giovedì 28 aprile 2022

Sundown

"Sundown" di Michel Franco. Con Tim Roth, Charlotte Gainsbourg, Iazua Lários, Henry Goodman, Albertine Kotting, Samuel Bottomley, James Tarpey e altri. Messico, Francia, Svezia 2021 ★★★1/2

Dopo il Leone d'Argento ottenuto con l'ottimo Nuevo Orden al Festival di Venezia del 2020, ecco ricomparire Michel Franco con Sundown, presentato alla stessa manifestazione del settembre scorso, perturbante come il precedente, quando da una situazione di apparente equilibrio e serenità, dove però già si presagisce qualche anomalia latente, si passa a un'atmosfera sempre più inquietante fino al precipitare degli eventi, che costringe i protagonisti a prendere delle decisioni immediate e forzate che portano in direzioni impreviste. Le tranquille e pigre vacanze che una coppia di inglesi trascorre in un resort di lusso di Acapulco assieme a due ragazzi, tra un margarita, una birra e una mangiata di ostriche, vengono bruscamente interrotte da una telefonata Londra che annuncia la morte della madre di lei: ancora non sappiamo che i due adulti sono i fratelli Alice e Neil Bennet (Tim Roth in grande forma, protagonista a tutto tondo, mentre Charlotte Gainsbourg ha una parte marginale), eredi di una famiglia che possiede una multinazionale della carne suina (il che dà adito a Franco di mettere in scena un po' di autentica "macelleria messicana" propriamente detta sotto forma di incubi da parte di lui) mentre i due ragazzi i figli di lei. Immediato il rientro in Europa per i funerali, ma al momento dell'imbarco Neil fa finta di aver perso il passaporto e rimane a terra. Rientrato in città, prende alloggio in una modesta pensione nella parte delle spiagge più popolari, e si immerge nella classica vita balneare del brit-tipo di livello medio-basso a base di fiumi di birra di qualità scadente e a basso costo a contemplare il nulla, che passa la giornata al bar della spiaggia e si concede qualche sporadico pediluvio, perché troppo gonfio perfino per nuotare, in mezzo ai "pari grado" locali, pur non parlando se non qualche sporadica parola di spagnolo e non essendo minimamente in grado di capire la realtà che lo circonda anche perché è l'ultima cosa che gli interessa, perfino quando un vicino d'ombrellone e di bevute viene accoppato a colpi di pistola direttamente sul bagnasciuga. Quando i famigliari gli telefonano, sulle prime è evasivo e assicura, mentendo, di stare facendo di tutto per riottenere il passaporto dal consolato, poi non si fa nemmeno più trovare e inizia una relazione con una ragazza che gestisce una bottega di souvenir, compagnia perfetta, perché nulla chiede né pretende, per le sue vacanze da coatto. Mentre il film prosegue, si scopre che ci sono anche questioni di eredità e di conduzione dell'impresa di famiglia in ballo, tanto che la sorella torna in Messico con l'avvocato della compagnia per fargli firmare delle carte e rimane a sua volta uccisa in un tentativo di rapina mentre sta tornando in aeroporto e Neil viene coinvolto e arrestato perché era stato visto più volte in compagnia di un taxista, l'unico rimasto in vita degli assalitori. E' in buona sostanza, il racconto della discesa in un limbo di indifferenza di un uomo il cui destino è segnato, e che spiega, in parte, le sue decisioni a prima vista sorprendenti e lascia un finale aperto, a mio avviso, all'interpretazione dello spettatore, tra il dubbio che sia cosciente oppure no delle cause del suo perdersi  volontariamente. Un film sorprendente e in certi aspetti crudo, che se da un lato, come spiega il regista, mostra i due aspetti contrapposti della realtà di un luogo famoso come Acapulco, dall'altro mostra ancora una volta le sfaccettature dei rapporti interfamigliari e i dilemmi di un uomo alle prese coi suoi fantasmi. Io, a ogni buon conto, l'ho apprezzato, sebbene Franco indulga a qualche "anestetismo" troppo compiaciuto, ma ha comunque  il pregio di non tirarla troppo per le lunghe e diventare noioso e ripetitivo. 

