sabato 29 febbraio 2020

Topi vivi, neuroni morti


Affermazioni a ruota libera, restando serio, del Governatore della Regione il cui capoluogo, Venezia, ha dato i natali a Marco Polo che, primo fra gli occidentali, percorse la Via della Seta e dove Vicenza è nota nel mondo per avere elevato il gatto a eccellenza gastronomica. Come la mettiamo con lo spread?

venerdì 28 febbraio 2020

Criminali come noi

"Criminali come noi" (La odisea de los giles) di Sebastián Borensztein. Con Ricardo Darín, Luis Brandoni, Veronica Llinas, Chino Darín, Daniel Araóz, Carlos Belloso, Rita Cortese, Andrés Parra, Ailín Zaninović e altri. Argentina, Spagna 2019 ★★★★
Ultimo film che sono riuscito a vedere in sala prima della demenziale chiusura di cinema e teatri per quarantena da coronavirus, Criminali come noi (in lingua originale l'Odissea dei tonti: viene usato il termine gil, che sta per allocco, ingenuo in lunfardo, la parlata rioplatense fortemente influenzata dall'italiano comunemente usata nell'area rioplatense e che è una lingua a parte: uno dei personaggi dirà che il confine fra gil e pelotudo, ossia coglione, è spesso infinitesimale) è il racconto, catartico, della vendetta, e rivalsa, contro i profittatori della crisi finanziaria del dicembre del 2001 che aveva investito il Paese, di un gruppo di abitanti di una tipica cittadina persa nella pampa della provincia di Buenos Aires. Fermín Perlassi, ex gloria calcistica per aver giocato da titolare in una squadra di Terza Divisione e aver perfino segnato un gol al Chacarita, una delle formazioni della capitale, gestisce con la moglie la pompa di benzina con annesso bar di Alsina, ormai ridotta quasi a un villaggio fantasma dalla crisi economica, e per farla tornare a vivere ha l'idea di costituire una cooperativa fra i pochi abitanti rimasti allo scopo di comprare un silo dismesso e riprendere l'attività di immagazzinamento di cereali: occorrono 160 dollari (ai tempi vigeva la parità di cambio col peso) e li raccoglie tra i soci, che non sono caricature,  ma perfettamente rappresentativi della popolazione reale e il contesto quanto di più autenticamente argentino ci si possa immaginare, al di là dei gauchos e delle milongas a uso dei gringos in visita turistica. Peccato che venga convinto dal direttore della banca locale a versare la somma sul conto, in dollari USA, proprio il giorno prima, il 2 dicembre del 2001, che Domingo Cavallo, lo stesso ministro delle finanze che dieci anni prima aveva disposto la convertibilità 1-1 col peso, istituisse il corralito, ossia il divieto di prelevare più di 250 pesos a settimana e, poco dopo, la convertibilità con la moneta USA e la somma, il tutto in combutta con un avido avvocato,  Fortunato Manzi, con cui aveva fatto incetta di dollari a man bassa in previsione delle restrizioni alla libera disponibilità dei propri depositi, di cui i due personaggi erano al corrente. Classico caso di insider trading e turlupinamento di massa che in Argentina mieté milioni di vittime, a cui il Paese sopravvisse proprio grazie alla lunga tradizione mutualistica solidarisitica dovuta agli immigrati dalle aree più sindacalizzate d'Italia, specie settentrionale, e spagnole (Paesi Baschi, Asturie, Catalogna): un'immigrazione del tutto diversa da quella che hanno avuto, per esempio, gli USA; gente che ha portato là le proprie idee di cambiare il mondo, e che se non è riuscita a forgiare un Paese nuovo e diverso, ma la cui coscienza politica e sociale ha però permesso di sopravvivere ai non rari momenti si crisi attraversati dalla metà degli anni Cinquanta in poi (ricordo le mense rionali, i mercati di baratto, le innumerevoli cooperative che hanno rilevato imprese fatte fallire da proprietari che avevano trasferito finanzianti statali all'estero, imbosandoli). E' questo il grande merito del film, che racconta in forma picaresca di come l'assortito gruppo umano, ormai rassegnato alla perdita della somma, ne rientrerà in possesso, anni dopo, grazie alla affiatata collaborazione di tutti, quando per caso i soci della cooperativa verranno a sapere dell'esistenza di un caveau fatto costruire dall'avvocato in un terreno di sua proprietà. Frutto di lavoro corale anche la pellicola, tratta dal romanzo La noche de la usina di Eduardo Sacheri, che ha collaborato pure all'adattamento e alla sceneggiatura assieme ai due protagonisti principali, Ricardo Darín (Fermín Perlassi) suo figlio Chino (anche nel film come Roberto) e Luis Brandoni, (l'anarchico Fontana). Divertente,  istruttivo e liberatorio (oltre  che libertario!) 

