venerdì 31 maggio 2019

E' ufficiale: Scaini al Pordenone


La decisione era nell'aria da quando era cominciata a girare la voce dell'arrivo di Antonio Conte, seguito dal suo degno staff, sulla panchina dell'Inter, e ha trovato la conferma stamattina, nel momento stesso in cui alle 14 ore di Pechino (le 6 in Italia), per compiacere i nuovo padroni, è stata diffusa, sui canali social della società sino-milanese, la notizia del contratto triennale firmato dal losco individuo, già giocatore e capitano della Juventus anni Novanta, uno dei gobbi più rivoltanti e odiosi che abbia indossato l'orrenda casacca optical della squadra della famiglia Agnelli, per l'esorbitante cifra di 9,5 milioni di euro netti a stagione (12 coi bonus, che diventano 20 lordi, senza considerare le ragguardevoli somme da liquidare a Luciano Spalletti, esonerato giusto ieri): dopo oltre mezzo secolo di tifo per la Beneamata, lunghi anni di abbonamento e di frequenza dello stadio di San Siro, non soltanto durante gli anni milanesi ma anche dopo il trasferimento in Friuli, una fede che ha retto perfino l'arrivo sulla panchina di Marcello Lippi nei sedici disastrosi mesi dal giugno 1999 all'ottobre del 2000, l'autore di questo blog si dissocia e rende ufficiali le sue dimissioni da sostenitore dell'un tempo rispettabile FC Internazionale, ormai diventata una succursale della Juventus, per tutta la durata della permanenza del suddetto agghiaggiande personaggio. Idealmente ha quindi firmato un ideale "contratto", altrettanto triennale, con il Pordenone Calcio, di cui era finora tifoso in seconda, promuovendolo a Prima Squadra del proprio cuore. Tale contratto contiene una clausola sospensiva, nel caso Conte venisse licenziato prima della scadenza, per mancanza di risultati o per qualsiasi altra causa, tra le quali non mi stupirebbe, considerati i precedenti, l'illecito sportivo. Per quanto riguarda sia il prossimo campionato di Serie A, sia le competizioni europee, dichiara fin da ora che sosterrà l'Atalanta Bergamasca Calcio, soprannominata Dea, per cui non dovrà nemmeno adeguare i propri occhi ormai provati dagli spettacoli spesso indecorosi offerti dalla Beneamata nelle ultime sette stagioni, a colori diversi da quelli a cui è abituato fin dall'infanzia, con la certezza di non essere costretto a ingoiare bocconi indigesti come l'arrivo sulla panchina dell'Inter dell'impresentabile tecnico leccese. #NotForEveryone, recita il nuovo slogan per brandizzare, come dicono i milanesoidi, il marchio nerazzurro, quanto mai azzeccato. Infatti: #NotForMe.

lunedì 27 maggio 2019

Niente di nuovo sotto lo Stivale (il Sole tard'avvenì)