lunedì 25 aprile 2022

Quale Liberazione

 


La resistenza oggi: alle menzogne, alla sopraffazione del più debole, all'opportunismo, alle verità precostituite ed elevate a dogmi, si tratti di religioni o di ideologie; alla manipolazione e al travisamento metodico della realtà, tanto da crearne una fittizia o, come si suol dire, virtuale. Il mondo dell'informazione, entrato in corto circuito, che non mette in discussione un Paese, che si vuole simbolo e paladino della libertà di stampa e di opinione, gli USA, dove un giornalista, peraltro nemmeno cittadino statunitense, rischia 175 anni di reclusione (il solo fatto che sia possibile comminare una pena di questa entità la dice lunga sul sistema giuridico vigente a stelle e strisce) per avere pubblicato, e nemmeno sottratto personalmente, dei documenti secretati che sputtanano un sistema che si vuole rendere globale e senza alternative. Sottrarsene sarebbe la vera Liberazione, altro che sfilare in patetici cortei con le bandiere della NATO.

lunedì 18 aprile 2022

Ennio

"Ennio" di Giuseppe Tornatore. Con Ennio Morricone, Giuseppe Tornatore e interventi, tra gli altri, di Bernardo Bertolucci, Franco Migliacci, Nicola Piovani, Joan Baez, Quentin Tarantino, Wong Kar Wai, Clint Eastwood, Marco Bellocchio, Giuliano Montaldo, John Williams, Dario Argento, Lina Wertmüller, Roland Joffé, Paolo e Vittorio Taviani, Raffaella Leone, David Puttnam, Oliver Stone, Gianni Morandi, Bruce Springsteen, Miranda Martino,Caterina Caselli, Edoardo Vianello, James Hetfield, Quincy Jones, Hans Zimmer, Silvano Agosti, Gilda Buttà. e altri. Italia 2021 ★★★★

