lunedì 31 ottobre 2022

Triangle of Sadness

"Triangle of Sadness" di Ruben Östlund. Con Harris Dickinson, Charlbi Dean Kriek, Woody Harrelson, Dolly De Leon, Zlatko Burić, Vicky Berlin, Sunnyi Melles, Iris Berben, Henrik Dorsin, Linda Anborg, Arvin Kananian e altri. Svezia 2022 ★★★★★

E così Östlund ha fatto il bis, vincendo nuovamente la Palma d'Oro a Cannes questa primavera dopo averla già conquistata nel 2017 con il devastante The Square, che mi aveva fatto ribaltare il giudizio su di lui: ora l'esplosivo Triangle of Sadness mi costringe a cercare di rintracciare e rivedere, con altri occhi, anche Forza maggiore, che l'aveva preceduto e reso famoso e che a una prima visione mi aveva lasciato perplesso. Fra i due trionfi festivalieri in Costa Azzurra, nel 2019 lo stesso premio l'aveva ricevuto, con pieno merito, anche il sudcoreano Bong Joon-ho per Parasitecon il quale ha parecchie affinità, a cominciare dalla chiarezza del messaggio e dalla incisiva, dissacrante critica sociale, che non è rivolta soltanto ai ricchi, ossia a chi fa i soldi coi soldi, ma a tutte le classe sociali, senza distinzione, un'umanità disumanizzata e sconquassata, dal cervello devastato, assetata di potere, in qualsiasi forma, prima ancora che di danaro, e come in Parasite anche qui si ha un'inversione spettacolare dei ruoli nell'ultimo dei tre atti in cui si divide questa feroce quanto efficace satira sociale, che non colpisce solo il cretinismo scandinavo, che ha un che di endemico, ma ha valenza universale. Nel primo siamo a un esilarante casting di modelli maschi a cui partecipa Carl (Dickinson), che fa coppia con Yaya (Kriek, scomparsa a 32 anni due mesi fa, bravissima a renderne l'immensa stronzaggine), pure lei modella, che però guadagna tre volte più di lui essendo femmina (a proposito di parità...) con seguito di cenetta e inarrivabile discussione su chi debba pagare il conto. I due sono anche influencer (ed ecco colpita un'altra categoria di "emergenti" nonché imbecilli all'ennesima potenza, ma mai come chi li segue) e in quanto tali vengono invitati a una crociera su uno yacht di lusso, che batte bandiera britannica. E qui prende piede il secondo atto. A bordo Dimitri, un capitalista russo diventato miliardardo vendendo letteralmente merda e le sue due frastornate donne (strepitosa Sunnyi Melles), una coppia di distinti anziani inglesi che portano avanti l'azienda di famiglia che produce mine antiuomo e altre schifezze simili, un single imbranato che si arricchito a sua volta a dismisura sviluppando e vendendo app, una coppia tedesca con lei invalida in carrozzella che per tutto il film ripete ossessivamente in qualsiasi occasione una sola frase come un mantra: in den Wolken, ossia "nelle nuvole", solo con intonazioni diverse. Poi c'è lo staff che deve accontentare i passeggeri in ogni loro capriccio, agli ordini di Paula (esilarante il discorso "motivazionale" prima dell'imbarco dei partecipanti), infine la ciurma, composta prevalentemente da immigrati dal Terzo Mondo, ma non mancano greci, italiani e spagnoli (esponenti dei famigerati PIGS... ) Al comando della nave, il Capitano, magnificamente interpretato da uno stralunato, meraviglioso Woody Harrelson, americano e marxista osservante, il quale esce dalla sua cabina solo per partecipare, per l'appunto, alla rituale "cena del capitano" che ha voluto si tenesse nell'unico giorno in cui in mare era prevista una tempesta. E infatti succede il disastro, scene apocalittiche e "liberatorie" in tutti i sensi avvengono nella sala da pranzo e nei bagni della nave, scene simili me le ricordo soltanto ne La grande abbuffata di Ferreri: probabilmente ci sarà qualcuno che storcerà il naso o sarà nauseato, io quasi stavo male dal ridere a vedere come lo Zot divino, nel cuore dell'Egeo, avesse colpito inesorabilmente al ventre e nelle budella questa umanità repellente (escluso il glorioso capitano, s'intende), e alla fine lo yacht fa naufragio. Si apre il terzo e ultimo atto con i  pochi sopravvissuti che si trovano spiaggiati sulla spiaggia di un'isola, senza acqua e senza scorte, tranne quelle contenute in una sorta di scialuppa-sottomarino (che diventerà l'alcova di un amore ancillare all'incontrario) di competenza di quella che a bordo era la responsabile della pulizia dei cessi, e che prenderà il comando della situazione... Un film potente, feroce come si deve se si vuole per davvero colpire duro e mettere alla berlina l'andazzo imperante, con  l'imbesuimento generalizzato e globalizzato che ormai ha preso piede a ogni latitudine e colpisce inesorabilmente ogni categoria umana o fascia d'età, dotato di quella cattiveria che manca totalmente, salvo rarissime eccezioni, alla commedia nostrana anche quando vuole essere noir e al passo coi tempi, come per esempio l'ultimo lavoro di Virzì, Siccità che non centra il bersaglio, ammesso che ne avesse uno, essendo tanto privo di mordente quanto zeppo di luoghi comuni. Triangle of Sadnass è magistrale, geniale, da non perdere. 