A proposito dei risultati delle elezioni per il Parlamento Europeo, alcune considerazioni: gli italiani corrono sempre in aiuto del vincitore, frase quantomai attuale che Giuseppe Prezzolini erratamente attribuì a Ennio Flaiano (che parafrasava Bruno Barilli), ma nel suo stile. Propriamente di Flaiano è la considerazione che La stupidità ha fatto progressi enormi. È un sole che non si può più guardare fissamente. Grazie ai mezzi di comunicazione, non è più nemmeno la stessa, si nutre di altri miti, si vende moltissimo, ha ridicolizzato il buon senso, spande il terrore intorno a sé: lo scriveva in un elzeviro sul Corriere della Sera nel marzo di 50 anni fa. Ecco come definiva un altro fenomeno tipicamente nostrano: il Fascismo conviene agli italiani perché è nella loro natura e racchiude le loro aspirazioni, esalta i loro odi, rassicura la loro inferiorità. Il fascismo è demagogico ma padronale, retorico, xenofobo, odiatore di cultura, spregiatore della libertà e della giustizia, oppressore dei deboli, servo dei forti, sempre pronto a indicare negli “altri” le cause della sua impotenza o sconfitta. Il fascismo è lirico, gerontofobo, teppista se occorre, stupido sempre, ma alacre, plagiatore, manierista. Non ama la natura, perché identifica la natura nella vita di campagna, cioè nella vita dei servi; ma è cafone, cioè ha le spocchie del servo arricchito. Odia gli animali, non ha senso dell’arte, non ama la solitudine, né rispetta il vicino, il quale d’altronde non rispetta lui. Non ama l’amore, ma il possesso. Non ha senso religioso, ma vede nella religione il baluardo per impedire agli altri l’ascesa al potere. Intimamente crede in Dio, ma come ente col quale ha stabilito un concordato, do ut des. È superstizioso, vuole essere libero di fare quel che gli pare, specialmente se a danno o a fastidio degli altri. Il fascista è disposto a tutto purché gli si conceda che lui è il padrone, il padre. Le madri sono generalmente fasciste. Chiosando, in un'altra occasione, nel 1972: I fascisti (in Italia) si dividono in due categorie: i fascisti propriamente detti e gli antifascisti. Questo quanto scrisse Pierpaolo Pasolini in uno dei suoi Scritti corsari (1975): Noi siamo un paese senza memoria. Il che equivale a dire senza storia. L’Italia rimuove il suo passato prossimo, lo perde nell’oblio dell’etere televisivo, ne tiene solo i ricordi, i frammenti che potrebbero farle comodo per le sue contorsioni, per le sue conversioni. Ma l’Italia è un paese circolare, gattopardesco, in cui tutto cambia per restare com’è. In cui tutto scorre per non passare davvero. Se l’Italia avesse cura della sua storia, della sua memoria, si accorgerebbe che i regimi non nascono dal nulla, sono il portato di veleni antichi, di metastasi invincibili, imparerebbe che questo Paese speciale nel vivere alla grande, ma con le pezze al culo, che i suoi vizi sono ciclici, si ripetono incarnati da uomini diversi con lo stesso cinismo, la medesima indifferenza per l’etica, con l’identica allergia alla coerenza, a una tensione morale. Dovrebbe stupirmi l'esito del voto di ieri? Il 35% rasentato dalla Lega Salvini Premier, con questa dicitura si presentava la sua lista, che nulla aveva a che vedere, fin dalla sigla, con l'istituzione dell'UE per cui si tenevano le elezioni? E questo dopo che per un anno tutti i mezzi di informazione, incluso il Fatto Quotidiano, hanno tirato, volontariamente o no, il che è pure peggio, la volata al ministro dell'Interno in carica propalando a più non posso le stronzate che questo selfista molesto quotidianamente riversa tramite i suoi account social, offrendogli le prima pagine dei giornali e le aperture di TG e GR e garantendogli ulteriore visibilità, il tutto in odio dei "barbari" del M5S, peraltro erroneamente considerati "anti-sistema", avendo ampiamente dimostrato di esserne parte e congrui, cosa che il loro elettorato ha palesemente dimostrato di non gradire? Il tutto con la collaborazione delle cosiddette opposizioni, a cominciare dal PD che ora passa per vittorioso, per avere superato, per l'appunto, il detestato nemico a cinque stelle, quando invece rispetto alle precedenti elezioni europee del 2014, quelle che avrebbero, secondo le sue teorie, legittimato Renzi, ha pressoché dimezzato il numero dei voti? Oltre 5 milioni e 18 punti in percentuale in meno, e ci hanno pure da festeggiare... Non dimentichiamo altresì che l'affluenza alle urne è stata del 55%, 58% nel 2014. Che dire ancora? I berluscones propriamente detti sono sotto il 9%; i Fratelli Italiani al 6,5%, i Più Europei della Bonino finanziati da Soros al 3%, e quindi fuori dal Parlamento Europeo (notiamo per inciso che in compenso vi entreranno in massa quelli dell'UKIP di Nigel Farage, votati da un Paese che dall'UE è uscito... A dimostrazione che tutto questo ambaradàn non è una cosa seria), aggiungiamo che in Italia al posto dei Verdi abbiamo, da sempre, i Merdi, attestati al 2,2% e che le due meteore a "sinistra", si fa ovviamente per dire, del PD, nemmeno assieme supererebbero lo sbarramento del 4%. In sostanza: la Lega è la nuova DC; il PD il degno erede dei traditori e opportunisti per antonomasia da cui deriva; Forza Italia ha preso il posto dei laici del Pentapartito d'antan e il Fratelli Italiani tengono viva la fiamma del vecchio MSI, mentre il paventato pericolo fassista di Casa Pound e Forza Nuova si riduce, in termini di consenso, a scorie. In sostanza, dopodomani arrivo a quota 64 anni e nel frattempo, da quando ne ho memoria, non è sostanzialmente cambiato un cazzo. E perché dovrebbe, se si riesce a tirare a campare?

domenica 26 maggio 2019

Tutti pazzi a Tel Aviv

"Tutti pazzi a Tel Aviv" (Tel Aviv on Fire) di Sameh Zoabi. Con Kaif Nashif, Lubna Azabal, Yaniv Biton, Nadim Sawalha, Maisa Abd Elhadi, Yousef "Joe" Sweid, Amer Hlehel, Ashraf Farah, Laëtitia Eïdo e altri. Lussemburgo, Francia, Belgio, Israele 2018 ★★★+
Fuorviato tanto per cambiare dal titolo italiano che non c'entra nulla con l'originale, e che portava a pensare di avere assicurata un'ora e mezza di risate conoscendo il caustico humor ebraico, in questo simile a quello dei loro cugini arabo-palestinesi (ci si riferisce ovviamente ai più intelligenti delle due parti in causa) quando si tratta di satireggiare sulle diatribe che li dividono in un conflitto di varia intensità che dura ormai da settant'anni; e invece si sorride sì, ma piuttosto compassatamente davanti alla messa in scena, ché di questo in fin dei conti si tratta, della strampalata e paradossale costruzione della sceneggiatura di una serie TV palestinese prodotta a Ramallah, che porta il nome di Tel Aviv Brucia, una storia d'amore, spionaggio e tradimento ambientata nel 1967, appena prima dello scoppio della Guerra dei Sei Giorni. Salam, un trentenne palestinese che vive a Gerusalemme, indeciso su cosa fare della sua vita e incapace di trovare stabilità in una situazione incerta e destabilizzante come quella dell'occupazione israeliana con tutto quel che comporta, viene ingaggiato come tuttofare dallo zio che è il produttore della serie, col compito, in quanto esperto di cose ebraiche vivendo al di là del muro e parlando la lingua, di fare da consulente. Fermato un giorno per un controllo al check point, si fa passare per lo sceneggiatore, cose che poi diventa davvero dopo che si imbatte in Assi, l'ufficiale di Tsahal che comanda il posto di frontiera, la cui moglie segue con passione la serie e che ha  a sua volta velleità artistiche, ma soprattutto il desiderio di impressionare la consorte che lo considera un macho irrimediabilmente rozzo e refrattario al romanticismo e alla passione. In sostanza fornisce a Salam dapprima tutta una serie di suggerimenti che impressionano sia gli attori sia i produttori e che consentono Tel Aviv Brucia di raggiungere picchi d'ascolto insperati da una parte e dall'altra; così che il giovane, di suo alquanto sprovveduto, viene assunto davvero come co-sceneggiatore; poi interi pezzi di sceneggiatura, che permettono alla serie di avere materiale per proseguire per una seconda stagione superando l'epilogo che era stato originariamente previsto per la vicenda, e con un nuovo protagonista a sorpresa. Che non svelerò, perché è una delle parti più divertenti del film. Buona parte del quale si svolge nel teatro di posa dove viene girata la serie televisiva (dunque un gustoso film-nel-film), e l'altra nella stanza di Assi, ogni qual volta Salam si reca da Gerusalemme Est a Ramallah e viceversa, ossia quotidianamente; al contempo si svolgono le vicende coniugali dell'ufficiale e quelle di Salam con Mariam, una giovane medico di cui è innamorato fin dall'infanzia. Una commedia aggraziata, capace di far riflettere con leggerezza sull'assurdità della situazione nei Territori ma anche in generale sulle divisioni tra arabi ed ebrei in quelle terre, molto più simili di quel che si potrebbe pensare e sicuramente di ridere delle stesse cose e perfino dei paradossi che vivono quotidianamente, lasciando spazio alla speranza che un modo per superarle forse c'è, magari attraverso il cinema o la TV, e sicuramente attraverso la conoscenza e comprensione reciproca e l'intelligenza. Tra gli attori, una nota di merito a Yaniv Beton (Assi) e Lubna Azabal Che interpreta la protagonista della serie TV), mentre Kaif Nashif nei panni dello stralunato Salam lascia il dubbio se ci fa o ci è: nel primo caso, è bravissimo!