Ho atteso l'ora del pranzo di Pasqua, quando le felici famigliuole si abboffano, per dedicarmi a vedere questo vero e proprio omaggio che Giuseppe Tornatore ha dedicato a Ennio Morricone, scomparso due anni fa a 92 anni, che per il regista siciliano ha scritto ben sette delle sue oltre 500 colonne sonore, a cominciare da quella del suo esordio, Nuovo Cinema Paradiso, film uscito nelle sale due mesi fa ma tuttora in circolazione, segno di un buon successo di pubblico, che non dimentica chi al cinema ha dato tanto. Di solito non amo i cosiddetti biopic, quasi tutti fatti con lo stampino: immagini di repertorio, spezzoni di interviste col personaggio in questione e poi una sequela di ripetivi e per lo più scontati ricordi da parte di chi l'ha conosciuto o avuto a che fare con lui, ma in questo caso la voce narrante è proprio quella di Ennio Morricone, che ripercorre tutta la sua lunga vita in un intenso colloquio con Tornatore, e gli interventi di chi professionalmente è entrato in contatto con il Maestro, una persona riservata, timida quanto complessa ma anche schietta, sono quasi sempre pertinenti (salvo nel caso del "pizzaiolo", aka il Ligabue del New Jersey, che ha colto l'occasione per parlare di sé stesso e sparare le stesse banalità che canta da cinquant'anni a questa parte). Come ha detto un mio caro amico che l'aveva già visto appena uscito, si tratta di un film che può essere pienamente apprezzato soltanto da chi superato la sessantina e quindi è cresciuto e ha vissuto in pieno gli anni Sessanta, all'inizio dei quali Ennio Morricone, stimato musicista di formazione classica, diplomato in tromba (strumento suonato professionalmente anche dal padre) e composizione al Conservatorio di Santa Cecilia di Roma, coninciò, vergognandosene come un ladro, a scrivere colonne sonore cinematografiche, oltre che "canzonette", tant'è vero che agli inizi si firmava con uno pseudonimo per non farsi riconoscere e ripromettendosi, a ogni nuovo decennio, di non proseguire nell'attività, perché lui stesso, o una parte della sua persona, lo considerava un tradimento rispetto al mondo accademico. Una sorte di scissione della personalità, apparentemente: da una parte la musica colta, dall'altra quella popolare, di successo, e due attività parallele, compositore e arrangiatore ma anche ricercatore e sperimentatore che si dedicava alla musica tonale e a quella dodecafonica e alla "rumoristica": un paradosso, anche questo apparente, che lui, che sosteneva di odiare la melodia, abbia composto musiche indimenticabili che rimangono nella memoria al primo ascolto, tanto che i film di cui sono l'accompagnamento indispensabile vengono spesso identificati proprio per le colonne sonore di cui era autore il maestro, che leggeva le sceneggiature e soprattutto il "girato" come pochi, al momento: per esempio Novecento di Bertolucci veniva recitato in buona parte con la musica in sottofondo già durante le riprese. In realtà anche nelle composizioni più orecchiabili Morricone introduceva innovazioni ed elementi della sue indefesse ricerche, e tecniche di composizione straordinariamente complesse, come per esempio nella colonna sonora di Mission, che l'Academy contro tutte le aspettative non premiò con l'Oscar del 1987, con grande smacco del maestro, che venne invece premiato alla carriera nel 2007 e soltanto nel 2016 per la composizione originale (come tutte le sue) di The Hateful Eight di Quentin Tarantino: era ora. Solo verso la fine della sua vita Morricone si riconciliò con sé stesso e superò la sensazione di aver tradito la sua, di Missione: di musicista e, soprattutto, compositore ineguagliabile, scrivendo dei pezzi di storia, sociale e non solo del cinema. Gran bel film, non sono stati pochi i momenti di sincera commozione, grazie a Giuseppe Tornatore ma grazie soprattutto all'indimenticabile Maestro Ennio Morricone per avere accompagnato anche la nostra esistenza con la sua musica.

mercoledì 13 aprile 2022

Granizo

"Granizo" (Grandine/All Hail) di Marcos Carnevale. Con Guillermo Francella, Romina Fernandes, Peto Menahem, Martin Seefeld, Nicolás Scarpino, Eugenia Guerty, Viviana Saccone, Laura Fernández e altri. Argentina 2022 ★★1/2

