mercoledì 28 ottobre 2020

Palazzo di Giustizia

"Palazzo di Giustizia" di Chiara Bellosi. Con Daphne Scoccia, Bianca Leonardi, Sarah Short, Nicola Rignanese, Giovanni Anzaldo, Andrea Lattanzi, Simone Moretto, Diego Benzoni e altri. Italia 2019 ★★★★

Ultimo film visto in sala dopo la demenziale decisione, contenuta nel più recente DPCM, di chiudere cinema, teatri e stadi (nemmeno a capienza più che ridotta) fino al 24 di novembre (per ora...), trattando ancora una volta gli italiani non da cittadini ma da sudditi o, se si vuole, da infanti irresponsabili. Un film insolito e coraggioso, quello d'esordio alla regìa di un lungometraggio di Chiara Bellosi, drammaturga milanese di solida formazione teatrale, che mantiene fede al suo titolo scegliendo di raccontare, con estremo realismo, ciò che accade davvero nella quotidianità di un grande tribunale italiano, in questo caso quello di Torino dove, in Corte d'Assise, si tiene il dibattimento finale di una causa che vede imputato per omicidio un benzinaio il quale, dopo essere stato assalito e rapinato dell'incasso, ha reagito inseguendo i due malviventi, aprendo il fuoco con la pistola regolarmente denunciata e ammazzandone uno: il sopravvissuto, Magia, è in aula in qualità di testimone. Essendo difficile sostenere la legittima difesa, gli avvocati suggeriscono all'imputato di dire di aver avuto paura; l'uomo, però, onestamente ammette che ciò che gli ha fatto scatenare la sua reazione è stata l'umiliazione, l'essersi dovuto inginocchiare e subire le minacce e le vessazioni dei due malviventi. Non è però questo il fulcro del film, benché la regista descriva con estrema attenzione e con abbondanza di primi piani e particolari veritieri le parole, i movimenti, le pause, gli sguardi di tutte le parti in causa, tant'è vero che al termine non viene resa nota la decisione presa in camera di consiglio dalla giuria, ma ciò che avviene fuori dall'aula e negli interminabili e freddi corridoi e meandri del palazzo, concentrandosi su Domenica, la figlia diciottenne del benzinaio, Luce, una bambina irrefrenabile che ne ha dieci di meno, figlia del rapinatore e di Angelina, la sua giovane compagna e convivente e le relazioni che si stabiliscono fra loro e con Daniele, un tecnico impegnato nella riparazione di un termosifone e che per tutta la giornata stazione nel corridoio antistante l'aula: spaccato di vita quotidiana all'interno del luogo in cui viene amministrata la giustizia, insomma, un mondo che, a ben vedere, con i suoi rituali, è estremamente vicino a quello del teatro, da cui per l'appunto la Bellosi proviene (ricordo anche che capitava, tra medie e liceo, di trascorrere in tribunale ad assistere ai processi come fossero spettacoli le mattinate in cui si marinava la scuola: il Palazzo di Giustizia di Milano era a poche centinaia di metri e veniva comodo). Belle inquadrature, nessun fronzolo, eccellente la scelta degli interpreti, poco noti ma tutti bravissimi, una gran bella sorpresa. Vivamente consigliato, per chi riesce a intercettarlo, prima o poi.

domenica 25 ottobre 2020

I predatori

"I predatori" di Pietro Castellitto. Con Massimo Popolizio, Manuela Mandracchia, Pietro Castellitto, Giorgio Montanini, Dario Cassini, Anita Caprioli, Antonio Gerardi, Marzia Ubaldi, Nando Paone, Vinicio Marchioni e altri. Italia 2020 ★★★★

Ammetto di essere prevenuto nei confronti dei "figli d'arte", tantopiù pensando all'ambientino romanesco che ruota attorno al cinema, per cui sono rimasto ancor più piacevolmente sorpreso dallo scoppiettante esordio alla regìa del primogenito di Sergio Castellitto e Margaret Mazzantini (certo siamo distanti dal mondo dei muccinos...), con un film surreale e beffardo che a buon titolo si rifà alla migliore e celebrata commedia all'italiana, penso a Monicelli o Salce, per fare due nomi d'eccellenza, aggiornandola senza tradirla, giocando, il giusto e senza diventare ripetitivo, sul tono grottesco e senza scadere nel dozzinale e nel pecoreccio. Il film ha un andamento circolare iniziando dalla fine, ma ce ne si rende conto, toh, proprio quando la pellicola sta per terminare e si capisce perché lo straniante piano-sequenza che apre la pellicola mostri un'ambientazione nordica e non mediterranea. Ci si trova infatti nella cittadina tedesca in cui sono tumulate le spoglie di Friedrich Nietzsche, dove finirà lo stralunato protagonista, Federico Pavone, interpretato dallo stesso Pietro Castellitto, assistente di uno stravagante barone universitario napoletano con cattedra alla Sapienza di Roma che intende riesumare il corpo del filosofo tedesco per avvalorare una sua qualche strampalata teoria. Non sto qui a raccontare la trama che, apparentemente complessa, ha invece una sua linearità e coerenza benché il racconto si dipani su più fili, che tuttavia, per la bravura e padronanza del mezzo dell'autore e regista (nei crediti, per burla, appare come sceneggiatrice Ludovica Pensa, ossia colei che nella finzione è la madre di Federico, regista cinematografica ai ferri corti con la produzione di un film, interpretata da Manuela Mandracchia) che, in sostanza, presenta una galleria di "Nuovi Mostri" aggiornata alla seconda decade del secondo Millennio, mettendo a confronto e facendo entrare in contatto, per una pura casualità e senza insisterci sopra, i mondi di due coppie di famiglie romane: due appartenenti alla borghesia professionale dei Parioli o di Prati, pseudo progressista e terrazzata, che costituisce la base elettorale del PD e due al sottoproletariato fascistoide che vive sul litorale Ostiense: nostalgici più per tradizione famigliare che per convinzione benché si tratti del gestori di un'armeria e di un poligono di tiro abusivo, in realtà i due fratelli e le relative mogli e figli sono di fatto schiavi di uno zio delinquente e paranoico (Antonio Gerardi: inquietante) e dei bonaccioni, insomma dei "duri" da operetta. Esilaranti sono i ritrovi e i rituali delle due apparentemente opposte realtà: i due medici amici (Popolizio, il padre di Federico e il logorroico collega con la moglie bella e infedele), professionisti strapagati che in quanto a cialtroneria non sono da meno del loro corrispettivo borgataro, tutto un universo a due facce della stessa medaglia che trasuda menefreghismo, stupidità, vanagloria, ignoranza, a cui si può solo sfuggire con la follia e la stravaganza. Che è un po' quello che ha l'occasione di fare Federico e che suggerisce, in fondo, il suo alter ego nella realtà della finzione, ossia Pietro Castellitto. A me il film è piaciuto molto: mi ha divertito e rilassato, il ritmo è quello giusto, senza scarti e strappi nonostante i continui cambi di scena e di contesto, la mano dietro la cinepresa lodevolmente sicura, il cast azzeccato e affiatato. Spero che il giovane regista romano continui a sorprenderci: le qualità le ha tutte. 