venerdì 24 maggio 2019

Dolor y gloria

"Dolor y gloria" di Pedro Almodóvar. Con Antonio Banderas, Asier Etxeandia, Leonardo Sbaraglia, Nora Navas, Asier Flores, Penélope Cruz, Julieta Serrano, César Vicente, Raúl Arévalo. Spagna 2019 ★★★★★
Regista controverso fin dai suoi esordi, Pedro Almodóvar piace o non piace, non ci sono vie di mezzo: io lo considero un maestro, spesso geniale, e mi piacciono il suo modo di fare cinema, i suoi colori, le sue invenzioni, il suo cocktail di tragico e grottesco capace però di esprimere lo stato d'animo, le contraddizioni e le nevrosi di un'intera generazione, che è poi quella a cui appartengo, e che nel suo Paese ha segnato la fine del franchismo e che ha dato vita alla movida madrilena e all'orgia creativa che l'ha caratterizzata: nonostante ciò, e pur rimanendo invariabilmente spagnoli, i suoi film ne hanno travalicato i confini parlando anche al resto d'Europa e, ovviamente, all'America Latina (quella settentrionale non la considero nemmeno, ché vive in un'altra dimensione mentale). Ho letto di auto-fiction, ma a prescindere dalla componente autobiografica, che in Almodóvar non manca mai e qui è particolarmente evidente nella storia del suo alter ego Salvador Mallo (all almodovar è l'anagramma), come del resto in nessun autore del suo livello, Pedro el manchego ha confezionato ancora una volta un film che da un lato è una dichiarazione d'amore per il cinema (e il teatro) e dall'altro parla dritto al cuore e alle persone. Perché la storia di Salvador, regista di successo in preda a crisi di ispirazione, ma anche e soprattutto con il decadimento fisico in conseguenza malanni, in parte veri e in parte dovuti alla sua ipocondria, periodicamente in preda a depressione, è quella degli alti e bassi di ciascuno di noi, che prima o poi ripercorre il proprio passato e non vi ci si riappacifica finché non ci ha fatto i conti: solo così potrà giungere a un nuovo equilibrio e, forse, ritrovare l'ispirazione. E' quel che succede a Salvador (un Antonio Banderas raramente così in palla), ormai quasi autorecluso nella sua casa-museo dove colleziona quadri e oggetti di pregio (e gusto discutibile), i cui contatti con l'esterno sono filtrati dalla fida agente Mercedes, il quale viene invitato a presenziare alla riedizione del suo primo film di grandissimo successo, Sabor, successivamente rinnegato, restaurato per l'occasione ma ora rivalutato da lui stesso; per Salvador è un pretesto per incontrare, a distanza di 32 anni, Alberto, l'attore che lo aveva interpretato e con cui aveva rotto burrascosamente i rapporti da allora, a cui propone di accompagnarlo all'evento. Questi non ha smesso di fumarsi eroina, che però tiene sotto controllo, e tornando a frequentarlo Salvador acquista una nuova dipendenza. Nel frattempo ripercorre le vicende della sua infanzia di povertà, nella provincia di Valencia, i rapporti con la madre, la cui scomparsa due anni prima non ha ancora superato, la precoce vocazione artistica, gli studi al seminario, le prime manifestazioni inconsce di tendenze omosessuali. Gli screzi tra Salvador e Alberto non mancano nemmeno ora, ma per riparare ai torti passati il regista concede all'attore un testo, Dipendenza per l'appunto, da presentare in un teatro della scena off della capitale a patto che Alberto non riveli chi ne sia l'autore, e che oltre a essere apprezzato dal pubblico lo è in particolare da uno spettatore giunto da Buenos Aires, Federico (Leonardo Sbaraglia), di passaggio a Madrid, con cui aveva avuto una difficile relazione anni prima e a cui è di fatto dedicato il testo. I due protagonisti di un amore impossibile da gestire trovano il modo di incontrarsi a chiarire le ragioni del loro distacco e, tra un rinnovato contatto col mondo esterno e il riesame di quello interiore, Salvador riuscirà a trovare, con un nuovo equilibrio psico-fisico, anche l'ispirazione per tornare a girare, perché il cinema, per lui, è anche salvezza. Uscendo dalla sala, ieri sera, mi son detto: Almodóvar è e rimane un genio. Qui è stato essenziale, diretto, senza veli. Eppure lieve e ironico, mai melodrammatico e autoindulgente. Stilisticamente perfetto, commento musicale all'altezza (Mina, soprattutto), bravissimi gli interpreti: Bentornato Pedro!