Fin dalla sua uscita due settimane fa su Netflix, Granizo, ossia "Grandine", è tra i film al momento più visti sulla piattaforma internazionale in streaming: vero che è simpatico e divertente, soprattutto se lo si vede in versione originale essendo assuefatti all'accento argentino e alle versioni locali del castigliano, peraltro infarcite di italianismi, e se si è al corrente delle rivalità fra i portenõs, ossia gli abitanti di Buenos Aires, o meglio della Capital Federal in senso stretto, e il resto del Paese, in particolare quelli di Córdoba la Docta, però non è certo un capolavoro e, personalmente, mi ha lasciato un po' deluso, perché manca di quel tot di cattiveria e di follia che caratterizza la migliore commedia locale. Commedia, quella italiana degli anni Sessanta e Settanta, di cui si è nutrito, come è solito ripetere, il grande e versatile Guillermo Francella, le cui origini peninsulari, come quelle del regista e di mezzo cast (e metà della popolazione) sono inequivocabili. Non a caso il film si apre con Felicità (nella versione originale di Al Bano e Romina) che accompagna la toilette mattutina e i preparativi di una giornata storica per Miguel Flores, il personaggio che interpreta, meteorologo televisivo conosciuto come El Infalíble, perché da 20 anni non sbaglia un previsione: quella dell'esordio come protagonista del primo show meteorologico della TV argentina, qualcosa di simile a Che tempo che fa delle origini. Una sorta di eroe nazionale, di cui tutti si fidano. Proprio quella sera, dopo una splendida giornata di sole, però qualcosa va storto e mentre va in onda su Buenos Aires si abbatte una tormenta che culmina in una grandinata dagli effetti devastanti, in particolare per le automobili posteggiate per strada. Da icona a nemico del popolo, ai tempi dei social media, e in particolare con una popolazione manichea e umorale come quella composta da italo-spagnoli, è un attimo e Flores, costretto a prendersi una vacanza diplomatica dalla dirigenza della rete (altra realtà presa di mira), cerca scampo nella città natale, Córdoba, che sta alla capitale quanto Milano sta a Roma (e infatti viene accolto con comprensione mista a compiacimento, per aver fatto abbattere una tempesta sulla detestata Buenos Aires), dove abita la figlia Carla, pediatra nel Policlinico Universitario locale, con la quale ha rapporti puramente formali e casuali da quando, come si scoprirà nel prosieguo, è morta la rispettiva moglie e madre, scomparsa a causa di un fulmine, causa della fissazione per le previsioni di Miguel, cui si è dedicato anima e corpo a discapito di Carla e delle sue stesse origini. Insomma, un viaggio di ritorno a sé stesso e una presa di coscienza della volubilità del successo e della fama, un po' troppo infarcito da luoghi comuni e che propone qualche trovata divertente fino all'epilogo, un ritorno in gloria nella capitale, questa volta per salvare il salvabile e questo non per una previsione sua ma di una sorta di aruspice che vive come un eremita sulle sierras cordobesas. Considerate tradizioni e potenzialità del cinema argentino, di primissimo livello, si poteva fare decisamente di meglio, e anche se le prestazioni degli interpreti sono tutte più che sufficienti, in patria, almeno i cordobesi, hanno avuto da ridire per come la loro tonada (inflessione) sia stata calcata, in modo che hanno ritenuto offensivo, da una attrice, Romina Fernandes, peraltro attiva soprattutto in teatro, che ha l'imperdonabile difetto di essere porteña, come se non esistessero colleghi cordobesi da ingaggiare al suo posto o, nel caso farla doppiare: polemiche che alla fine sono ancora più divertenti del film stesso. Sempre a litigare, questi argentini. Chissà da chi hanno preso lo spirito campanilista e provinciale... 

domenica 10 aprile 2022

Pupo di zucchero / La festa dei morti


"Pupo di zucchero /La festa dei morti" di Emma Dante, liberamente ispirato a "Lo cunto de li cunti" di Giambattista Basile. Regia di Emma Dante, con Carmine Maringola, Nancy Trabona, Maria Sgro, Federica Greco, Sandro Maria Campagna, Giuseppe Lino, Stephanie Taillandier, Tiebeu Marc-Henry Brissy Ghadout, Martina Caracappa, Valter Sarzi Sartori; scene e luci di Cristian Zucaro; costumi di Emma Dante; sculture di Cesare Inzerillo. Una produzione Sud Costa Occidentale in coproduzione con Teatro di Napoli/Teatro Nazionale, Scène National Châteauvallon-Liberté, ExtraPôle Provence-Alpes-Côtre d'Azur, Teatro Biondo di Palermo, La Criée Théâtre National de Marseille, Festival d'Avignon, Anthéea Antipolis Théâtre d'Antibes, Carnezzeria. Al PalaMostre di Udine l'8 e 9 aprile per Teatro Contatto