giovedì 22 ottobre 2020

Un divano a Tunisi

 

"Un divano a Tunisi" (Un divan a Tunis) di Manele Labidi Labbé. Con Golshifteh Farahani, Majd Mastoura Mastoura, Aisha Ben Miled, Feryel Chammari, Hichem Yacoubi, Ramla Ayaru Anjegui e altri. Francia 2019 ★★½

Temevo una commediola alla francese, tutta smorfie e logorrea a gogò, e invece sono stato piacevolmente risparmiato: di transalpino il film ha poco, a parte la cittadinanza della regista e sceneggiatrice e di Selma, una psicanalista sulle trentina (Golshifteh Farahani, che invece è iraniana), entrambe di origine tunisina ed entrambe alla ricerca delle proprie radici: Labidi Labbé lo fa precipitando la protagonista nella realtà quotidiana di quella capitale maghrebina, non tanto diversa da quella della dirimpettaia Sicilia, nei panorami e nell'edilizia ma anche nel modo di vivere e di pensare. Una scelta, quella di Selma, di lasciare Parigi per aprire uno studio sulla terrazza della casa di famiglia (i genitori, che si presumono oppositori politici, sono rimasti in Francia), che nessuno comprende: innanzitutto perché tutti vorrebbero lasciare la Tunisia, e poi perché, avendo un unico dio a cui riferirsi, non si capisce perché dovrebbero parlare delle loro faccende a un'estranea e invece, tra curiosità per la novità e il bisogno di comunicare, si trova presto la fila di clienti fuori dalla porta. I tipi più strani: dalla proprietaria di un salone di bellezza, scettica all'inizio ma che rivela problemi irrisolti con la madre, a un fornaio che sogna ossessivamente di baciare esclusivamente dittatori arabi e va in crisi quando gli appare Putin: finisce per accettare la sua passione per il travestitismo; un imam lasciato dalla moglie ed espulso dalla sua moschea dai fanatici salafiti perché non porta la barba e non è  abbastanza determinato e cade in depressione; ma anche il parentado di Selma non scherza: dallo zio che prima la osteggia a poi ammette il suo alcolismo, determinato anche dalla incertezze che la situazione politica proietta sul futuro del Paese: una argomento, questo, che corre sotto traccia e risulta poco comprensibile a un pubblico che non conosce la storia recente della Tunisia (più di un riferimento va alla situazione creatasi dopo la caduta del regine di Ben Alí in seguito alle proteste che nel 2010 dettero il là al fenomeno giornalisticamente battezzato Primavera Araba); la cuginetta ribelle che ha la geniale idea di sposare, con rito tradizionale, un ragazzo gay dotato di passaporto francese con il quale l'accordo è quello di trasferirsi in Europa e vivere la loro diversa sessualità senza intralciarsi, cosa che scandalizza e mette in discussione anche i principi della disinibita e anticonformista Selma, tradendo il suo moralismo, e che a sua volta trova si trova a peccare di superficialità e ingenuità nel non prevedere i prevedibili ostacoli di una burocrazia pasticciona cialtrona che è chiamata a far rispettare le regole e le leggi che pure esistono anche in un "buco" come la Tunisia, e non solo nell'"evoluta" Francia. La prima parte del film è scoppiettante, arguta, divertente, ma nell'ultima mezz'ora il ritmo si affloscia, il racconto si ingarbuglia e finisce per impantanarsi, a meno che non sia un effetto voluto a sottolineare la schizofrenia e il clima sospeso e confuso che aleggia sia sulla società tunisina nel suo complesso sia nei singoli cittadini. Comunque uno scorcio interessante su una realtà tanto vicina quanto poco conosciuta, discrete le interpretazioni (l'imam ricorda incredibilmente Peter Sellers), un film leggero ma non troppo: peccato che si perda nel finale.

lunedì 19 ottobre 2020

Lasciami andare

"Lasciami andare" di Stefano Mordini. Con Stefano Accorsi, Maya Sansa, Serena Rossi, Valeria Golino, Antonia Truppo, Musella, Elio De Capitani, Lino Musella, Ludovico Benedetti e altri. Italia 2020 ★★½