lunedì 24 febbraio 2020

Gli untori del panico


Coronavirus: è letale soltanto per il cervello.
Individuati i "pazienti zero": i giornalisti italiani

domenica 23 febbraio 2020

Memorie di un assassino

"Memorie di un assassino" (Salinui chueok) di Bong Joon-ho. Con Song Kang-ho, Sang-kyung Kim, Roe-ha Kim, Song Jae-ho, Hie-bong Byeon, Seo-hie Ko e altri. Corea del Sud 2003 ★★★★★
Grazie alla strameritata vittoria agli ultimi Oscar (miglior film, miglior regia più altre due statuette) del memorabile Parasite, anche la distribuzione italiana si è svegliata e ha riesumato Memorie di un assassino, secondo film di Bong Joon-ho, con cui il regista coreano aveva raggiunto il suo primo successo internazionale. Basato su una vicenda vera che a suo tempo fece scalpore in Corea del Sud (lo stupro e l'assassinio, tra il 1986 e il 1991 di dieci giovani donne da parte di un serial killer nei dintorni di Gyeonggi, una cittadina rurale non lontano da Seoul) il film, apparentemente un noir, ha un intento e significato schiettamente politico rappresentando una metafora della realtà sociale del Paese in quella lunga epoca in cui fu sottoposto a un regime militare particolarmente duro e oppressivo. Lo fa raccontando le indagini, condotte inizialmente dalla polizia locale, inetta quanto violenta e onnipotente, impersonata da due ispettori (la classica coppia che fa il gioco del poliziotto buono e di quello cattivo) e dal suo capo che, usando metodi a dir poco sommari e discutibili, sono più alla ricerca di un capro espiatorio da dare in pasto ai media che del vero colpevole, a cui viene di rinforzo, dalla capitale, un ispettore inizialmente ligio al protocollo come a delle procedure d'inchiesta più rigorose e basate su prove concrete anziché su confessioni estorte, ma che viene man mano coinvolto nei metodi degli altri due, che prima individuano il responsabile dei delitti in un ragazzo con problemi psichici, poi in un giovane e ambiguo maniaco sessuale, risultato però estraneo ai fatti dopo che i risultati dell'analisi del DNA giungono per posta dagli USA. Insomma non solo l'assassino non si trova, ma lo stesso coprifuoco istituito dal governo allo scopo di impedire la mobilitazione studentesca che si era diffusa in varie città e il concentramento delle forze di polizia laddove dove era più numerosa allo scopo di reprimerla, finiscono per favorirlo, col risultato che rimane senza volto: allegoricamente si impersona nel regime stesso e nella società, ignorante, repressa e sfiduciata, che ne è il risultato. Pellicola cupa, inesorabile, che inchioda lo spettatore alla sedia e alla fine non lascia speranze; diretta magistralmente, con interpreti sempre all'altezza che abbondano nell'ambiente cinematografico coreano; fotografia efficace, colonna musicale pure. Perfetto: il genio di Bong Joon-ho era evidente fin dagli esordi. 