Pieno di aspettative per il nuovo spettacolo di Emma Dante, tratto come il precedente La scortecata da Lo cunto de li cunti di Gianbattista Basile, devo confessare di essere rimasto alquanto deluso da Pupo di Zucchero, non tanto e non solo perché pare una fusione i suoi ultimi due lavori, La scortecata, appunto, e Le sorelle Macaluso, ma soprattutto  perché rispetto a questi ultimi manca il mordente, l'intensità, anche se rimane la scarna essenzialità della scenografia e, per fortuna, il dono della sintesi della regista siciliana: siamo sui 50' di spettacolo e la "prova orologio", inesorabile a teatro ancora più che al cinema, aveva già dato il suo responso, perché allo spegnersi delle luci avevo già compulsato tre volte il quadrante, e se ci fosse stato un secondo atto, dopo l'intervallo avrei senz'altro abbandonato la sala. Non per incapacità degli interpreti, né per la storia in sé, che vede un vecchio rimasto solo, cui dà magistralmente voce in parlata napoletana Carmine Maringola, intento a preparare l'impasto per un pupo di zucchero, dolce tradizionale del 2 di novembre, giorno dei morti, che nelle persone dei suoi famigliari defunti, nell'attesa che lieviti vengono a fargli visita, nei ricordi e sulla scena, facendo tornare in vita una casa ormai irrimediabilmente vuota. Ed eccoli, i personaggi: il padre marinaio eternamente giovane, che pronuncia sempre le stesse parole: "Ti amerò per sempre"; la madre, francofona, recuperata a Marsiglia (già apparsa ne Le sorelle Macaluso); le tre sorelle scomparse prematuramente, che danzano tra lenzuola e veli movimentando la scena, una sorta di Vispe Terese che invece che tra l'erbetta corrono tout en rond sul palcoscenico; allo stesso scopo si inseguono e si allacciano in un rapporto sadomasochistico di odio e amore, sesso e violenza la coppia di zii, Antonio e Rita; poi c'è una sorta di tanguero andaluso, quindi un ossimoro, zio Pedro, con tanto di nacchere che poco hanno a che fare con il Rio de la Plata (così come il tango con l'Andalusia); infine Pascal, se ho ben capito un figlio adottato, nero, anche lui lì a fare colore. Bravi e inesausti nelle loro prove ginniche, niente da dire, ma imprigionati nel loro cliché, ossia così come li ha conservati il ricordo del protagonista e narratore, però sostanzialmente delle GIF animate. Abituati al teatro sanguigno, concreto, d'impatto della Dante, la leziosità di movenze e tutto quel danzare stavano decisamente cominciando a darmi sui nervi quando al posto degli attori in carne e ossa sono apparsi in scena i magnifici pupazzi creati da Cesare Inzerillo che riproducono i loro cadaveri e rimandano inevitabilmente a quelli imbalsamati che sono conservati nelle catacombe del convento dei Cappuccini a Palermo. Dicendo che la loro prestazione sia molto più incisiva e d'impatto di quella degli attori vivi non voglio essere offensivo nei confronti di questi ultimi, che ce l'hanno messa tutta, ma sono lo spettacolo e la messa in scena che, a mio parere, questa volta non hanno funzionato. Di diverso parere la stragrande maggioranza del pubblico in sala, che ha gradito, e richiamato con applausi e grida di "bravi" gli interpreti per una mezza dozzina di volte sul palcoscenico.

venerdì 8 aprile 2022

Lunana - Il villaggio alla fine del mondo

"Lunana - Il villaggio alla fine del mondo"(Lunana: A Yak in the Classroom) di Pawo Choyning Dorji. Con Sherab Dorji, Ugyen Norbu Lhendup, Kelden Lhamo Gurung, Pem Zam, Sangay Lam e altri. Bhutan 2019 ★★★★1/2