venerdì 28 ottobre 2022

Utama - Le terre dimenticate

"Utama - Le terre dimenticate" (Utama) di Alejandro Loayza Grisi. Con José Calcina, Luisa Quispe, Santos Choque, Félix Ticona, Candelaria Quispe, Placide Ali, René Calcina, Jorge Yucra Nogales e altri. Bolivia, Uruguay, Francia 2022 ★★★★★

Vincitore del Gran Premio della Giuria al Sundance Film Festival Utama, film d'esordio di Alejandro Loayza Grisi, rappresenterà la Bolivia al prossimo Oscar per il miglior film straniero e già questo è una sorta di miracolo, come che da quel dimenticato, poverissimo Paese, desaparecido in un Continente già negletto di suo, giunga nelle nostre sale una testimonianza autentica sulla piega che stanno prendendo le cose in questo mondo malato e che riguardano tutti. Presi dalla nostra frenesia di consumo in nome di un eterno presente che non concepisce nemmeno l'idea di un futuro (perché, devastando irrimediabilmente il pianeta su cui viviamo, non ce ne sarà per nessuno) non ci rendiamo nemmeno più conto, salvo quando subiamo gli effetti di un'estate particolarmente siccitosa, o dei sempre più frequenti e imprevedibili cataclismi meteorologici, dei cambiamenti climatici in atto e, soprattutto, del fatto che il loro incremento sia causato dalle distruttive attività umane, mentre se ne accorgono bene, e ne capiscono perfettamente sia le ragioni, sia gli effetti, persone semplici, che conducono un'esistenza basilare, a contatto con la natura, con la quale da sempre vivono in sintonia. E' il caso di un'anziana coppia, Virginio e Sisa (José Calcina e Luisa Quispe, marito e moglie anche nella vita reale) che vive in un'area rurale della puna boliviana a 4200 metri d'altezza, nel distretto di Potosí, Sud del Paese, dove il film è stato girato: paesaggi di una potenza surrealistica, che ho ancora negli occhi (e nel cuore) dopo 20 anni che li ho visti di persona, e che mi rimarranno impressi finché vivrò. Virginio porta al pascolo, sempre più magro perché non piove da mesi e mesi, un gregge di lama; Sisa si occupa della casa, la tipica struttura che hanno le abitazioni contadine quechua nell'area andina, e ogni giorno deve recuperare l'acqua: sempre più lontano, perché la pompa pubblica dell'aldea (villaggio) più vicina non butta più e deve procurarsela coprendo una distanza via via maggiore, fino al fiume, quasi a secco pure esso. Un giorno viene a trovarli il nipote Clever, cercando di convincerli a seguirlo in città: Virginio sospetta che sia stato mandato dal figlio, con cui ha pressoché rotto i rapporti proprio per la scelta di quest'ultimo di abbandonare la terra in cui è nato (utama è un termine quechua che traduce alla perfezione in concetto tedesco di heimat, che è qualcosa di più e di diverso di "patria" o luogo di nascita: è il posto che ci appartiene, e a cui apparteniamo, più intimamente) benché siano anni che il villaggio si stia progressivamente spopolando perché la terra diventa sempre più arida e le condizioni di vita vieppiù difficili. Il ragazzo, che è sinceramente affezionato ai nonni, resta lì ad aiutarli anche nella speranza di scalfire la testardaggine del vecchio, salvo accorgersi che Virginio è malato, e farà in modo che l'orgoglioso nonno lo ammetta anche davanti alla devota moglie. Lo accompagnerà pure a una cerimonia in cima a un monte in cui si compierà un sacrificio rituale per invocare la pioggia: sono le rare occasioni in cui gli abitanti, che abitano isolati spesso a chilometri di distanza dal loro "vicino di casa", si incontrano, in cui spesso scorrono fiumi di alcol e non di rado finisce a botte (nella realtà, si stratta delle rare occasioni di socializzazione di questa gente, nelle quali non solo si fanno accordi ma si dirimono anche questioni in sospeso e spesso finisce con lo scorrere del sangue) anche se non è il caso di Utama. Virginio se ne andrà come il condor, che decide da sé quando è il momento lasciandosi cadere da un cucuzzolo a peso morto e senza aprire le ali, come dice la leggenda, allo stesso modo come ha deciso da sé come vivere la propria esistenza. Alla fine, la pioggia tornerà, ma l'equilibrio millenario ormai è rotto e non sembra esservi scampo al destino che ci siamo cercati, dimenticando e rinnegando quel che siamo sempre stati. Non sono solo belle le immagini dei panorami, di grande presa la fotografia di luoghi comunque carichi di una suggestione che ha del magico, ma soprattutto la resa del rapporto dell'anziana coppia, la sintonia e armonia profonda di due persone che si sono scelte per condividere la propria esistenza, la realtà e la forza del sentimento che li lega. Non è solo saggezza antica, nostalgia per un mondo ormai passato, ma un messaggio molto più profondo, quello che lancia Alejandro Loayza Grisi, nel modo più semplice ed efficace: quello dell'autenticità. Film che è un piccolo tesoro.