sabato 18 maggio 2019

L'uomo che comprò la Luna

"L'uomo che comprò la Luna" di Paolo Zucca. Con Jacopo Cullin, Stefano Fresi, Francesco Pannofino, Benito Urgu, Lazar Ristovski, Angela Molina. Italia, 2018 ★★★★½
Film volutamente “etnico”, surreale, a tratti stralunato, in questo sulla linea del precedente lavoro di Paolo Zucca, L’arbitro, dove comprimario di un ottimo Stefano Accorsi era Jacopo Cullin nei panni di un campione argentino rientrato in Sardegna e qui invece protagonista assoluto in quelli di Gavino Zoccheddu, un giovane parà che ha rinnegato le proprie origini nascondendosi dietro all’alias di Kevin Pinelli, e a un marcato accento milanese, che viene ingaggiato, dietro il ricatto di svelare il misfatto, da due funzionari di una fantomatica Agenzia Atlantica, per scoprire l'identità dell'uomo che, dalla Sardegna, risulta aver acquisito il diritto di proprietà di buona parte della Lunca, di cui gli USA ritenevano avere l'esclusiva dopo lo storico sbarco di Armstrong e Aldrin sul satellite il 20 luglio del 1969, e che per questo motivo avevano immediatamente fatto pressioni sul governo italiano, succube e servile come sempre. Per compiere la missione Kevin/Gavino deve fare una full immersion di sardità per potersi infiltrare, non notato, nell'ambiente isolano e risalire all'identità di chi, carte alla mano, dimostra di avere a tempo debito rivendicato un diritto di usucapione sulla Luna, e incaricato di addestrarlo è Badore, un sardo riparato in Continente a fare l'artiere ippico dopo una disavventura occorsagli sull'Isola, interpretato da un superbo Benito Urgu, che anche ne L'arbitro aveva interpretato l'allenatore, in quell'occasione di calcio, benché cieco. Qui invece si cura della preparazione del giovane rinnegato fino a fargli recuperate tutte le stigmate del vero sardo "balente": lo spasso è assicurato. Il film, che si avvale del contributo di Lucia Alberti e Geppi Cucciari alla sceneggiatura, che accentua il lato comico di questa commedia assurda, gioca sugli stereotipi che colpiscono i sardi che, a dispetto della loro asserita permalosità, dimostrano di sapere non soltanto ridere di sé stessi, autorappresentandosi, ma di ribaltarli; ma non lo fa, come ha spiegato lo stesso regista che mercoledì ha presentato il film assieme a Cullin al Centrale di Udine e poi al CinemaZero di Pordenone, alla maniera tipica della commedia all'italiana in cui comico e tragico viaggiano sullo stesso binario, ma con una brusca alternanza di toni di ispirazione shakespeariana, per cui alla farsa più sguaiata segue, all'improvviso e inaspettata, una parte drammatica che crea un corto circuito e fa inevitabilmente riflettere. Non mancano nemmeno il lato poetico e quello politico, anche questo trattato in tono tra il giocoso e il sognante, né i richiami simbolici e le metafore. Forse meno visionario e più "leggero" de L'Arbitro, alla fine anche L'uomo che comprò la Luna non è soltanto una dichiarazione d'amore del regista alla sua Sardegna (dove l'accoglienza del film è stata trionfale: una volta sbarcato sul continente, una decina di giorni fa, come media spettatori/copie per sala ha superato perfino Avengers grazie al passaparola e sta avendo l'inaspettato ma meritato successo anche nei festival esteri a cui si è presentato) ma anche la rivendicazione dell'identità culturale e del forte carattere di una terra ingiustamente bistrattata quanto orgogliosa e bellissima, abitata da un popolo fiero, forte, onesto e determinato. Aiutano anche la fotografia, eccellente, e l'ambientazione. Ne raccomando caldamente la visione: meritano: il film, i sardi e la Sardegna. 