Ed ecco nuovamente in pista Stefano Mordini che, dopo Il testimone invisibile uscito due anni fa, ha l'occasione di confermsi un abile tessitore di noir piuttosto anomali, con un elemento fantastico e di mistero che non guasta al racconto. Qui anche l'ambientazione è quella giusta: una Venezia vera, per una volta non cartolinesca, che vede protagonista Marco, un ingegnere edile sui quarant'anni, un sempre più pacato e credibile Stefano Accorsi, in giro per cantieri di stabili da sanare ed eventualmente ristrutturare, la cui nuova compagna, Anita (Serena Rossi, cantante in un locale della città), è in attesa del primo figlio. Marco ne ha già avuto uno, Leo, scomparso all'età di cinque anni per un disgraziato incidente avvenuto nella bella casa sul Canal Grande che abitava con l'ex moglie Clara (Maya Sansa), e non si è mai liberato da quell'incubo che ha segnato la coppia e portato alla separazione. A un tratto compare sulla scena una ricca imprenditrice, Perla Gallo (Valeria Golino), che ha acquistato lo stabile dove abitava la famigliola, che lo contatta con insistenza raccontandogli che suo figlio, Giacomo, che dorme nella stessa camera che era di Leo, ne sente ancora la presenza e ne è impaurito. Prima Marco, razionale com'è, non vuole saperne di queste suggestioni ma in seguito, dopo un lungo colloquio con suo padre, uno studioso di filosofie e religioni orientali (Elio De Capitani: sempre un grande!) e pressato da Clara, si lascia convincere a tornare nella vecchia abitazione per verificare l'esistenza di una qualche presenza: la casa, peraltro, già si prestava ai misteri, per via di un raro fenomeno ottico per cui la luce filtrava nella stanza di Leo con un effetto da camera oscura proiettando sui muri le immagini del Canalazzo. Da qui la vicenda da un lato prende una piega parapsicologica, compreso l'incontro con un sensitivo che conferma la presenza di Leo sotto una qualche forma di energia e dei suoi desideri, dall'altro cala sempre più nel reale, sia perché racconta l'incidenza di tutta la vicenda sulla vita e sulle relazioni dei personaggi principali rilevandone i rispettivi caratteri e sensibilità, sia perché Marco riesce a smascherare anche il gioco, e dunque le vere intenzioni (quindi ancora una volta l'identità) della misteriosa acquirente dell'appartamento in cui un tempo viveva con quella che era la sua famiglia e, nel contempo, anche liberarsi da un senso di colpa che, dopo l'incidente del figlio, era diventato insopportabile da sostenere. Un fluttuare sospesi tra presente, passato e futuro che comunque ha una sua verosimiglianza, che si rispecchia nella autenticità dei personaggi, tutti interpretati da attori all'altezza della situazione. Una regia pulita, meticolosa, che in un racconto tutto sommato lineare riesce a immettere più di un elemento di mistero e di sorpresa al momento giusto, mantenendo viva l'attenzione dello spettatore che non fatica a entrare nei panni dei vari soggetti, e immergersi nell'atmosfera che aleggia, tra realtà e immaginazione. Un buon film. 

sabato 17 ottobre 2020

Il giorno sbagliato

 

"Il giorno sbagliato" (Unhinged) di Derrick Borte. Con Russell Crowe, Caren Pistorius, Gabriel Bateman, Jimmi Simpson, Michael Paapajohn e altri. USA 2020 ★-

Non un film memorabile, in confronto a due classici come Duel di Steven Spielberg e Un giorno di ordinaria follia di Joel Schumacher, dei quali è debitore, ma riuscito, almeno in parte, se lo scopo era quello di trasmettere una scarica di adrenalina dal grande schermo allo spettatore in sala inchiodandolo alla poltroncina per 90': calibrata la scelta del tempo e anche degli interpreti, da un lato un Russell Crowe sempre più corpulento, ex dirigente di una casa automobilistica rovinato dall'avvocato della moglie, da cui ha divorziato e che ha appena accoppato assieme al nuovo compagno, dall'altro una giovane madre, l'insulsa Caren Pistorius, a sua volta alle prese con una causa di separazione, un tantino immatura e stupida che, a un incrocio, mentre sta portando a scuola il figlio, perennemente in ritardo a causa della sua innata disorganizzazione nonché menefreghismo, ha l'ardire di suonare impaziente il clacson al bestione alla guida di un pick-up con tanto di parafanghi oversize che in America Latina chiamano mataburros, ossia ammazza-asini. Quel che è peggio, a gentile (tutto sommato: il Tom Cooper interpretato dall'attore australiano non è ancora uscito completamente dai gangheri) non si sogna nemmeno di scusarsi e lo manda pure a fare in culo. E qui Cooper si incazza e non le dà più tregua. Risparmio dettagli sui 75' successivi all'incrocio dei due destini, nell'ingorgo di traffico verso il centro di una qualsiasi orrenda metropoli di quel Paese di psicopatici che sono gli USA, anche per non togliervi la sorpresa, ma il crescendo rossiniano di violenza e di crudeltà è abbastanza impressionante e non vengono risparmiati dettagli truculenti: il fatto è col procedere del film, ci si ritrova quasi a simpatizzare per l'energumeno, il cui grado di alienazione e di disadattamento è soltanto a un livello superiore per intensità, ma di identica natura, di quello di Carol, la giovane donna vittima della sua vendetta privata contro il mondo. Un mondo che, lo dicono alcune voci tratte dai canali All News che infestano 24 ore al giorno la nostra esistenza (nonché la pellicola in visione) e ancor più quella degli statunitensi, a forza di un incessante bombardamento di stimoli contraddittori ha ormai saturato i cervelli di chi ne è oggetto tanto da mandarli in tilt, prima o poi, inevitabilmente. I rimedi sono noti: scomparsa la possibilità di incanalare malcontento e frustrazioni in movimenti collettivi di protesta, e quindi la speranza di un cambiamento a livello sociale, figurarsi attraverso il voto, e abbandonati a sé stessi, l'alternativa consiste in palliativi come psicofarmaci, ricorso alla psicanalisi in massa, droghe, oppure scoppi individuali di rabbia incontrollata e irrazionale, andare fuori di cotenna e farsi giustizia da soli, il che del resto è nel DNA degli yankees e di chi apprezza così tanto l'american way of life da fare di tutto per andare a vivere negli USA. Dove però il film cade miseramente (un'avvisaglia si ha quando, inseguita dall'imbufalito Tom che ha appena trucidato la ragazza del fratello e sottoposto a tortura quest'ultimo, Carol, per tranquillizzare il figlio, proprio lei, dopo tutte le cazzate che ha fatto, pronuncerà la frase di rito che ricorre almeno una decina di volte in ogni film americano, assieme al rituale "ti amo": va tutto bene. E ci scappa da ridere) è nel finale quando, dopo averne stesi almeno una mezza dozzina, Tom trova la morte a opera proprio della cretina, irrompe la Polizia e la fancullla, bel bella, monta in macchina, come se non fosse successo nulla (infatti sembra nuova anche la station vagon con cui viaggiava, senza un'ammaccatura pur avendo sbattuto ovunque) e se ne torna a casa beata e sorridente assieme al figlio che, a dieci anni, ha pure dieci volte più cervello e buon senso di lei. Ecco: se decidete per la scarica di adrenalina, uscite al minuto 85'. Insomma, un'americanata, parzialmente ben fatta, a cui non basta un Russell Crowe in piena forma (letteralmente) per meritare la sufficienza.

giovedì 15 ottobre 2020

Paradise - Una nuova vita

 

"Paradise - Una nuova vita" di Davide Del Degan. Con Vincenzo Nemolato, Giovanni Calcagno, Katarina Čas, Selene Caramazza, Branko Zavrsan, Andrea Pennacchi e altri. Italia-Slovenia 2020 ★★½