venerdì 21 febbraio 2020

Alla mia piccola Sama

"Alla mia piccola Sama" (To Sama) di Waad Al-Khateab ed Edward Watts. Voce Jasmine Trinca. GB 2019 ★★★★
Testamento in forma di videolettera alla primogenita Sama, che significa Cielo in arabo, nata durante l'assedio di Aleppo del 2016, in Siria, a opera della madre, Waad Al-Khateab (pseudonimo di una giovane reporter presumibilmente cristiana, dato che la si vede coperta dal velo solo in alcune riprese da esterno: Aleppo è la città del mondo arabo con la maggiore percentuale di popolazione cristiana dopo Beirut e il Cairo), Alla mia piccola Sama racconta dall'interno di un ospedale la parte finale della sanguinosa battaglia che si svolse a partire dal 2012 nella antichissima e magnifica Capitale del Nord, la seconda città dal Paese, tra forze ribelli e quelle fedeli a Bashar al Assad, appoggiate dall'aviazione russa, e che produsse oltre 30 mila morti. Waad nel 2001 studiava giornalismo all'università della città quando scoppiarono le rivolte che presero il nome di Primavera Araba, a cui prese parte e cominciò a documentarne le fasi cruciali con la videocamera, seguendo in particolare la creazione, quando nel 2012 ebbe inizio la battaglia di Aleppo vera e propria, di un ospedale nella parte Est della città, in mano ai ribelli, a opera dell'amico Hamza, divenuto poi suo marito, e al contempo la sua storia d'amore col giovane medico; la distruzione di quel primo pronto soccorso e il suo trasferimento in una seconda sede quando Aleppo Est venne assediata e sottoposta a continui bombardamenti; la decisione della coppia, e dei loro amici e colleghi, di rimanere e, perfino, quella di affrontare una gravidanza e mettere al mondo per l'appunto Sama in una situazione estremamente pericolosa e senza prospettive, per di più nel luogo che era uno dei bersagli più ambiti per le forze filo-governative. La stessa Waad non giustifica la sua scelta davanti alla figlia: sa che questa un giorno potrebbe incolpare i suoi genitori per questo, e lo trovo il merito più grande del film, oltre a quello di mostrare gli effetti di quella come di qualsiasi guerra nella vita quotidiana dei civili che vi sono coinvolti loro malgrado e la capacità incredibile dell'uomo ad adattarsi e sopravvivere alle situazioni più estreme, di cui perde completamente il controllo; allo stesso modo personalmente non mi permetto di giudicare la sua decisione anche se probabilmente non avrei fatto lo stesso. L'odissea della coppia e degli ultimi resistenti (non combattenti) ha fine nel dicembre del 2016 quando gli ultimi abitanti di Aleppo Est ottennero un salvacondotto per raggiungere Idlib e, da lì, il confine turco. La scelta di Waad e di Edward Watts, che immagino abbia curato le immagini dall'alto della città, effettuate probabilmente con un drone, nel suo successivo ridursi in un cumulo di macerie, di non risparmiare le situazioni più crude, come quelle che possono verificarsi in un pronto soccorso d'emergenza e nelle condizioni date, è coraggiosa e può suscitare critiche: io l'ho considerata appropriata e necessaria, avverto però che sono un pugno nello stomaco e consiglio chi è più sensibile di astenersi. Da vedere, se si vuol capire.