mercoledì 15 maggio 2019

Il grande spirito

"Il grande spirito" di Sergio Rubini. Con Rocco Papaleo, Sergio Rubini, Ivana Lotito, Bianca Guaccero, Geno Diana, Alessandro Giallocosta, Ilaria Ciangalossi, Antonio Andrisani, Totò Onnis e altri. Italia 2019 ★★★★
Favola morale e metafora, Il grande spirito, l'ultima regia di Sergio Rubini, qui coprotagonista con Rocco Papaleo in un film incentrato sui due personaggi principali, è quanto mai attuale e colpisce nel segno e lo fa avvalendosi di una commistione di generi, dal noir d'azione alla commedia al melodramma a film del classico "colpo grosso", il tutto in forma surreale ma quanto mai concreta, raccontando il fortuito e provvidenziale incontro fra due disgraziati sui tetti di Taranto, con le ciminiere e i fumi velenosi dell'Ilva a dominare sul degradato panorama circostante: sintomatico che pressoché tutta la vicenda si svolga in alto, sulle terrazze affacciate sulla città e il centro siderurgico che incombe su di essa e che condiziona costantemente la vita (e la salute) degli abitanti, fra inseguimenti, sparatorie, nascondigli in luoghi abietti, situazioni scabrose: eppure una luce esiste, anche nel caso dei due disperati al centro del racconto. Tonino è un delinquente, perseguitato dalla malasorte, trasandato e dedito all'alcol che frequenta galere e bassifondi, chiamato con spregio "barboncino" dal suoi complici e relegato a fare il palo durante una rapina finita male e compiuta nel territorio di una gang rivale: per un caso fortuito viene in possesso di un borsone con la ricca refurtiva, un bel gruzzolo in contanti e gioielli di valore, e fa perdere le proprie tracce nascondendolo in un cantiere e trovando rifugio, una volta inseguito, in un tugurio su un terrazzo, abitato da Cervo Nero, alias Renato, un uomo affetto da autismo convinto di appartenere alla tribù dei Sioux, in perenne lotta contro gli yankees che hanno desertificato tutto ciò che un tempo erano foreste e praterie, sterminato i bisonti, oppresso gli indigeni e tutto in nome del dio quattrino, e che vede nell'arrivo di Tonino quello dell'uomo del destino come, nella sua fantasia, gli aveva annunciato il Grande Spirito, con cui è in costante contatto. E di un incontro del destino si tratta, fra due uomini al margine, che pur partendo da visioni opposte riescono a capirsi e ad aiutarsi a vicenda: non sto qui a raccontare come perché è parte essenziale del film in cui, pur muovendosi in un ambito di raro squallore umano (vedi anche la vicenda di Teresa, un'inquilina del palazzo, madre di due figli e vessata dal marito violento, l'unica a occuparsi di Renato in cambio di un luogo in cui prostituirsi, mentre il cugino dell'uomo cerca di estorcergli una firma per farlo ricoverare volontariamente in un ospedale psichiatrico e entrare così in possesso del ripostiglio sul terrazzo per trasformarlo in un attico), proprio tra gli ultimi permane una scintilla di dignità e umanità e nella follia una rara saggezza. Secondo Renato, come diceva Toro Seduto, dopo aver distrutto tutto agli yankees non rimarrà che nutrirsi di quel denaro che idolatrano, che invece secondo Tonino rimane pur sempre il mezzo per "svoltare" in una vita passata fra galera e disgrazie, e per Teresa per affrancarsi dal marito che la schiavizza, ma alla fine si capiranno e la solidarietà fra loro, nonché il sacrificio di uno, porteranno un po' di giustizia e a un parziale riscatto di chi resta. Livida ed espressiva la fotografia, ambientazione adeguata ed estremamente realistica e pertanto sgradevole, senza bisogno di calcare la mano, considerati luogo e circostanze, solida la  sceneggiatura, ironico e caustico ma lieve e mai giudicante e moraleggiante ,di ottimo livello il sottofondo musicale di Luigi Einudi, forse un po' troppo lungo ma comunque un ottimo film, inconsueto e ben fatto: complimenti a regista e interpreti e a Domenico Procacci e alla sua Fandango che produce e distribuisce sempre film di qualità e mai banali.

domenica 12 maggio 2019

I figli del Fiume Giallo

"I figli del Fiume Giallo" (Jianghu Ernü/Ash is Purest White) di Ja Zhangke. Con Zhao Tao, Liao Fan, Zheng Xu, Casper Liang, Feng Xiaogang, Yinan Dao e altri. Cina, Francia, Giappone 2018 ★★★★
In concorso al Festival di Cannes la primavera passata e presentato a quello di Torino in anteprima italiana lo scorso autunno, esce nelle nostre sale soltanto ora questo potente, suggestivo, complesso ma al contempo scorrevole e coinvolgente film di uno dei più grandi talenti del cinema cinese, Ja Zhangke, che torna sulle sue tracce (in particolare mi riferisco a Still Life, Leone d'Oro strameritato nel 2006 a Venezia) raccontando, attraverso una storia che attraversa i generi, tra il noir hongkonghese, il melodramma sentimentale e il documentario antropologico; i tempi (la vicenda si svolge in tre fasi: 2001, 2006 e 2018); i luoghi Datong, nel Nord della provincia dello Shanxi, Fenyang nel Sud della stessa, e la zona delle Tre Gole, nello Hubei, devastata e stravolta dalla costruzione della seconda più grande diga al mondo per la produzione di energia elettrica; ma anche le tecniche (inserti in analogico d'epoca, forse girati durante i suoi lavori precedenti, in un film girato in digitale). Qiao (una straordinaria Zhai Tao, moglie del regista e già protagonista in Still Life) è una ballerina nonché fidanzata di Bin, appartenente a una fratellanza tra cui vige un codice d'onore ereditato dal mondo delle arti marziale dalle varie Triadi che dominano il sottobosco del Paese, e gestiscono una bisca a Datong: conducono una vita tutto sommato tranquilla, anche se lui sembra più propenso a considerare come sua famiglia la confraternita che attratto dall'idea di metterne su una "regolare" con lei, ma la vita di entrambi cambia in modo radicale dopo che una sera Bin viene assalito da una banda di giovinastri che mirano a prenderne il posto e Qiao interviene sparando alcuni colpi di pistola in aria per salvarlo da un linciaggio: farà cinque anni di galera per possesso illegale d'armi e soprattutto perché non ne rivelerà la provenienza e si rifiuterà di testimoniare. Quando uscirà di prigione Bin non sarà lì ad aspettarla: in carcere ha trascorso soltanto un anno, non è mai andato a trovarla ed è sparito. Qiao si mette sulle sue tracce, che la portano a Fenyang (dopo aver attraversato la zona delle Tre Gole su un battello: un'emozione per me rivedere dei luoghi che avevo visitato nel 1992) dove Bin, che asserisce di aver "cambiato vita" evita dapprima di farsi trovare, ma alla fine la pertinace Qiao riesce a stanarlo e lo costringe a un chiarimento sulla loro situazione sentimentale. La terza parte del film si svolge di nuovo a Datong, nella stessa bisca dove la vicenda era iniziata ma in una situazione in cui nel frattempo si sono invertiti i ruoli (parallelamente, altrettanto radicalmente è cambiata la Cina nell'arco degli ultimi vent'anni) tra loro due: come non lo saprete da me ma lo scoprirete se seguirete il mio consiglio di non perdervi questo film, tra i migliori visto durante questa stagione cinematografica, perché da un lato capace di coinvolgere ed essere comprensibile a livello universale, e dall'altro di raccontare la mutazione di un Paese che racchiude un universo di sfaccettature come la Cina, dove il nuovo e una cultura e tradizioni profonde e vecchie millenni si intrecciano. Insomma interessante quanto godibile come spettacolo: cosa volere di più? 