Primo film bhutanese candidato agli Oscar come miglior film straniero (e anche primo film di quel remoto regno buddhista che mi è capitato di vedere dalle nostre parti), per fortuna non è risultato vincitore nella kermesse hollywoodiana, poiché è ispirato a principi esattamente opposti a quelli che animano quella suprema fabbrica di illusioni, specchio dell'intera "civiltà" occidentale che ha scelto di mettersi sulle orme dell'american way of life, in preda al delirio del progresso inarrestabile basato sul primato del profitto, ovvero sulla legge del mercato. Nulla di più lontano dalla filosofia di vita che anima il Bhutan, unico Paese al mondo a prendere seriamente in considerazione il GNH/FIL, ossia il tasso di Felicità interna lorda, anziché il solo Prodotto interno lordo, per misurare il proprio grado di sviluppo. Della rutilante fiera delle illusioni e delle luci della ribalta internazionali che raggiungono con le loro sirene anche la capitale Thimph rimane vittima anche Ugyen, cresciuto dalla nonna che l'ha fatto studiare, un giovane insegnante svogliato che sogna di emigrare in Australia per fare il cantante, che per completare il tirocinio viene mandato dalle autorità governative a Lunana, un villaggio di 56 abitanti a 4800 metri d'altezza e sei giorni  di cammino a piedi dall'ultima stazione di autobus, dove viene a recuperarlo la guida Michen con un altro accompagnatore e una coppia di asini. Sconvolto dalle condizioni di povertà e isolamento, Ugyen in un primo momento annuncia di voler rinunciare all'incarico e di essere riportato indietro, ma la mattina seguente viene svegliato da Pem Zam, la capoclasse, una bambina vivace, intelligente e dotata di un sorriso e una simpatia irresistibili e che interpreta sé stessa (come tutti gli abitanti del paesino) che gli annuncia che i suoi allievi lo attendono. Il loro entusiasmo, la profonda umanità del capovillaggio, la dolcezza di una pastora di yak, Saldon (che glie ne regala un esemplare facendoglielo trovare in classe), la quale ogni giorno intona con la sua voce incantevole una canzone tradizionale,Yak Lebi Lhadar, scritta da un antenato per onorare un esemplare che aveva dovuto scarificare per nutrire il villaggio durante un periodo di carestia, inducono Ugyen a riceredersi, trovare le motivazioni che non aveva mai avuto in precedenza e fare di tutto per fornire ai suoi alunni non solo le nozioni ma anche i materiali di base per farsi un minimo di cultura e capire che, come gli dice il capovillaggio, la missione dell'insegnante è speciale, perché è colui che consente di "toccare il futuro". Con il sopraggiungere dell'inverno arriva anche il momento di lasciare l'altipiano e Ugyen, pure a malincuore, comunica che l'anno successivo si augura che lo sostituisca un insegnante più capace di lui, ma gli viene risposto che saranno i ragazzi, semmai, a giudicare il suo operato e che comunque rimarrà nei loro cuori con tutta la gratitudine per quel che ha fatto per loro, e che sperano di rivederlo un giorno, come si augura anche lui. Nella scena finale troviamo Ugyen a Sydney, mentre si esibisce in un pub alquanto squallido frequentato da locali, tra l'altro la popolazione più ignorante, rozza e strafottente al mondo, dove nessuno gli presta le benché minima attenzione tranne quando, preso da una botta di nostalgia, intona proprio quella canzone,Yak Lebi Lhadar, che Saldon gli aveva insegnato durante il soggiorno a Lunana. Potrebbe sembrare una favola buonista secondo i principi vigenti del politicamente corretto, ossia il modo di indorare la pillola dell'amara realtà con un po' di finto ecologismo ma, panorami mozzafiato a parte, valorizzati da un'eccellente fotografia, e una capacità tecnica e di sceneggiatura più che sufficienti per farne un film eccellente, a renderne lo spirito e il senso (ad esempio chiedersi quanto ne abbia inseguire gli abbagli consumistici che attraggono gli incauti come la luce le falene) è la sincerità di fondo, e un modo alternativo di intendere la vita e il rapporto dell'uomo con gli altri esseri viventi e con tutto ciò che lo circonda, che è alla base della filosofia buddhista. A ricordarci che il nostro modo di vivere e di pensare non è l'unico e, per di più, corrotto, malsano, votato all'infelicità e alla lunga all'autodistruzione. Nulla di meno infantile, compiacente, accomodante. E di più profondamente umano. Un film per fermarsi a riflettere, per adulti come per ragazzi e anche bambini, senza bisogno di grandi "spiegoni". 