martedì 25 ottobre 2022

Le buone stelle - Broker

"Le buone stelle - Broker" di Kore' eda Hirokazu. Con Song Kang-ho, IU (Lee Ji-eu), Gang Dong-Won, Joo-young Lee, Doo-na Bae e altri. Corea del Sud 2022 ★★★★★

Da tempo considero il maestro giapponese uno dei migliori autori di cinema in circolazione, capace di coniugare facilità di racconto, pulizia delle immagini, spunti di riflessione, sensibilità e una visione del mondo profondamente umanista e de-ideologizzata, e questo Broker (ossia intermediari, ché il titolo italiano al solito ha poco a vedere col film e ne cita un'unica scena, e nemmeno una delle più significative) probabilmente il migliore che ha girato o almeno quello che compendia tutti i suoi maggiori pregi. Nella vicenda, raccontata con la consueta pacatezza pur combinando aspetti noir, da road movie, da commedia come anchepure drammatici, il tema è quello d'elezione di Kore' eda ovvero la famiglia. In senso elettivo, intesa come quella che si crea attraverso legami affettivi e per scelta e non quella basata su vincoli di sangue e regolati dalla legge o dalle tradizioni. Dopo la Francia, dove aveva girato La verità (che finora mi sono rifiutato di vedere perché ha come protagonista Catherine Deneuve, un'attrice che mi dà sui nervi come poche altre) il regista ha scelto la Corea del Sud, patria del cinema asiatico di maggiore respiro internazionale nonché più innovativo, avvalendosi di un cast di stelle locali (dal grande Song Kang-ho a IU a Doo-na Bae) e in lingua coreana, facendo iniziare la storia a Busan, principale porto del Paese nonché di accesso al (e dal) Giappone, quando una ragazza abbandona il proprio neonato davanti a una Baby Box, moderno equivalente delle nostre "ruote degli esposti", che in Corea sono gestite prevalentemente dalla chiesa. A osservare la scena e "prendere in carico" la creatura, due personaggi, uno che lavora nella struttura, l'altro che possiede una lavanderia, che arrotondano le loro scarse entrate vendendoli a fin di bene  (e al miglior offerente) ad aspiranti genitori i quali, per un motivo o per l'altro, preferiscono aggirare le restrittive leggi sull'adozioni: sono loro i broker del titolo, a cui si aggrega la ragazza, forse pentita di avere abbandonato il figlio, e desiderosa di assicurargli un avvenire il più possibile dignitoso in una famiglia benestante e di gente per bene, oltre che ricavarci un equo guadagno. Iniziano così, a bordo dello sgangherato furgone della lavanderia, un viaggio attraverso il Paese per trattare con i possibili acquirenti che, per un motivo e per l'altro, verranno scartati di volta in volta perché non affidabili dal loro punto di vista: nel frattempo il trio ha imparato a conoscersi, come sempre succede on the road il viaggio è anche un momento di crescita esistenziale e, prendendosi cura del bambino, si trasformano, di fatto, in una famiglia vera, per quanto non convenzionale. Quel che non sanno, è che sono osservati da un'ispetttrice della polizia e da una sua giovane collega che ne seguono ogni mossa, intenzionate però a intervenire solo in stretta flagranza di reato, ossia nell'atto della compravendita e dello scambio. Cosa che alla fine del film avverrà, ma solo dopo aver scoperto altri aspetti del passato di ciascuno dei componenti del trio, cui si è aggiunto strada facendo anche un ragazzino fuggito da un orfanotrofio e troppo vecchio (8 anni) per essere adottato, che spiegano il loro modo di essere e le loro motivazioni, con una sorpresa finale che non svelo ma che è confortante pur non essendo melensa e buonista. Con grande sensibilità Core 'eda ancora una volta pone domande sul senso vero dei legami umani, sulle convenzioni sociali, sul senso delle norme e della legge, sull'ambivalenza delle motivazioni e sulle loro cause profonde, mentre si tende a giudicare (sempre e troppo) solo in base alle apparenze o a schemi precostituiti, e questo è il maggior pregio del suo cinema, oltre a essere di una rara lievità anche quando affronta i temi più scabrosi e di un'eleganza autentica non solo formale e mai privo di una sottile ironia. Senz'altro uno dei migliori e più profondi film visti finora in questo 2022.

sabato 22 ottobre 2022

Siccità

"Siccità" di Paolo Virzì. Con Silvio Orlando, Valerio Mastrandrea, Claudia Pandolfi, Vinicio Marchioni, Tommaso Ragno, Elena Vietti, Diego Ribon, Sara Serraiocco, Gabriel Montesi, Max Tortora, Monica Bellucci, Emanuela Fanelli e altri. Italia 2022 ★★+