martedì 18 febbraio 2020

Fabrizio De André & PFM - Il concerto ritrovato

"Fabrizio De André & PFM - Il concerto ritrovato" di Walter Veltroni. Con testimonianze di Franz Di Cioccio, Franco Mussida, Patrick Djivas, Flavio Premoli, David Riondino, Piero Frattari, Dori Ghezzi, Guido Harari. Italia 2020 ★★★★★
Tempo di ricorrenze: ieri  il 420° anniversario del sacrificio di Giordano Bruno, arso dal tribunale dell'Inquisizione, sull'altare della libertà di pensiero, oggi l'80° della nascita di Fabrizio De André. Il concerto è quello "Per la città", la sua, che Faber tenne assieme alla Premiata Forneria Marconi il 3 gennaio del 1979 al "Padiglione C" della Fiera di Genova, oggi semidiroccato e utilizzato come deposito dell'AMIU, riferimento non casuale a cosa rimane della musica di quegli anni, e non soltanto nel nostro Paese. Le immagini vennero girate dal documentarista Piero Frattari, su autorizzazione in via eccezionale del cantautore, col patto che non fossero "abbellite" e non interferissero con quanto avveniva sul palco e in platea, e che agisse di nascosto. Le conservò sulle cassette di allora, che sarebbero state destinate al macero se, riversando il suo archivio in formato digitale, non se le fosse ritrovate tra le mani rendendosi conto della loro importanza. La storia la ricostruisce, in modo agile e spiritoso, Walter Veltroni, che ha la lodevole e intelligente attenzione di non apparire mai in video né in voce, lasciando la parola a chi c'era e può dare una testimonianza diretta della storia di quel sodalizio che, all'epoca, lasciò tutti perplessi, a cominciare dagli addetti ai lavori per finire ai fan, come se i due pubblici (e i due modi di intendere la musica e l'arte in generale) non potessero coesistere (personalmente, ho assistito a uno dei primi concerti in assoluto di Fabrizio De André, fino ad allora totalmente refrattario alle scene, durante la sua prima tournée del 1975, al Palalido di Milano; così come a una delle primissime esibizioni della della PFM, al Teatro Lirico di Milano, ormai da decenni in disarmo, nel maggio del 1971: in quell'occasione erano il gruppo di apertura di Black Sabbath e Yes, risultando nettamente superiori a entrambi a chi non fosse obnubilato dall'esterofilia preconcetta). Fu un trionfo, e l'album che ne venne tratto, registrato nelle tappe di Firenze e Bologna, una pietra miliare. Quel che non sapevo, prima di vedere la pellicola ieri sera in sala, è che quello di cui parla Veltroni fosse il concerto di Genova, che cadde il giorno successivo a quello di Milano, sempre al Palalido, a cui ero ovviamente presente: la seconda parte del film, dopo la lunga ma assolutamente adeguata e opportuna introduzione, lo fa rivivere destando, in chi frequentava le "adunanze" musicali all'epoca, le medesime emozioni di allora. Posso assicurare che non è, soltanto, un effetto nostalgia: la densità, immediatezza, direi perfino gli umori di allora erano vita, non c'era nulla di artefatto; gli artisti sapevano suonare sul serio, senza il supporto di diavolerie che semplificano il compito, e il contatto col pubblico era vero, autentico, e lo raccontano proprio i testimoni in diretta, e lo dimostrano le contestazioni che Faber subì soprattutto a Napoli e Roma, come l'attentato a base di acido (lisergico) subito prima di un concerto a Cantù sempre durante la stessa tournée. La canzone di Marinella, Andrea, Giugno ’73, Un giudice, La guerra di Piero, Volta la carta, Rimini, Avventura a Durango, Zirichitaggia, Via del Campo, Amico fragile, Il pescatore i pezzi in scaletta, grosso modo in ordine di sequenza, se la memoria non mi tradisce, a cui mancano, purtroppo, Sally e Verranno a chiederti del nostro amore, una delle mie preferite, che venivano quasi sempre eseguite in quei concerti. Fatevi un bel regalo e correte a vedere questo film-documentario, che sarà in sala soltanto fino a domani compreso: imperdibile. 

lunedì 17 febbraio 2020

D'ogni legge nemico e di ogni fede

Giordano Bruno, Nola 1548 - Roma, Campo de' Fiori, 17 febbraio 1600 

"Ho lottato, è (già) molto: credetti poter vincere (ma alle membra venne negata la forza dell'animo), e la sorte e la natura repressero lo studio e gli sforzi. E' già qualcosa l'essersi cimentati; giacchè vincere vedo che è nelle mani del fato. Per quel che mi riguarda ho fatto il possibile, che nessuna delle generazioni venture mi negherà; quel che un vincitore poteva metterci di suo: non aver temuto la morte, non aver ceduto con fermo viso a nessun simile, aver preferito una morte animosa a un'imbelle vita”. 

Giordano Bruno
( De monade, numero et figura )