venerdì 10 maggio 2019

Stan & Ollie

"Stan & Ollie" di Jon S. Baird. Con Steve Coogan, John C. Reilly, Nina Arianda, Shirley Henderson, Danny Huston, Rufus Jones e altri. USA, GB ★★★★+
Un piacere misto a nostalgia e un po' di commozione, pur non essendo per nulla melodrammatico e strappalacrime, vedere questo film che rende omaggio a una straordinaria coppia di artisti che ha fatto ridere in maniera sana, ma anche pensare, intere generazioni di giovani e adulti a ogni latitudine: quando la RAI era una cosa seria, durante le festività natalizie trasmetteva puntualmente i maggiori successi di Charlie Chaplin, Buster Keaton ma, soprattutto, della coppia degli opposti che si completano per definizione: Stan Laurel, lo smilzo, stralunato, inglese, la "mente", colui che instancabilmente scriveva le gag, e Oliver "Babe" Hardy, il grassone, ma dotato di una straordinaria leggerezza di movimenti, statunitense della Georgia, estroverso, accanito scommettitore, un insospettato talento musicale e un innovatore nel cinema. E' a lui si deve lo "sguardo in camera", teso a coinvolgere lo spettatore, come se si rivolgesse direttamente a lui. Il film biografico dello scozzese Jon S. Baird si concentra sulla tournée che il celebre duo, ormai nella fase calante della carriera, quando la TV stava sostituendo come mezzo di intrattenimento le sale cinematografiche dove le loro pellicole avevano trionfato nei tre decenni precedenti, intraprese nel 1953 tra Gran Bretagna e Irlanda, organizzata da un promoter senza scrupoli, Bernard Delfont, con la prospettiva, coltivata da Laurel che, se avesse avuto un buon successo, alla conclusione sfociasse in un film, Robbin Good, parodia di Robin Hood, di cui stava scrivendo la sceneggiatura; ma le cose in parte non vanno così bene come speravano: vengono ospitati spesso in locande sordide, le sale di teatri talvolta secondari sono semivuote, il giro comincia a ingranare soltanto avvicinandosi a Londra, ma chi doveva finanziare il film si tira indietro senza nemmeno farsi trovare e nel frattempo Hardy comincia ad avere seri problemi di salute, fino ad arrivare a un infarto fatto in piedi ma tendendo fede al suo impegno professionale fino all'ultimo senza abbandonare il partner. La vicenda ha un prologo 16 anni prima, nel loro periodo d'oro hollywoodiano, quando il duo era sotto contratto con Hal Roach, che non voleva riconoscere loro i diritti sul film che interpretavano e di cui erano autori: Laurel in scadenza di contratto, entrò in conflitto col produttore e fu licenziato, mentre Hardy, alle prese con le spese per un divorzio e con l'acqua alla gola per debiti di gioco accettò di girare per Roach un film con un partner diverso da quello abituale, cosa che Stan visse come un tradimento. E' questo episodio, rimosso nel sodalizio professionale ma anche umano che si era instaurato tra i due, che torna a galla quando, durante la tournée britannica, durante la quale i due ebbero occasione di tornare a frequentarsi a lungo anche fuori dal palcoscenico, e che incombe venendo finalmente affrontato in uno dei rarissimi diverbi tra i due, amici e complementari anche fuori dalle scene, quando verrà proposto a Stan di proseguire lo spettacolo con un partner diverso da "Babe" Ollie, fermato dai medici. Tutto si risolverà per il meglio, anche se il film non si farà: Stan non lo aveva detto a Ollie, ma questi l'aveva capito e, a sua volta, stava al gioco per non mettere in imbarazzo l'altro. Nell'ultima parte del film i due anziani artisti vengono raggiunti dalle rispettive mogli, e il regista è bravo a raccontarci non solo l'interazione tra i due nella costruzione delle scenette, ma anche come individui e con le loro compagne di ventura: la ricostruzione quanto mai credibile di un'amicizia profonda ma anche di tutto un ambiente che non esiste più. Eccezionali le prestazioni di John C. Reilly nella parte di Ollie, di nuovo protagonista come nel recente I fratelli Sisters, e di Steve Coogan in quella di Stan, incredibilmente somiglianti agli originali grazie sì alle magie del trucco, ma anche alla loro duttilità e allo studio attento delle movenze degli originali; all'altezza tutti gli altri interpreti; una regia pulita e sicura, l'ambientazione più che accurata. Difficile non farsi piacere questo omaggio a due geni della comicità che, come si sa, è una cosa seria.