Scritta a quattro mani dal regista assieme alla collega Francesca Archibugi (meglio evitarla, come già ebbi a notare per La pazza gioia), Francesco Piccolo, l'autore che ambisce "essere normale", infine Paolo Giordano, questa commedia "distopica", che vuole essere anche un omaggio a maestri come Risi, Scola e Monicelli, mi pare segni un passo indietro per il regista livornese, il cui problema, a quanto pare, è proprio l'ambiente capitolino: quando se ne è allontanato con decisione, soprattutto nel caso de Il capitale umano, a mio avviso il suo film di gran lunga migliore, i risultati sono stati molto più convincenti. Concepito durante il primo lockdown, a cui abbondano i riferimenti, dalla situazione emergenziale, all'assuefarsi ad essa, all'ansia diffusa e alla crescente incomunicabilità, nel 2024 si immagina che Roma sia colpita da una siccità che dura da ormai tre anni e si sia alla vigilia della chiusura definitiva dei rubinetti dell'acqua, già razionata, e di ulteriori restrizioni e nel letto del Tevere, completamente prosciugato, emerge un antico monumento di cui non si sospettava esistenza. Nonostante ciò un'umanità desolante e autocentrata tira a campare immersa nelle sue miserie personali e intronata da un contorno altrettanto autoreferenziale e vacuo, tra informazione truffaldina e idiota, scienziati ed "esperti" che bivaccano negli studi televisivi quando non si trasferiscono nelle scalfariane terrazze romane, che resistono a qualsiasi evento, anche catastrofico. Tra questi, il film ne sceglie un gruppo rappresentativo i cui destini, come da copione in questo tipo di pellicole, si intersecano in qualche maniera: abbiamo così l'avvocato di successo (Marchioni) che si scambia messaggi erotici con una vecchia fiamma del liceo (Vietti), moglie di un ex attore di teatro diventato influencer e imbesuito dai social (Ragno: perfetto), il loro figlio adolescente e ribelle che si aggrega a un gruppuscolo di borgatari incazzati, un commerciante ridotto al lastrico che vuole portare le  sue sventure a conoscenza del vasto pubblico televisivo (Tortora), un ex conducente di auto blu narcolettico e in preda ad allucinazioni riciclatosi in autista per Uber (Mastrandrea, sempre una certezza) che rimane vittima di un nuovo morbo portato dalle blatte che infestano la città e, ricoverato in ospedale in terapia intensiva, si riconcilia con l'ex moglie, medico (Pandolfi, forse la più convincente), ora compagna dell'avvocato fedifrago; la loro figlia che fa l'orchestrale e si è fidanzata con un ragazzo africano che insegna ai romani come si risparmia l'acqua; e ancora un'infermiera incinta (Serraiocco) di una guardia del corpo tanto demente quanto fondamentalmente buono (Montesi) che lavora per la figlia negletta dei ricchi proprietari di un lussuoso stabilimento termale dove, ovviamente, l'acqua non manca mai, e poi un detenuto che si trova suo malgrado catapultato all'esterno della comfort zone che per lui è ormai rappresentata dalla sua cella a Rebibbia il quale si trova a vagare nella città in cerca di redenzione (Silvio Orlando, a tratti commovente) e infine Monica Bellucci, inguardabile nella sua stolida inespressività nonché inascoltabile dalla sua viva voce, che fornisce una impareggiabile ed esilarante interpretazione di sé stessa: nemmeno un’attrice vera e di talento autentico come Virginia Raffaele sarebbe riuscita a fare meglio. C'è movimento, per fortuna, ma una marea di luoghi comuni, situazioni e battute scontate, buonismo a profusione, "correttezza politica" diffusa a piene mani, una critica al cretinismo imperante tutto sommato così affettuosa e quasi complice, da risultare alla fine assolutoria: lontana la sacrosanta cattiveria de Il capitale umano, per l'appunto, e dimenticata la lezione di altri due grandi della commedia italiana più sferzante come Nanni Loi e Luciano Salce. Un peccato, perché gli attori ce la mettono tutta, come anche Mina quando cantava Mi sei scoppiato dentro al cuore che aleggia come colonna sonora durante il film ed esplode alla fine, quando torna la pioggia invocata perfino dal Papa.

giovedì 20 ottobre 2022

Ninjababy

"Ninjababy" di Yngvild Sve Flikke. Con Kristine Kujath Thorp, Arthur Berning, Nader Khademi, Tora Christine Dietrichson, Sylva Nymoen, Herman Tømmeraas e altri. Norvegia 2021 ★★★1/2