venerdì 14 febbraio 2020

Diamanti grezzi

"Diamanti grezzi" (Uncut Gems) di Benny e Josh Safdie. Con Adam Sandler, Lakeith Sandfield, Julia Fox, Idina Menzel, Judd Hirsch, Eric Bogosian, Pom Klementieff, Robbie De Raffaele e altri. USA 2019 ½
Apparso, almeno per il momento, soltanto su Netflix e acclamato dalla critica militonta, Diamanti grezzi è film irritante, inutilmente adrenalinico, una versione riuscita male di una pellicola di Martin Scorsese, dove quei bravi ragazzi sono, come di consueto, d'origine italiana ma il personaggio principale un indisponente gioielliere ebreo con un'attività nel cuore del Diamond District di Manhattan, imbroglione, giocatore d'azzardo incallito, totalmente inaffidabile nella vita privata come negli affari, logorroico, contaballe, pasticcione irrecuperabile, interpretato in maniera così convincente da Adam Sandler che quando al 130' minuto dei 135 che dura questo hellzapoppin' maldestro, dopo che per una volta nella vita una scommessa gli è finalmente andata per il verso giusto e sarebbe in grado di soddisfare i suoi creditori, gli scagnozzi al servizio di suo cognato (non ho voluto approfondire se marito della sorella oppure fratello della moglie ma questo aspetto, nella confusione generale, è assolutamente irrilevante), esasperati dalle sue continue manfrine finalmente lo stendono con un colpo in mezzo agli occhi, chi assiste tira finalmente un sospiro di sollievo: l'unico assieme alla parole Fine e alle sigle finali. Quindi un bravo ad Adam Sandler, che i due fratelli registi hanno tormentato al punto di fargli accettare la parte, così come agli altri ottimi caratteristi che rendono, almeno in parte, digeribile questa  specie di commedia sconclusionata, piena di luoghi comuni, dove tutti quanti si agitano in continuazione senza un attimo di tregua presi da una frenesia senza limiti anche se nel corso del film nessuno viene mostrato ad assumere dosi massicce di cocaina come ci sarebbe da aspettare, si parlano sopra in continuazione senza ascoltarsi, non si riesce a capire un dialogo che sia uno, e a fatica il senso di tutto quanto, soprattutto quello dell'esistenza di personaggi come questo indigesto Howard Ratner, la cui esistenza breve ma intensa non lascia rimpianti in nessuno che l'abbia conosciuto né visto traslato sullo schermo, ma che a sua volta, fottendosene del prossimo preso com'è da un inguaribile egocentrismo infantile, era l'unica per lui possibile e, in fondo, anche felice: ha avuto quel che ha voluto, e pace all'anima sua. In un susseguirsi di inquadrature in perpetuo movimento quanto i personaggi, per accentuare l'effetto motion la regia segue il protagonista spesso camera in spalla, col risultato che lo spettatore, più che coinvolto nell'azione, diviene preda del mal di mare. Fotografia accettabile ma certo non originale, niente di che la colonna sonora, ambientazione abbastanza credibile, inserti di basket qui e là, tanto rumore e soprattutto tante parole per nulla o poco più.  