martedì 5 aprile 2022

Un altro mondo

"Un altro mondo" (Un autre monde) di Stéphane Brizé. Con Vincent Lindon, Sandrine Kiberlain, Anthony Bajon, Marie Drucker, Guillaume Draux, Olivier Lemaire e altri. Francia 2021 ★★★

Terzo film di Stéphane Brizé dopo La legge del mercato e In guerra sul mondo del lavoro ai tempi della globalizzazione, con conseguente delocalizzazione, perché i capitali circolano tanto più velocemente quanto più facilmente è possibile investire in luoghi dove produrre costa meno, e le merci hanno modo di spostarsi fra le frontiere di Stati che ormai di nazionale hanno soltanto la struttura per ingabbiare i propri sudditi e tenerne fuori quelli da usare come riserva di forza lavoro o spauracchio, e per compiacere invece le multinazionali senza volto, generalmente d'oltreoceano, garantendo la vigenza della massimizzazione del profitto come unico vero dogma rimasto, in base appunto della legge del mercato, misura di tutte le cose e di ogni valore, il regista francese rimane uno dei rarissimi esempi di autore che sa fare cinema civile, e quindi politico, non limitandosi a denunciare lo stato delle cose ma mostrando quanto e come l'applicazione dei "sacri principi" abbia effetto sulla vita quotidiana delle persone su cui si abbattono inesorabilmente. Come se fossero inevitabili, basati su una logica che non si può per alcun motivo contrastare, proprio perché significherebbe mettere in discussione un intero sistema votato all'autodistruzione di sé stesso e, alla fine, di tutto ciò che si regge su di esso. Discorsi fatti e rifatti invano, ma che vederli tradotti sullo schermo, negli effetti che hanno sulla vita quotidiana di Philippe Lemesle, interpretato da Vincent Lindon, sodale di lunga data di Brizé, direttore di uno stabilimento di elettrodomestici nella Francia Occidentale che fa parte di una multinazionale che ha sede negli USA, e fa un altro effetto quello si un pugno nello stomaco che colpisce duro, perché potrebbe abbattersi anche su ognuno di noi. L'uomo si trova a un bivio della sua vita famigliare e professionale: la prima è andata a rotoli proprio per la sua dedizione alla seconda, cui si è dedicato anima e corpo proprio per salvare l'azienda e chi ci lavorava, a cui in precedenza aveva evitato massicci "tagli" in cambio di sacrifici in termini non solo salariali ma di standard di sicurezza e di maggiore produttività. Proprio per questo gli viene imposto dall'alto un ulteriore giro di vite, per evitare una delocalizzazione in realtà già decisa: l'uomo, già alle prese con la richiesta di divorzio da parte della moglie, che non ne può più della sua sostanziale assenza a causa dell'abnegazione al "dovere", e un figlio maniaco-ossessivo che ha bisogno di cure psichiatriche, si trova fra l'incudine e il martello, come si suol dire, alle prese con le aberranti quanto ferree logiche aziendali, messo alle strette di fronte al bivio fra salvare la sua carriera a scapito dei suo dipendenti oppure la propria dignità e credibilità. L'uomo saprà scegliere, la sua sarà sarà una vittoria in termini di rispetto per sé stesso e, forse, recupero di una dimensione personale e affettiva, ma segnerà comunque una sconfitta, non solo per la sua carriera, ma anche per coloro a cui ha tentato invano di salvare il posto do lavoro, perché ci sarà sempre un altro pronto a rimpiazzarlo a a eseguire gli indiscutibili ordini venuti dall'altra parte dell'Oceano, dove anche il Grande Capo asserisce di dover rispondere a qualcuno più in alto di lui: la divinità che risiede a Wall Street, ossia l'Azionista. 

sabato 2 aprile 2022

Licorice Pizza

"Licorice Pizza" di Paul Thomas Anderson. Con Alana Haim, Cooper Hoffman, Sean Penn, Bradley Cooper, Tom Waits, Bennie Safdie, Christine Ebersole, Maya Rudolph a altri. USA 2021 ★★★★