Un altro personaggio femminile del giorno d'oggi, questa volta interpretato dalla bravissima Kristine Thorp, protagonista di questa commedia norvegese che presenta molti tratti in comune con La persona peggiore del mondo, uscito sempre nel 2021 ma nelle sale italiane già l'anno scorso. Al centro della vicenda c'è sempre una ragazza piena di vita, irrisolta, che vive alla giornata senza avere le idee molto chiare né su sé stessa né su cosa fare, i cui rapporti sentimentali sono altrettanto confusi e poco profondi. Questa volta però Rakel, caotica 23enne di Oslo, aspirante disegnatrice di fumetti (ulteriore somiglianza con luna delle figure centrali del film connazionale sopracitato), che condivide l'appartamento con la più posata e sensata Ingrid, scopre di essere incinta di sei mesi, senza averne avuto il minimo sospetto, solo perché l'amica e convivente la costringe a fare un test di gravidanza notandone le mutate abitudini alimentari (di pancia non c'è quasi traccia), quando è ormai troppo tardi per abortire. Così le tocca venire a patti con l'indesiderato ospite, il Ninjababy del titolo, di cui comincia a fare schizzi immaginandolo un feto maschile e, in tutti i sensi, invadente, col quale inizia a interloquire in un simpatico e irriverente scambio di battute fino al termine della gravidanza, introducendo così pure un originale elemento grafico nella pellicola, già abbastanza vivace di suo. Il fatto è che Rakel, già casinista di suo, oltre a non essere ancora un grado di dare una forma alla sua esistenza e sostanzialmente mai uscita dallo stato adolescenziale, tra sbronze e rapporti del tutto casuali e solitamente ad alto tasso alcolico, non ha alcuna vocazione alla maternità e il film racconta del suo tentativo di risolvere il problema. Il primo scoglio è scoprire chi è il padre: non Mos, il gentile maestro di aikido con cui ha appena iniziato una relazione e che le sarà a fianco, ma Minchia Santa, un nome un programma, uno spilungone allampanato, perennemente fumato e sconclusionato come lei, che invece scoprirà una inaspettata vocazione paterna che alla fine le risolverà il problema, perché la via dell'adozione, con la sue pratiche burocratiche nonché le spesso ipocrite e discutibili motivazioni da parte degli aspiranti genitori, non risulterà praticabile, come nemmeno sarà fattibile che del piccolo Ninja si prenda cura la sorellastra di Rakel che, sposata da tempo e pur con una vita professionale impegnativa, avrebbe voluto un figlio senza poterlo avere. Il film, che risulta divertente (più di quanto uno possa normalmente aspettarsi da un film scandinavo), sboccato e anticonformista ma tutt'atro che banale e stupido, è stato definito banalmente "femminista": in realtà esprime un punto di vista comprensibile da parte dell'esponente