Paradise è il nome del residence, situato a Sauris, isola linguistica tedesca in Carnia (Friuli, per la precisione), dove viene catapultato il giovane, stralunato siciliano Alfio alias Calogero nel quadro di un programma di protezione testimoni in quanto ha assistito, senza rifugiarsi nell'omertà, a un omicidio di mafia. Venditore di granite giunto sulla montagne innevate col suo carretto, è dura adattarsi al clima e alle abitudini di un luogo così distante in tutto dalla sua Sicilia: qui i maschi locali socializzano dedicandosi allo Schuhplattler, danza tipica tirolese dove ci si dà potenti manate sulle cosce calzate da braghe di pelle e sberloni per finta, ma soprattutto Calogero/Alfio (un nasuto, esile, a tratti clownesco Vincenzo Nemolato) vive nel terrore quando dall'Isola è giunto un altro personaggio, Calogero anche lui (l'imponente, testosteronico Giovanni Calcagno), che riconosce essere il sicario che aveva descritto alla polizia. Prima si rintana nella propria camera, poi cerca di rendersi irriconoscibile tingendosi di biondo, infine cercherà di avvelenarlo con la cicuta dopo avergli cucinato una cena a base esclusivamente di mele (Calogero è diventato vegetariano, dice, dopo aver lavorato per anni in un mattatoio) ma è tutto inutile. Non perché verrà ucciso, ma perché Calogero è davvero cambiato, e se si trova lì è perché pure lui è sotto protezione, ma in quanto pentito, e la polizia, per non smentirsi, ha combinato un pasticcio. La nuova vita del titolo in realtà riguarda lui più che il suo corregionale e vicino di stanza, perché sarà l'occasione per essere fino in fondo sé stesso, ad esempio ammettendo la propria omosessualità; ed è lui il vero bersaglio dei due sicari che vengono mandati dall'Isola a cercarlo nell'estremo NordEst dell'Italia. Pure dalla Sicilia giungono in visita ad Alfio la giovane moglie Lucia con la piccola Marcella, la figlia che non ha fatto in tempo a veder nascere e per la quale vuole un futuro migliore rispetto a quello di un mondo dove vige l'omertà, impersonata dalla consorte che si porta dietro il parentado di lei per convincerlo a ritrattare e tornare così a casa "dove tutto è stato sistemato". Il problema verrà risolto altrimenti, ma non è detto che anche per Alfio non inizi una nuova vita... Il film, che non ha certo avuto bisogno di grandi mezzi né di un battage pubblicitario a livello di altri che ne valgono un decimo, riesce a dire cose serie e anche drammatiche in modo leggero e mai banale tra l'ironico e il surreale, in forma favolistica, fornendo diversi spunti di riflessione nell'arco di soli 83', a dimostrazione che in Italia esistono eccome registi originali e fantasiosi in grado di fare buoni, anzi ottimi film senza tirarsela, dei quali un operatore, montatore, documentarista, quindi uomo di cinema e TV a tutto campo come Davide Del Degan è un esempio da manuale. Perfetta anche la scelta degli interpreti, con la felice e classica contrapposizione anche fisica fra i due personaggi principali, i Sussi e Biribissi della situazione (per rimanere in ambito triveneto), la solare Katarina Čas nel ruolo di madre single e gestore del Paradise e la dolce Selene Caramazza in quello della dolce e remissiva (con la sua famiglia) Lucia; in più, il sempre bravo e versatile Andrea Pennacchi in quelli del commissario di polizia responsabile dei due disgraziati sotto protezione di chi non è in grado nemmeno di proteggere sé stesso. 

martedì 13 ottobre 2020

Senza Speranza - L'invasione degli ultraidioti

Non bastava l’obbligo generalizzato, reintrodotto giovedì scorso, di indossare il bavaglio all’esterno anche in regioni, come quella in cui vivo io, il Friuli-Venezia Giulia, dove non solo il tasso di contagio è nettamente più basso che nella media del Paese ma il cosiddetto “distanziamento sociale” è una pratica acquisita geneticamente prima ancora che culturalmente: naturalmente no. Perché quel che non si può mascherare sono l’imbecillità e il velleitarismo di certi provvedimenti, come quello caldeggiato dal ministro della Salute Roberto Speranza, colui che in una nota trasmissione televisiva domenica scorsa annunciava il divieto di riunione di più di sei non congiunti nelle abitazioni private (come se per il vàirus avesse rilevanza il grado legale di parentela) invitando la pupulasiùn alla delasiùn in caso di sua trasgressione, ignorandone l’incostituzionalità: tant’è vero che nel DPCM odierno, anche su suggerimento della Mummia insediata al Colle Più Alto, il Capo del Governo Giuseppe Conte ha preferito fare retromarcia limitandosi a una raccomandazione. Ecco: vista l’impossibilità di bloccare l’ininterrotto profluvio di parole inutili che vengono vomitate da legioni di "esperti" e di "scienziati" che bivaccano ininterrottamente tra studi televisivi e webcam invece di stare nei laboratori a fare qualcosa di utile; il berciare di politici e pennivendoli ignoranti, imbecilli, corrotti e incompetenti; la marea montante di merda che, a loro imitazione, si scaricano addosso quotidianamente gli abitatori dell’universo socialmediatico, che almeno chi ha la responsabilità di governare questa Repubblica da operetta eviti di emanare divieti che già sa di non poter far rispettare, sia perché illegali, sia perché non ne sarebbe in grado, come dimostrano le settimanali adunate a cielo aperto degli “smascherati”, come quella di Roma di sabato scorso, che si tengono liberamente benché si gridi alla “dittatura militar-sanitaria” dove, su alcune migliaia, è stato fermato un solo manifestante perché dava in escandescenze e non risultano state elevate multe a chi era privo del “dispositivo di protezione personale”, e che sono organizzate dagli stessi che fino a qualche mese fa invocavano i “pieni poteri” oppure sono i diretti discendenti di quell’altro che ha sequestrato il Paese per vent’anni portandolo prima alla guerra, poi alla rovina e infine al vassallaggio verso gli USA. Tra questi e gli emuli di Stalin, Honecker o Hoover (cambia poco: la logica sbirresca del potere è sempre la stessa) non ho preferenze: che il vàirus, se deve servire a qualcosa, se li portasse via tutti quanti… Speranza vana, purtroppo.

lunedì 12 ottobre 2020

Lacci

 