martedì 11 febbraio 2020

Alice e il sindaco

"Alice e il sindaco" (Alice et le maire) di Nicolas Pariser. Con Fabrice Luchini, Anaïs Demoustier, Nora Hamzawi, Léonie Simaga, Antoine Reinartz, Maud Wyler, Alexandre Steiger, Pascal Reneric, Thomas Rortais, Thomas Chabrol e altri. Francia 2019 ★★★★+
Mentre il cinema nostrano annaspa, affogando negli stereotipi qualsiasi intuizione anche giusta, oscillando fra la banalizzazione di ogni argomento profondo, buttandola in vacca o, all'opposto, prendendosi troppo sul serio, ogni tanto i cugini d'Oltralpe ci azzeccano e centrano il bersaglio, riuscendo a parlare di un tema quanto mai attuale, la totale mancanza di progetto nell'azione politica, e quindi della sua crisi, in forma di commedia e in modo chiaro e alla portata di tutti: in questo miracolo riesce Nicolas Pariser con un film semplice, affidato ai dialoghi (le parole sono importanti!), in cui rivive lo spirito della Nouvelle Vague ed è evidente l'influenza di Eric Rohmer. Cose per cui non vado pazzo ma che, in mezzo alla quantità di ciarpame che invade gli schermi, grandi e piccoli, risultano merce rara, così come l'intelligenza. Pariser (in barba al cognome che porta) ambienta la vicenda non nella capitale ma a Lione, città "rampante" per eccellenza (non a caso gemellata con Milano, che viene indirettamente citata nel film a proposito di un demenziale progetto sulle megalopoli "progressiste" che devono "fare rete"), dove un sindaco socialista di lungo corso, Paul Theraneau, personaggio cucito su misura addosso al grande Fabrice Luchini, con una trentennale carriera politica alle spalle, si rende conto di essere rimasto a corto di idee, anzi: di essere ormai diventato incapace di pensare, stritolato da una macchina amministrativa che procede per forza di inerzia e grazie ai meccanismi di una sofisticata quanto opprimente burocrazia, e per questo fa assumere dal Comune come consulente una giovane laureata in lettere e filosofia, Alice Heimann (Anaïs Demoustier, misurata quanto efficace, davvero brava), con alle spalle qualche anno di insegnamento a Oxford, perché lo rifornisca di "materia prima", ma soprattutto gli insegni nuovamente a ragionare in prospettiva, aiutandolo a uscire dall'impasse in cui si sente immerso. I due hanno molto in comune, al di là del salto generazionale e dei percorsi diversi, a cominciare dalla convinzione che l'azione e il pensiero debbano andare di pari passo, ed è questo che dice il film, e lo fa attraverso il confronto fra i due personaggi, che rappresentano rispettivamente l'una e l'altro, elementi che devono trovare una necessaria sintesi per tradursi in una politica che abbia un senso e, soprattutto, un respiro che vada oltre alle immediate contingenze elettorali. Alice si scontra fin dall'inizio con la pletora di personaggi che circondano Theraneau, reclutati perlopiù tra i cosiddetti esperti di comunicazione, buoni tutt'al più a sfornare slogan, comunicati stampa, campagne social e tweet, oltre a leccaculo a vario titolo, questuanti (compresi deliranti ambientalisti, ricchi magari di visioni ma carenti di contatto con la realtà), profittatori e affaristi in preda a delirio di onnipotenza, ma riesce a instaurare un rapporto diretto con il sindaco, politico di vecchio stampo ma uomo intelligente e sensibile, ben conscio dei limiti della propria azione, che va oltre la contingenza: sarà per lui uno sprone e lo aiuterà a stilare "il discorso della sua vita", quello che dovrebbe pronunciare alla fine del congresso che deve indicare il candidato socialista alla presidenza della Repubblica ma che gli verrà impedito di tenere. Per opportunità, per l'appunto, "politica". Un'occasione persa, va da sé: e infatti al di là delle Alpi si ritrovano Macron, dopo aver avuto Hollande, e noi siamo messi pure peggio. Ma Alice e il sindaco non lo è, anzi: questo film è una medicina e uno stimolo, e i primi che dovrebbero correre a vederlo sono proprio coloro che si occupano, a vario titolo, di politica e di amministrazione.  

sabato 8 febbraio 2020

Figli

"Figli" di Giuseppe Bonito. Con Paola Cortellessi, Valerio Mastandrea, Stefano Fresi, Giorgio Barchesi, Gianfelice Imparato, Valerio Aprea e altri. Italia 2019 
Sconfortante. Se questa era la maniera per rendere omaggio allo sceneggiatore e regista Mattia Torre, l'autore, fra l'altro, di Boris e di La linea verticale, prematuramente scomparso l'estate scorsa e di parlare, magari con leggerezza, di una questione seria, ossia del perché  le coppie che decidono di avere figli in Italia invece che incoraggiate e sostenute vengono tartassate, era meglio sorvolare, nonostante la buona volontà di colleghi, amici e sodali, il solito giro romanesco che gravita attorno al mondo del cinema e della TV. Lo spunto era buono: Nicola e Sara, ossia il sempre generoso Valerio Mastandrea, mentre purtroppo Paola Cortellesi, per quanto sia una brava comica, conferma di non essere in grado di reggere oltre la gag, sono una coppia sulla quarantina che decide di affrontare l'avventura di avere un secondo figlio dopo Anna, ormai in età scolare, perché ha fiducia di potercela fare e tutto sommato crede in questo Paese, e invece si ritrova tutto e tutti contro, a cominciare dalla primogenita, che non accetta che il secondo arrivato divenga il centro dell'attenzione delle dinamiche famigliari, per proseguire con il suoceri, rappresentanti di quei di baby boomers "che si sono mangiati tutto", a cominciare dalle future pensioni dei figli (il che è vero, ma hanno il torto ancora più grande di non essersi accorti che questo è stato loro concesso come risarcimento per essersi fatti fottere dal sistema, un modo come un altro per farli stare buoni, ma soprattutto di non essere stati in grado di educare a dovere una generazione di smidollati e vittimisti, incapace di gestirsi, figurarsi di governare l'Italia, come quella che hanno messo al mondo), infine ci si mettono le istituzioni, a cominciare dagli asili e dalle scuole (mancanti o carenti), col supporto di una schiera di pediatri, psicologi ed esperti del nulla: in questa masnada di idioti (a cui non si capisce perché la coppia, paritaria e desinistra, si rivolga, salvo essere idiota a sua volta) l'unica che si salva è la baby sitter ciociara, armata di sano buon senso nonché esperienza e a suon di "ova alla cocca". Il resto è il solito ciarpame luogocomunista, gente che si straparla addosso, con l'immancabile scena di ballo su musiche di merda in penose festicciole casalinghe, la solita Roma fra Trastevere, Testaccio, Ostiense e il cazzo di Gazometro (Ozpetek ha lasciato un imprinting indelebile nella mente dei cinematografari della Capitale), e cara grazia che stavolta ci sono stati risparmiati il Pigneto e la Garbatella; le solite battute scontate, e soluzioni puerili a fare da tormentone (immaginare di lanciarsi dalla finestra quando non se ne può più; i quadretti con le diverse tipologie di famiglie con figli; l'"ovo alla cocca", appunto). Cadono le palle: mai un po' di mordente, di cattiveria, tutto scontato e prevedibile, melenso, noioso, di una ripetitività e lentezza esasperanti. E per fortuna che questa pizza non arriva ai 100 minuti. Un film francamente penoso: fatevi un favore e lasciate perdere.