martedì 7 maggio 2019

La caduta dell'impero americano

"La caduta dell'impero americano" (La Chute de l'Empire Américain) di Denys Arcand. Con Alexandre Landry, Maripier Morin, Remy Girard, Louis Morissette, Maxim Roy e altri. Canada 2018 ★★★=
Scritto e diretto da Denys Arcand, a conclusione di una trilogia iniziata nel 1986 con Il declino dell'impero americano e proseguita nel 2003 con Le invasioni barbariche, che raccontano le contraddizioni della società canadese, e di quella québécois, tradizionalista e francofona ,in particolare, alle prese con il pericoloso, aberrante e invadente vicino USA di cui è economicamente a in buona parte anche culturalmente succube, benché vengano ripetutamente rimarcate e rivendicate le differenze, al di là del roboante e promettente quanto ingannevole titolo La caduta dell'impero americano alla fine si riduce a una gradevole quanto modesta favola a lieto fine, che pur partendo dall'assunto che il denaro non porta la felicità, mentre il mondo folle in cui viviamo dà per scontato il contrario e misura il valore delle persone in base a quello e non all'intelligenza, finisce per girare su sé stesso, a vuoto, cl risultato di dimostrare l'esatto contrario. La vicenda, alquanto improbabile, ruota attorno al Pier-Paul, un trentaseienne con un prestigioso dottorato di filosofia il quale fa il fattorino per una ditta che consegna pacchi perché così guadagna di più di quanto potrebbe come insegnante, nonché il volontario per un'associazione che si occupa di senzatetto, e si tormenta per la stupidità trionfante che vede ai vertici della società trionfante personaggi come Bush, Berlusconi o, peggio ancora, Blair e, siccome non si è ancora toccato il fondo, finire con Trump. Un bel giorno giunge sul posto in cui è avvenuta una rapina che ha lasciato sul terreno due morti, due sacche colme di danaro (che una gang aveva lasciato in deposito a un altro malvivente) mentre un terzo rapinatore, ferito si è dato alla fuga: Pier Paul se ne impossessa e da quel momento la sua vita cambia completamente prospettiva. Ovviamente non anticipo nulla sulla trama, che si svolge secondo gli stilemi di un noir alquanto ingenuo e farcito di luoghi comuni: la puttana redenta di cui il ragazzo si innamora; il criminale, "Il motociclista" (Remy Girard), il personaggio probabilmente meglio riuscito, che in carcere si è laureato in economia e finanza, altrettanto redento, a cui si rivolge per investire il bottino, tutto in contanti, a fin di bene; la polizia, di una stolidità tutta francese (Peter Sellers col mitico commissario Clouseau aveva colpito nel segno) che difende l'indifendibile sistema e annaspa anche in questo suo compito, la gang che vuole recuperare il malloppo. Per fortuna il sermone morale, piuttosto contraddittorio, non eccede in verbosità e la pellicola si fa vedere, se la si prende per quello che è: una commedia aggraziata, innocua al di là del titolo; mentre un po' di sana ferocia non avrebbe guastato, ma per questo bisogna avere determinazione e talento. Siccome oggi sono di buon umore, diamogli la sufficienza: ma per un pelo.

domenica 5 maggio 2019

I fratelli Sisters

"I fratelli Sisters" (The Sisters Brothers) di Jacques Audiard. Con John C. Reilly, Joaquin Phoenix, Jake Gyllenhaal, Riz Ahmed, Jóhannes Haukur Jóhanneson, Rebecca Root, Carole Kane e altri. Francia, Spagna, Romania, Belgio USA 2018 ★★★★+
Un sorprendente western metafisico e umanista quello confezionato da Jacques Audiard, già apprezzato per Il Profeta e Deephan, che conferma originalità, capacità di utilizzare i canoni del genere più hollywoodiano di tutti per toccare corde più profonde e parlare di temi universali e, dunque, attuali, felice adattamento del romanzo omonimo del canadese Patrick deWitt. I Sister Brothers (un ossimoro che dà vita a un corto circuito già nel titolo) Eli e Charlie, rispettivamente il bravissimo John C. Reilly, finalmente protagonista principale, e Charlie (un ottimo Joaquin Phoenix che ben si adatta al ruolo di comprimario), il fratello minore ubriacone, violento e problematico, sono due efferati quanto efficaci sicari incaricati da Commodore di mettersi sulla tracce di Herman Warm (Riz Ahmed), un chimico che ha inventato una formula per fare apparire l'oro in mezzo agli altri minerali rendendolo più facile da individuare, il quale a sua volta è inseguito da John Morris (Jake Gyllenhaal), uno strano e colto investigatore che a sua volta è stato incaricato dal Commodore di farsi amico lo scienziato e fermarlo finché i due killer non lo avranno tra le mani per estorcergli il segreto, consegnare la scoperta al capo e accoppare il poveraccio: siamo nel 1851 in Oregon, in piena corsa all'oro verso la California (poi verrà la volta dell'Alaska) e una marea umana eterogenea di immigrati, illusi, avidi, imbroglioni è in transumanza verso Ovest attratta dal miraggio del prezioso metallo. Il viaggio è lungo e, sparatorie a parte, che avvengono generalmente al buio e sono soltanto un aspetto secondario della vicenda, di cose ne succedono molte e le cose cambiano, anche di prospettiva, e questo cambiamento lo vediamo man mano maturare attraverso i colloqui tra i due fratelli, le loro riflessioni, la loro quotidianità: vittime di un padre orco, da cui Charlie ha preso parte del carattere violento e la passione per la bottiglia, tocca a Eli, il maggiore, il ruolo di quello riflessivo, che infatti sogna di formarsi una famiglia, smetterla con il sicariato e di aprire un emporio; inoltre si sente in colpa ne confronti di Charile perché è stato quest'ultimo a uccidere il padre violento e da allora non è più stato lo stesso, compito che sarebbe toccato a lui, in quanto più vecchio. Lo stesso cambiamento avviene anche nel rapporto fra il detective Morris e il chimico Warm, un sognatore utopista che, coi proventi dell'oro trovato grazie alla sua formula, vuole costruire, con altri immigrati europei, una sorta di comunità ideale a Dallas, in Texas (il che è tutto dire...). Alla fine tutti e quattro si ritroveranno sulla stessa sponda, ma non racconto i dettagli, tranne che per i fratelli tutto si risolverà, per il meglio, "in famiglia". E' proprio nei colloqui quasi filosofici tra i due fratelli, adusi a occuparsi l'uno dell'altro anche fisicamente (tagliandosi i capelli a vicenda, curando l'altro quando infortunato o malato), ma anche tra gli altri due compagni di ventura che invece imparano a conoscersi fino a diventare soci in affari e compagni di ideale, la forza del film, che da un lato usa un'ironia leggera ma arguta per raccontare l'avidità che sta alla base di una nazione già aberrante fin dalla sua nascita, dall'altro sottolinea l'importanza dei rapporti famigliari e d'amicizia per tenere a bada e correggere gli "spiriti animali" che dominano la società USA. Una gran bella sorpresa per un western anomalo, una conferma per Audiard e gli attori che ha scelto come protagonisti, una fotografia perfetta e una colonna sonora inconsueta ma efficace: funziona tutto. 

