi, che a giudicare dall'accento, inconfondibile per un milanese nativo per quanto spurio come il sottoscritto, che spaziava dal varesotto al comasco e che definisco genericamente brianzolo o, come si suole anche dire, milanese arioso. Ecco: dopo sei ore trascorse a osservarne il comportamento e ad ascoltarne i discorsi, essendo purtroppo in grado di intenderne involontariamente ogni sfumatura (anche in considerazione del volume delle voci), ho per l'appunto deciso di non ripetere l'esperienza e di non recarmi, per la quinta volta in otto giorni, nella spiaggia decisamente più bella di Zante pur di non correre il rischio di tornare a  incontrarli, nemmeno per salutare i ragazzi, quasi tutti albanesi e bravissimi, che lavorano alla Taverna Bel Mare (a mio giudizio la migliore delle tre) e gustarne gli ottimi (e abbondanti) piatti. I soggetti: da quel che ho capito 4 coppie, che si sono conosciute in occasione di questa vacanza decidendo di "fare squadra", per comunione di amorosi sensi o affinità elettive, con prole tra i 12 e i 17 anni, giunte puntualmente con voli low cost (una vera e propria iattura) sull'aeroporto internazionale di Zante, fra i quaranta e i cinquanta, generazione "due Mattei", per intenderci, e simili a Renzi e Salvini anche per il modo di fare e di interloquire, oltre che per le stronzate sparate a getto continuo in un crescendo rossiniano di imbecillità oltre che di decibel. Prescindo dalla descrizione fisica dei personaggi e dall'abbigliamento, nella norma e nemmeno particolarmente ridicolo e indecoroso, l'attività principale delle prime tre ore, va da sé, la produzione a raffica di selfie da spedire a parenti, amici e colleghi nonché le chat vocali, dal vivo, con il resto della figliolanza, quella con qualche anno in più, dislocato, guarda caso, a Ibiza (e qualcosa di simile è diventata Zante, soprattutto a Laganàs, dove esiste un "miglio dell'orrore" che non ho visto nemmeno a Miami oppure in Thailandia: Kao San Road, a Bangkok, è un luogo ameno in confronto, forse Phuket o Pattaya sono all'altezza e, in Grecia, Mykonos; la penisola di Vasilikos costituisce, per l'appunto, l'eccezione), con scambi in diretta di notizie essenziali quali le temperature dell'acqua, in cui peraltro non sono quasi entrati se non per un rapido pediluvio, dedicandosi invece, oltre che al cicaleccio incessante, a qualche gioco di carte, ovviamente "chiamato", e dunque rumoroso, occupando quattro postazioni per volta. Non un libro in vista, ovviamente, nemmeno quell'uno, che fa statistica, che l'italiano medio legge all'anno, di solito proprio durante le vacanze al mare, e un vocabolario che non superava le 80 parole per i loro dotti conversari. All'ora di pranzo, chiaramente, pur di non tirare fuori un euro (e i prezzi della taverna non sono certo proibitivi) hanno banchettato con biscotti, merendine, succhi e altre schifezze, facendo un porcile tra cartacce e bottigliette, quindi altre tre ore a disquisire, alla consueta maniera del comendatur "ghe-pensi-mi" sulle due maniere di fare il "caffè greco" (o turco che dir si voglia) senza azzeccare la terza e unica giusta e a compulsare le recensioni su TripAdvisor (un'autorità!) per scegliere il ristorante in cui andare a far danno a cena, ma il grande e degno finale, sul fare della sera, è stata la partita passarsi la palla in spiaggia senza farla rimbalzare in terra, tutti insieme appassionatamente, genitori e ragazzi, la Cami, il Giova, la Giada, il Dodo, incuranti non solo di un tramonto spettacolare (lo spettacolo erano e si sentivano loro, coi loro coretti da stadio, dandosi il "cinque" e facendo pure la radiocronaca delle loro imprese) ma soprattutto delle fragili gabbiette che proteggono i nidi di uova delle povere tartarughe (che potete vedere dalla foto). Dopo aver manifestato il mio disappunto in maniera udibile, me ne sono andato inorridito e disgustato prima di vederle, inevitabilmente, travolte da un destino inevitabile finché a bifolchi simili è consentito il libero accesso, scusandomi con il personale per i miei connazionali. Appurato che non sono soltanto i caciaroni romani a contribuire alla nostra pessima fama all'estero, e che c'è di peggio tra chi pensa di essere meglio di loro, ancora una volta mi sono vergognato di essere italiano, perché nessuno degli altri frequentatori della spiaggia (greci, austriaci, olandesi, rumeni, bulgari e perfino una famiglia russa) si è lontananente sognato di comportarsi in una maniera così indecente.

giovedì 5 settembre 2019

A Zacinto

Casa natale di Ugo Foscolo (Zante, 1778 - Londra, 1827)

Né più mai toccherò le sacre sponde
ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell'onde
del greco mar da cui vergine nacque

Venere, e fea quelle isole feconde
col suo primo sorriso, onde non tacque
le tue limpide nubi e le tue fronde
l'inclito verso di colui che l'acque

cantò fatali, ed il diverso esiglio
per cui bello di fama e di sventura
baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.

Tu non altro che il canto avrai del figlio,
o materna mia terra; a noi prescrisse
il fato illacrimata sepoltura.


Ugo Foscolo