"Lacci" di Daniele Luchetti. Con Luigi Lo Cascio, Alba Rohrwacher, Silvio Orlando, Laura Morante, Adriano Giannini, Giovanna Mezzogiorno, Linda Caridi e altri. Italia 2020 ★★★★+

Concludo la carrellata dei film italiani presentati all'ultima Mostra del Cinema di Venezia con quello che ha aperto la manifestazione ma non era in concorso. Sarebbe banale e riduttivo affermare che sia il migliore assieme a Le sorelle Macaluso (per molti troppo teatrale) e Notturno (che è un documentario): semplicemente Daniele Luchetti, Emma Dante e Gianfranco Rosi sono  registi di un'altra categoria rispetto ai loro più giovani e velleitari colleghi Giorgia Farina, Claudio Noce e Susanna Nicchiarelli, in ordine di stroncatura, che farebbero bene a imparare dai loro ben più strutturati colleghi. La differenza, a prescindere da motivazioni tecniche, dall'esperienza e dalla bravura, perfino dai gusti personali, balza immediatamente all'occhio: i primi tre hanno le idee chiare su cosa vogliono dire e fare, i secondi per niente, ragion per cui i loro film risultano confusi, contraddittori, affastellati, irrisolti, noiosi. In una parola: inutili. Qui Luchetti è alle prese con la storia di una coppia vista in due fasi diverse della propria esistenza: che va in crisi, all'inizio degli anni Ottanta, con due figli da crescere e all'inizio della rispettiva vita professionale, e al giorno d'oggi, tornata assieme dopo una lunga e lacerante separazione. A tenerla assieme nonostante tutto, con tanto di rancori, sensi di colpa, rimpianti, sono per l'appunto i lacci del titolo, ossia i legami anche invisibili, odio compreso, che tengono insieme i rapporti anche più deteriorati, e che tengono avvolti per primi i figli, che ne subiscono le conseguenze, spesso traumatiche. Una storia semplice, i cui meccanismi vengono raccontati sapientemente più con i gesti e le espressioni che con le parole: del resto meno si dice, in un rapporto, e meglio è, afferma Aldo, il protagonista maschile, che da anziano critico e giornalista, rientrato in famiglia, è interpretato da Silvio Orlando, mentre da giovane, redattore culturale radiofonico, è impersonato da Luigi Lo Cascio che, durante le trasferte a Roma, da Napoli dove vive con moglie e i due figli, si innamorerà della solare collega Lidia (Linda Caridi), e farà l'errore di confessarlo alla moglie Vanda (Alba Rohrwacher da giovane e Laura Morante attualmente), subendone i ricatti affettivi e le ritorsioni. Anche per sua colpa: che se è sincero con la moglie come con l'amante, non lo è altrettanto con sé stesso, e rimane vittima della sua irresolutezza. Ben più decisa nell'accampare le sue ragioni Vanda, anche se nemmeno a lei, a parte i figli, è chiaro del perché e del per cosa, essendo palesemente non innamorata del marito ma vittima, appunto, dei "lacci", delle questioni di principio e delle promesse fatte, anche se impossibili da mantenere, e che non esiterà di ricorrere all'arma del tentato suicidio. Che funzionerà, rovinando la vita a entrambi e soprattutto ai figli, Anna e Sandro (Giovanna Mezzogiorno e Adriano Giannini), che alla situazione che li ha segnati per sempre hanno reagito in modo opposto ed entreranno in scena nell'ultima parte del film, che non svelo per quanto è liberatoria e rende loro giustizia: Luchetti ha pure trovato il modo di inserire un elemento "giallo" che verrà svelato proprio all'ultimo. In 100', senza ammorbare nessuno, in maniera esemplare e grazie a un uso esemplare della dimensione temporale (vero, Farina?) anche in modalità porte scorrevoli, per così dire; un'ambientazione davvero attenta e precisa (vero, Noce?) e chiarezza di propositi, scevra da ideologismi, che non giudica ma lascia che sia lo spettatore a farlo, se vuole (vero, Nicchiarelli?). Lo scopo era quello di far riflettere raccontando una storia esemplare e verosimile su quali sono alcuni dei tarli più comuni che minano le relazioni di coppia e di una "istituzione", come la famiglia, che ha cambiato faccia sotto i nostri occhi nell'ultimo mezzo secolo: Luchetti, basandosi sull'omonimo romanzo di Domenico Starnone, che ha pure curato la sceneggiatura assieme a Francesco Piccolo (e si vede) ci riesce benissimo, il tutto in poco più di un'ora e mezzo, senza abusare della pazienza dello spettatore e senza annoiarlo. Complimenti a lui e a tutti gli interpreti. 

sabato 10 ottobre 2020

Miss Marx

"Miss Marx" di Susanna Nicchiarelli. Con Romola Garai, Patrick Kennedy (II), John Gordon Sinclair, Felicity Montagu, Olive Shreiner, Emma Cunnife, Oliver Chris e altri. Italia 2020 💩