mercoledì 5 febbraio 2020

domenica 2 febbraio 2020

Il diritto di opporsi

"Il diritto di opporsi" (Just Mercy) di Destin Daniel Cretton. Con Michael B. Jordan, Jamie Foxx, Brie Larson, O' Shea Jackson, Tim Blake Nelson, Lindsay Ayliffe, Rob Morgan e altri. USA 2019 ★★-
Benché tratto da una storia vera, e il soggetto basato sul libro Just Mercy: a story of justice and redemption che rende molto più efficacemente l'idea del solito titolo astruso e fuorviante all'italiana, scritto dall'avvocato e attivista dei diritti umani Bryan Stevenson, interpretato da Michael B. Jordan nel ruolo di protagonista, il film di D. D. Cretton, regista a me sconosciuto, non mi ha convinto, è risultato lento, scontato, senza nerbo, troppo lungo, sciatto. Una materia prima che, nelle mani di un Clint Eastwood, per fare solo un esempio, si sarebbe trasformata in un pugno nello stomaco, un dito nella piaga delle perversioni del sistema a stelle e strisce, a cominciare da quello giudiziario, col corollario di quello penitenziario e della pena di morte prevista in un buon numero di Stati, una denuncia di quanto di profondamente e intrinsecamente razzista sia da sempre alla base del Paese, specie nel Sud (atteggiamento che il Grande Vecchio del cinema americano, per quanto passi per reazionario, sicuramente non ha), in quelle di questo autore hawaiano risulta fiacco, svuotato, stereotipato, a cominciare da quel modo di raccontare i neri della vicenda come una sorta di Sì Buana che non rende loro giustizia. Il libro è autobiografico, e racconta di come Stevenson, brillante giovane avvocato di colore originario del Delaware che ha frequentato Harward, decida di dedicarsi alla causa dei condannati a morte in Alabama, per la stragrande maggioranza neri, entrando a far parte di un'associazione che ne difende i diritti anche gratuitamente diretta da una sua collega del Sud, bianca, che non lascia quasi traccia nella storia, anche per la scialba interpretazione di Brie Larson. Non che gli altri siano molto più brillanti: anzi danno l'impressione di non essere per primi convinti di quel che stanno facendo davanti alle telecamere, salvo in parte forse Jamie Foxx nel ruolo di Walter MacMillan, un operaio nero condannato a morte per l'uccisione di una giovane ragazza bianca in base unicamente al pregiudizio razziale quando sarebbe bastato studiare con un minimo di attenzione ed equanimità le prove portate a sostegno dell'accusa per smontarla (esattamente come nel recente Richard Jewell evocato sopra a proposito di Eastwood) di cui Stevenson prende a cuore la causa, che alla fine vince. Non c'è molto altro da dire, il film dà la netta impressione di essere già visto e rivisto mille volte, la stessa storia raccontata attraverso le stesse facce, le stesse parole, le stesse aule, gli stessi discorsi, gli stessi rituali, senza un guizzo, senza originalità, senza anima. Un film smorto, dimenticabile. Peccato.