mercoledì 1 maggio 2019

Sarah & Saleem - Là dove nulla è possibile

"Sarah & Saleem - Là dove nulla è possibile" (The Reports on Sarah and Saleem) di Muayad Alayan. Con Abeed Safadi, Sivane Kretchner, Ishai Golan, Maisa Abd Elhadi, Jan Kuhne, Kamel El Basha, Mohammad Eid, Rebecca Telhami, Geroge Khleifi, Hanan Hillo e altri. Palestina 2018 ★★★★+
In pieno tripudio da Far East Film Festival, una pausa salutare per dedicarmi al Middle East per un film sorprendente, girato in maniera impeccabile da Muayad Alayam, al suo secondo lavoro, e interpretato mirabilmente da un'intero cast all'altezza, tra cui spiccano le parti dei quattro protagonisti principali, che racconta la storia di un adulterio che, in una città come Gerusalemme, città santa per le tre religioni monoteiste, già divisa al suo interno tra la parte occidentale ebrea e quella orientale araba e per di più sul confine, con tanto di muro, con i territori governati dall'Autorità Palestinese, fa presto a passare dall'essere una mera questione di corna a un affare di Stato, sia per le forze di sicurezza israeliane, sia per quelle palestinesi, entrambe ossessionate dalla paranoia del tradimento. Sarah, moglie di David, un colonnello di Tsahal, l'esercito israeliano, che si occupa appunto di sicurezza, ha una storia di sesso con Saleem, un arabo, a sua volta sposato e la cui moglie, Bisat, è all'ultimo mese di gravidanza, il quale effettua consegne di croissant nell'esercizio della donna: consumano la loro passione una volta la settimana, la sera tardi, nel retro del furgone che l'uomo usa per il suo lavoro di fattorino. Una volta si avventurano fino a Betlemme, nei Territori, dove Saleem per integrare i magri proventi fa un altro tipo di consegne, comunque legali, per conto del cognato: merci che gli abitanti al di là del muro, non potendolo varcare, non possono acquistare direttamente in Israele, e lì, per difendere Sarah dagli approcci di un energumeno in un bar, lo picchia. Il tipo gliela giura e quando Saleem tornerà a Betlemme in una seconda occasione, viene arrestato dalle forze di sicurezza, che lo accusano, tra l'altro, di sfruttamento della prostituzione di donne israeliane. Per cavarlo dai pasticci interviene il cognato, che coinvolge un alto dirigente dei servizi segreti palestinesi, che gli fa sottoscrivere un documento in cui, per non rivelare il nome della donna, dice di averla arruolata per conto dei servizi. Questo basta a rimetterlo in libertà ma dura poco, perché in un'operazione dei servizi di sicurezza stavolta israeliani, guidata proprio da David, il marito dell'adultera, viene requisito anche quel documento e Saleem viene arrestato anche dagli israeliani, che vogliono a tutti i costi sapere il nome della donna, terrorizzati che possa aver passato notizie delicate. Saleem continua a non fare il nome di Sarah, mentre la sua avvocatessa, vede come unica via d'uscita che la donna dica la verità e testimoni in suo favore venendo allo scoperto: Sarah in un primo momento si rifiuta, consapevole delle conseguenze che ciò avrebbe sia sul suo matrimonio sia sulla carriera del marito, ma alla fine, grazie anche al risoluto intervento della volitiva Bisat, solo apparentemente timida e remissiva, si reca in tribunale. Questo per quanto riguarda la trama e sorvolando sui dettagli, ma è da sottolineare l'efficacia con cui tutta la storia viene raccontata; il come nulla, in una realtà come quella di Gerusalemme, possa essere normale, nemmeno una semplice storia di sesso: quando sono coinvolti ebrei e arabi il libero arbitrio e la dimensione individuale non possono esistere. Un film di rara intensità, che sarebbe un peccato perdere.