Completa il trittico dei film di merda di produzione nazionale presentati quest'anno a Venezia questa specie di sermoncino con supporto audiovisivo che ai tempi del GranPartito di gramscitogliattilongoeberlinguer avrebbe potuto essere destinato e indottrinare la gioventù comunista nei cineforum alle Case del Popolo, mentre ora si limita a estasiare le critica militonta e, forse, i nostalgici rincitrulliti. Del tris, quello che mi ha irritato più di tutti: mentre gli altri due, di Giorgia Farina e di Claudio Noce, erano semplicemente incomprensibili oltre che terribilmente pallosi, di questo ritratto biografico della minore delle figlie di Karl Marx, Eleanor chiamata famigliarmente Tussy (nomignolo che nel gergo tedesco di oggi equivale a oca, nel senso di cretina, matuttoquesto la Nicchiarelli non lo sa, equandopassaridetuttalacittà: altrimenti si sarebbe, forse, risparmiata dal sottolineare ripetutamente questo dettaglio) lo scopo si capisce benissimo: pura agiografia e propaganda ideologica e femminista, peccato che, come quasi sempre capita agli agit-prop di scuola marxista-leninista, risulti del tutto controproducente. Innanzitutto perché la lezioncina viene pappagallescamente calata dall'alto, come del resto fa Eleanor, che parla per slogan in contesti, quelli dei "campi e delle officine", che le sono del tutto estranei, per censo e cultura, essendo borghese fino al midollo come lo era del resto il padre: l'unico che poteva parlare con cognizione di causa il mondo del lavoro di tutta la ghenga era Friedrich Engels, che del resto era ricco un industriale tessile il quale grazie al plusvalore prodotto dai suoi operai ha finanziato fino alla morte, e pure successivamente, oltre al proprio elevato tenore di vita, tutta la tribù Marx, Eleanor e il suo lacché Aveling compresi. E' del resto una capacità insita a quelli sedicenti desinistra, soprattutto de noantri, risultare odiosi per la loro pedanteria e saccenza senza rendersene conto; non sono loro a essere dottrinari e insopportabilmente spocchiosi, ma gli altri, intellettualmente inferiori, a non capirli. Ma qui la regista compie un capolavoro di autolesionismo non solo presentando i due eminenti ideologi come due gioviali e all'occorrenza avvinazzati maschilisti, ma Eleanor e le altre figlie di Marx (oltre a quello illegittimo, frutto di un amore ancillare del mandrillo barbuto) come delle deficienti nonché complici del proprio avvilimento, confermando ancora una volta che nella grande famiglia marxista ciò che vale per il pubblico è esattamente il contrario di quel che viene praticato nel privato, per cui l'esito di questa sorta di inno all'attualità della figura di questa povera donna, di cui vengono mostrate tutte le contraddizioni nella quotidianità e in campo sentimentale e poco o niente della sua formazione e attività intellettuale in prima persona, come se non fosse capace un pensiero autonomo oltre all'indottrinamento ricevuto in famiglia, si risolve in una clamorosa autorete, una mazzata sui propri testicoli, oltre a quelli dell'incauto spettatore. Ma forse vi diranno che l'attualità consiste nella presa di coscienza di quanto vi sia ancora da fare: la strada è lunga, compagni e compagne, fino al sorgere del Sol dell'Avvenir. Intanto siamo fatti per soffrire, a meno di non fare come la povera Eleanor che, per non poterne più, a soli 43 anni si è tolta la vita col veleno. Quando poi nella scena finale ho visto il suo ectoplasma, nei panni della disgraziata chiamata a interpretarla, la generosa Romola Garai, che regge da sola l'incombenza di questa solenne cagata, scatenarsi in una grottesca danza al suono di Dancing in the Dark di Bruce Springsteen, un altro che mi sta sui coglioni, giustamente deturpata in versione punk (l'unica cosa buona del film), mi sono vergognato per lei. 

venerdì 9 ottobre 2020

Padrenostro

 "Padrenostro" di Claudio Noce. Con Mattia Garaci, Pierfrancesco Favino, Barbara Ronchi, Francesco Gheghi, Anna Maria De Luca, Mario Pupella, Antonio Gerardi e altri. Italia 2020 ★-

Di regola tendo a essere comprensivo con la produzione nazionale, che pure una certa reputazione in giro per il mondo la conserva tuttora, e fin troppo di manica larga coi giudizi, però raramente ho visto una sequela di film scadenti come quelli presentati, in concorso o meno, alla recente Mostra del Cinema di Venezia. Oggi tocca al tanto decantato Padrenostro, che è valso a un imbolsito (per l'occasione?) Pierfrancesco Favino la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile (qualche contentino al Paese ospitante la giuria doveva pure concederlo). La vicenda si ispira a un fatto vero, ossia all'attentato a cui il 14 dicembre del 1976 scampò l'allora vicequestore Afonso Noce, responsabile dell'antiterrorismo per il Lazio, padre del regista (che allora non aveva ancora due anni), rimanendo ferito, mentre morirono un poliziotto della scorta e uno dei membri del commando dei NAP, Nuclei Armati Proletari, che fecero l'agguato, prendendo spunto dai ricordi del fratello maggiore di Claudio Noce, che vi assistette parzialmente dal terrazzo di casa. Questo ragazzino di 10 anni è il Valerio che vediamo sullo schermo, l'unico vero protagonista del film, interpretato da Mattia Geraci, lui sì meritevole di un premio che per tutta la durata (esorbitante) di questa pellicola, il quale annaspa tra sogno e realtà alla ricerca della verità, che nessuno gli dice, sulle condizioni del padre (Favino/Noce) che non vede tornare a casa, e quando anche lo farà, lo spettatore non è in grado di capire se si tratti della fervida fantasia del ragazzino (che si inventa amici fantasma) o se sia rimasto vivo per davvero. Magari il fulcro del film vuole essere una riflessione sul rapporto irrisolto, o forse inesistente, con un padre evanescente (forse per via del lavoro che fa: il film è talmente ingarbugliato che non si capisce nemmeno se Noce fosse un magistrato oppure un poliziotto), oppure una sorta di trattatello sugli attacchi d'ansia (inizia e si chiude su un tipo che si presume sia Valerio, al giorno d'oggi, tra i quaranta e i cinquanta, che ne rimane vittima nella metropolitana di Roma in occasione di un black out e che ne viene fuori quando incontra un personaggio che forse è l'amico immaginario - o reale? - che aveva in pubertà e, pare di capire, sia il figlio del terrorista rimasto ucciso nella sparatoria). La vicenda, lisergica più che onirica, si svolge nell'appartamento borghese della famiglia, nella scuola di suore che frequenta il ragazzino, in Calabria durante un viaggio con padre, madre e sorellina (dove lo raggiunge l'amico non-si-sa-se immaginario). Tutto è confuso, sconclusionato, buttato lì nel calderone, e per di più posticcio: dalle macchine d'epoca (non esistevano tagliandi dell'assicurazione grandi come lenzuola con scritto RC/Auto), al volto di Favino, che sembra uscito da una plastica facciale riuscita molto male, ai capelli della povera Barbara Ronchi che, dopo Fai bei sogni, pare ormai condannata al ruolo di madre stereotipata degli anni Settanta (a meno che Noce non abbia utilizzato i provini o gli scarti di quel film); improbabili la Calabria e l'atmosfera famigliare che vengono propinati nel film, perfino i riferimenti al calcio sono raffazzonati: non è plasuibile che nel 1976/77 Giorgio Chinaglia abbia potuto firmare un pallone da regalare a Valerio dopo aver giocato una partita all'Olimpico proprio mentre si era trasferito, con gran clamore, negli USA ingaggiato dai Cosmos. Se poi Padrenostro voleva essere un film che raccontasse qualcosa sugli Anni di piombo, il fallimento è totale, e l'espediente ridicolo di rendere i colori sgranati come le foto d'epoca non ne ricostruisce certo l'atmosfera. Il risultato è, francamente, penoso e il film di una lentezza esasperante, oltre che inutilmente lungo. Più che cinema, una solenne pippa mentale.