Se si desidera un film divertente, rilassante, ben girato, ottimista, sentimentale senza mai essere melodrammatico, con quel pizzico di nostalgia dei bei tempi passati, nei magnifici anni Settanta, quando oltre a coltivare speranze per un futuro migliore si produceva ancora musica vera (a questo e non altro si riferisce il titolo presuntamente misterioso: in gergo locale losangelino, era il nome dato ai Long Playing, ossia 33 giri in vinile, dal colore e dalle dimensioni, per l'appunto, simili a quelli di una pizza alla liquirizia), questo è il film da vedere, al momento. Paul Thomas Anderson, talentuoso quanto versatile regista abituato a destreggiarsi con uguale abilità e successo tra un genere e l'altro senza fossilizzarsi e perdere la freschezza del racconto e l'ispirazione, è una garanzia in tal senso, e la storia delle varie fasi della nascita di un amore all'apparenza improbabile quanto invece profondo è pane per i suoi denti e un modo per rendere omaggio all'epoca d'oro di quella San Fernando Valley (Encino per la precisione), periferia della Los Angeles meno glamour ma più autentica, dove lui stesso è nato e cresciuto, così come la sorprendente Alana Haim, chitarrista di un gruppo rock, le Haim, assieme alle due sorelle (che compaiono anche qui) la quale interpreta Alana Kane, una venticinquenne assistente fotografa, oggi si direbbe "precaria", di cui Gary Valentine (l'altrettanto esordiente Cooper Hoffman, figlio del compianto Philip Seymour, di cui sembra la reincarnazione), giovane attore di successo quindicenne, si innamora a prima vista in occasione degli scatti per il tradizionale album del liceo che frequenta: il lungo piano sequenza iniziale durante il quale il ragazzo, logorroico quanto intraprendente e cocciuto, cerca di convincere la più anziana e ben scaltra Alana a uscire a cena con lui perché il loro è stato l'incontro del destino, merita da solo il biglietto. Strano ma vero, avrà ragione lui, ma per arrivarci la relazione attraverserà varie fasi che, chi è in grado di ricordare obiettivamente la propria adolescenza e giovinezza, saprà riconoscere bene. Gary non è solo una star di programmi (condotti da tale Lucy Dolittle) e spot pubblicitari per teenager, e Alana diventerà la sua accompagnatrice, in quanto maggiorenne, ma è pieno di idee e sempre assieme a lei mette in piedi un'impresa per la vendita e il montaggio di letti con materassi ad acqua, sempre coadiuvato da suoi coetanei, e quando questo andrà a monte, per un increscioso quanto divertente incidente (protagonista un esilarante Bradley Cooper nei panni del produttore e compagno di Barbra Streisand, Jon Peters), aprirà una sala giochi dove sono ammessi minorenni dopo aver saputo per vie traverse (insider trading?) che i flipper (i vecchi, gloriosi flipper, altro che i videogiochi!) sarebbero stati legalizzati in California. Siamo nel 1973, Nixon è il presidente che sta cercando di chiudere la guerra del Vietnam, l'anno è quello della crisi petrolifera e la benzina scarseggia anche negli USA e sulla West Coast; la San Fernando Valley in cui è ambientata la vicenda sembra abitata quasi unicamente da giovani ed è solo lambita dai personaggi che frequentano la vicina Hollywood, il mondo del cinema che comunque entra a far parte della storia attraverso un altro personaggio, Jack Holden (Sean Penn) e il suo sodale interpretato da Tom Waits in un cameo, e sono gli unici personaggi adulti del film: Alana è a metà strada, sulla via di diventarlo, ma ne rimarrà talmente schifata da preferire le fanfaronate ma anche la sincerità di fondo di Gary, nonostante la differenza d'età. Ecco, vi ho anticipato lo happy end, ma quello comunque fa parte del gioco (e qui ci vuole proprio), però assicuro a chi legge che averlo svelato non nuocerà per nulla alla visione. Una volta tanto che l'abusata frase "andrà tutto bene" ha un esito non nefasto...