mercoledì 7 ottobre 2020

Il processo ai Chicago 7

"Il processo ai Chicago 7" (The Trial of the Chicago 7) di Aaron Sorkin. Con Sacha Baron Cohen, Joseph Gordon-Levitt, Frank Langella, Eddie Redmayne, Mark Rylance, Jeremy Strong, Yahya Abdul Mateen II, John Carroll Lynch, Seth Rogen, Alex Sharp, Jonathan Majors. Michael Keaton e altri. USA 2020 ★★★-

Prodotto da Netflix e uscito contemporaneamente sulla piattaforma in streaming e sul grande schermo, un po' mi pento di aver scelto la seconda soluzione perché francamente mi aspettavo di meglio. E non tanto per come scorre via il film, velocemente benché duri 130' e sia in tutto e per tutto il classico film di ambito giudiziario visto centinaia di volte, tra dialoghi serrati e battute in parecchi casi fulminanti, ma per alcuni buchi di sceneggiatura e fin troppo buonismo obamiano serpeggiante, che porta comunque a un finale edificante con l'esaltazione di un sistema giudiziario, quello USA, a dir poco sgangherato e puerile, e per estensione di tutte le altre istituzioni di quel Paese, che alla fine si rivelano sempre vincenti e superiori a ogni altro esistente al mondo anche quando vengono gestite da "personaggi orrendi", come viene da dire a Jerry Rubin, ai tempi uno dei principali protagonisti di quella controcultura che si opponeva non soltanto alla guerra del Vietnam in corso, ma a tutto il sistema, uno dei 7 protagonisti dei processo di cui al titolo. Il quale, istruito subito dopo l'entrata in carica dell'amministrazione Nixon nel 1969 chiaramente come resa dei conti con gli oppositori e avvertimento a futura memoria, riguardava gli incidenti avvenuti durante la Convention democratica dell'agosto dell'anno prima a Chicago (successiva all'assassinio, in giugno, di Bob Kennedy, l'unica candidatura che avrebbe avuto un senso e l'appoggio di tutto lo schieramento progressista), quella che finì per nominare Humphrey (un Biden dei tempi), le cui alternative non erano molto meglio, e che ovviamente non aveva alcuna chance contro Nixon. "Con candidati come questi non vinceremo mai" (pare di risentire le parole di Nanni Moretti qualche anno fa...): con questo slogan diversi movimenti decisero di radunarsi a Chicago per protestare contro i vertici democratici, ma fin dall'inizio furono osteggiati dal sindaco Daley, che negò ogni permesso di manifestare, costringendoli fin dall'inizio all'illegalità; infiltrati dal FBI; la polizia venne schierata in massa mentre il governo federale mandò pure la Guardia Nazionale. Come a Genova nel 2001, il disegno era chiaro per chi volesse vedere e la trappola tesa: e tutti, per stupidità o buona fede (quella, appunto, nella neutralità e sostanziale bontà delle istituzioni) caddero nella trappola. Il processo riguardava 7 degli esponenti della contestazione, dai più moderati e legalisti (tra loro un futuro attivista e politico di lungo corso come Tom Hayden), a quelli più radicali come Abbie Hoffman, più politicizzato di Rubin, una sorta di indiano metropolitano dell'epoca (lo interpreta ottimamente Sasha Baron Cohen), compreso Bobby Seale, unico nero, leader nazionale delle Black Panthers, che non c'entrava nulla perché durante i disordini era stato presente a Chicago per sole quattro ore e da tutt'altra parte, a cui fu negata l'assistenza dell'avvocato. Pur ricco di flash back che illuminano sui fatti e di retroscena dei preparativi del processo, il film si concentra su quanto accadde in aula, dove perfino gli abili avvocati difensori fino all'ultimo non pronunciarono mai, pur conoscendola, la verità più eclatante: che si trattasse di un processo politico, per di più manovrato e manipolato dall'alto, e qui convince poco la sottolineatura dei supposti scrupoli orali dell'avvocato dell'accusa, Richard Schultz, che si prestò al gioco dei suoi superiori (a cominciare dal Procuratore Generale). Tra gli interpreti, tutti molto bravi, giganteggia però Michael Keaton (a cui bastano due scene per rimanere impresso), che interpreta Ramsey Clarke, il Procuratore Generale dell'amministrazione precedente (Johnson) che, testimoniando, consenti alla difesa di imprimere una svolta al processo, e Frank Langella nella parte dello stolido e forse squilibrato giudice Julius Hoffman. Insomma un buon film, che ha il merito di tornare su fatti ormai dimenticati eppure sempre attuali, ma non del tutto convincente. 

lunedì 5 ottobre 2020

Roubaix, una luce nell'ombra

"Roubaix, una luce nell'ombra" (Roubaix, une lumière) di Arnaud Desplechin. Con Roschdy Zem, Léa Seydoux, Sara Forestier, Antoine Reinartz, Chloé Simoneau, Betty Cartoux, Jérémy Brunet, Stéphane Duquenoy, Philippe Duquesne e altri. Francia 2019 ★★★★

A dispetto del titolo, ce n'è ben poca, di luce, in questo polar francese dalle tinte livide, fredde, che dominano questa città di antica industrializzazione nel Nord-Est della Francia, ai confini col Belgio, già nota come la Manchester francese, oggi in piena decadenza e conosciuta soltanto per la sua "classica" ciclistica, che ha dato i natali al regista. Che ne ritrae l'essenza e degrado, economico e sociale, ispirandosi a Roubaix, commissariat central, un documentario del 2008 che raccontava un fatto di cronaca avvenuto nel 2002. E' la notte di Natale quando il commissario Daoud, algerino d'origine, prende servizio segnalando un'automobile che ha preso fuoco: è questa la prima gatta da pelare durante il suo turno, affiancato dalla nuova recluta, Louis, fresco di diploma all'accademia di polizia, insieme a una serie di altri reati di ordinaria amministrazione, come una rissa durante la cena natalizia, un tentativo di truffa a un'assicurazione (le denuncia del tipo che con ogni probabilità ha incendiato la macchina che Daoud aveva visto bruciare mentre arrivava in centrale), lo stupro di una ragazza in un sottopassaggio; ma è sulla morte di un'anziana signora trovata strangolata nel suo letto che si concentra l'attenzione dei due poliziotti e dell'intera squadra investigativa, e i sospetti cadono immediatamente su una coppia di ragazze sui trent'anni, Marie e Claude, quest'ultima con un figlio piccolo, alcolizzate e abbrutite, che vivono di mezzucci in un quartiere mieserabile. Vengono dapprima interrogate a domicilio, anche perché sono state loro a chiamare la polizia, nel tentativo di confondere le acque, poi fermate e portate in questura, nuovamente messe sotto torchio prima separatamente e poi costrette a un drammatico confronto in due tappe: durante un sopralluogo sul luogo del delitto, dove vengono costrette a ricostruire i movimenti fatti durante la loro presenza nell'abitazione della vittima (prima negata), e poi ancora al commissariato. Ovviamente con tutti i rituali del caso, con l'alternanza tra il poliziotto buono e quello cattivo, tra lusinghe e minacce verbali, ma centrale è la figura del commissario Daoud, carismatica e apprezzata da tutti i suoi sottoposti, funzionario di grande intuito proprio perché conosce come le sue tasche la città e l'umanità che la abita, compreso lui che non ha voluto abbandonarla nemmeno quando tutta la sua famiglia ha deciso di tornare in Algeria. Si impara a conoscerlo attraverso le sue domande, il modo di fare e di porsi, senza mai giudicare ma cercando di capire le situazioni, le persone e la loro vita, capace di mettersi nei panni dei disgraziati con cui ha a che fare e facendo di tutto  per aiutarli, per quanto possibile. Impariamo a conoscere Daoud, le sue malinconie, la sua passione per i cavalli; Louis e la sua ammirazione per il capo; gli altri poliziotti attraverso gli schizzi dei loro caratteri; le due ragazze che hanno sbagliato ogni scelta nella loro esistenza; una città senza futuro. Un gran bel film, con interpreti di prim'ordine, sopratutto Roschdy Zem (Daoud), Léa Seydoux (Claude), Sara Forestier (Marie); una fotografia cupa e splendida, un ritmo incalzante. Da vedere. Il noir-poliziesco francese al suo meglio, in versione sociologica ma senza mettersi in cattedra a dare lezioni.

sabato 3 ottobre 2020

Waiting for the Barbarians

"Waiting for the Barbarians" di Ciro Guerra. Con Mark Rylance, Johnny Depp, Gana Bayarsaikhan, Robert Pattinson, Greta Scacchi, Harry Melling, David Dencik, Sam Reid e altri. USA 2019 ★★½

... e poi si stupiscono di essere regolarmente smentiti: parlo della critica miltonta e sinistrata, che siccome un film come questo non rientra nei suoi canoni, fatti di onanismo mentale e di luoghi comuni estetici quanto di contenuto, che dev'essere obbligatoriamente politicamente corretto, benpensante e farcito di psicologismi da apericena, lo stroncano in favore di un penoso filmetto di produzione nazionale come Guida romantica a posti perduti, "spinto" solo perché presentato a Venezia il mese scorso, nelle "giornate degli autori", e nemmeno in concorso. Solita storia. A smentire questa manica di imbonitori e fuffologhi in malafede bastano i dati: il filmetto della Farina, nello stesso lasso di tempo, ha incassato un quarto di Waiting for the Barbarians (a proposito: per una volta il titolo è stato lasciato in lingua originale. Evento!), 42 mila € contro 175, pur essendo stato proiettato quasi nel doppio delle sale. E giù a dare del "gigione" a Johnny Depp, autore dell'interpretazione esemplarmente asciutta di un colonnello di polizia venuto a fare un sopralluogo in un avamposto di frontiera che ricorda, com'è ovvio, il Deserto dei Tartari di buzzatiana memoria (l'omonimo film di Zurlini è del 1976); ma se Clive Owen si rende perfino ridicolo nei panni del classico alcolizzato in stile brit tutto va bene, Madama la Marchesa; soprattutto dimenticando quella magistrale di Mark Rylance, che questi coglioni probabilmente ignorano chi sia, nei panni del Magistrato che da anni provvede ad amministrare una realtà di frontiera, dentro e fuori dalla fortezza che costituisce l'avamposto e simbolo dell'Impero che è chiamato a rappresentare, riuscendovi con successo perché da un lato conosce bene le esigenze e il modo di pensare dei cittadini che è chiamato a governare, tra l'altro un bell'amalgama di gente meticciata e non facilmente etichettabile; dall'altro perché invece di pensare di "fare i conti" con le tribù nomadi che minaccerebbero la frontiera (i "tartari" della situazione), occupa il suo tanto tempo a disposizione per conoscerne la cultura, studiando reperti archeologici a loro stessi sconosciuti ed entrandovi in contatto esponendosi personalmente al rischio: un eroe, e l'unico, vero, protagonista del racconto. Assieme all'altrettanto brava (e bella) Gana Bayarsaikhan, nei panni di una ragazza, torturata dai poliziotti del colonnello Joll (Depp). Pellicola ambientata, in modo estremamente realistico, tra Ottocento e Novecento, in un qualche avamposto desertico situabile tra Medio Oriente e Asia Centro-Meridionale. La situazione ricorda da vicino il crollo dell'Impero Austroungarico, più di quello Ottomano, dovuto soltanto alla follia suicida dei suoi apparati militari e non certo all'apparato statale che garantiva ai suoi variegati cittadini di diverse nazionalità una coesistenza se non altro basata sulla certezza del diritto e di una burocrazia efficiente. La vicenda raccontata è coinvolgente, con la sua parte mélo che non guasta, però mai esasperata nei toni; la sceneggiatura è all'altezza; la caratterizzazione dei personaggi precisa; la fotografia, soprattutto, di prim'ordine. Aggente non è sempre cretina quanto vorrebbero i pennivendoli e gli agit-prop di professione. Addestra come asinistra.

giovedì 1 ottobre 2020

50 e non per tutti

 


Cfr la lungimiranza dei pennivendoli nostrani che li davano in declino già allora: sono ancora in pista, vivi e vegeti. Poaréti
.

Di seguito, la scaletta degli spettacoli (ore 16 e 21.15)

Jumping Jack Flash
Roll Over Beethoven
Sympathy For The Devil
Stray Cat Blues
Love In Vain
Prodigal Son
Dead Flowers
Midnight Rambler
Live With Me
Let It Rock
Little Queenie
Brown Sugar
Honky Tonk Women
Street Fighting Man


Long Live Rock and Roll!