di una generazione il cui orizzonte mentale, e non per colpa loro ma di chi li ha preceduti e messi al mondo, non va oltre le 24 ore, perché il vero problema è questo, oltre al fatto che non avere la vocazione alla "genitorialità" non deve motivo di condanna sociale (da quale pulpito, poi?), il che non esime dal fatto che una persona a 23 anni dovrebbe almeno essere messa nelle condizioni, dalla famiglia d'origine (di quella di Rakel nulla si sa ma certamente la ragazza qualche problema deve averlo avuto), dalla scuola, e a maggior ragione da uno Stato-mamma e onnipresente come quello Norvegese, di avere un minimo di controllo e coscienza del proprio corpo e della propria sessualità, tantopiù in un ambiente che ci si aspetterebbee particolarmente evoluto e disinibito. Insomma il risultato è più che gradevole nel suo complesso. 

lunedì 17 ottobre 2022

Gli orsi non esistono

"Gli orsi non esistono" (Khers Nist) di Jafar Panahi. Con Jafar Panahi, Naser Hashemi, Vahid Mobasheri, Mina Khosravani, Bakhtiyar Panjeei, Reza Heydari, Narjes Delaram e altri. Iran 2022 ★★★★★

Ancora una volta Jafar Panahi è stato costretto a escogitare un espediente per aggirare i rigidi limiti posti alla sua attività di regista e sceneggiatore dal regime teocratico iraniano che gli impedisce ormai dal 2010 di girare un film vero e proprio: mentre nell'ultimo Taxi-Teheran al divieto di girare in esterni aveva risposto trasformandosi in conducente di auto pubbliche piazzando una camera sul parabrezza interno e riprendendo le chiacchiere con clienti apparentemente casuali in giro per le strade della capitale, questa volta si è trasferito in un paesino rurale a ridosso del confine con la Turchia, da dove segue da remoto le riprese di un film che avvengono nella città posta appena dopo la frontiera attraverso un computer che si avvale, però, di una connessione alquanto instabile, scelta dovuta al fatto di voler essere il più vicino possibile fisicamente alla sua troupe. Si intrecciano quindi due vicende, quella di una coppia di quarantenni iraniani da anni in Turchia che cerca di raggiungere l'Europa ma è senza documenti, e quella di Panahi che, al di qua della frontiera, ospitato in una casa di un abitante su intercessione dello sceriffo del villaggio, che ne racconta la storia, e che rimane invischiato in una grottesca contesa paesana che ha a che fare con pregiudizi e menzogne: lo accusano di avere fotografato una coppia di amanti, mettendo a rischio un matrimonio combinato che "si ha da fare". Mentre su lato turco un sofferto Bakhtiyar (Panjeei) riesce finalmente a recuperare un passaporto per Zara (Mina Khorsavani), lei si rifiuta di partire senza di lui, a costo di perdere l'occasione si raggiungere Parigi, su quello iraniano il regista rimane impantanato in un'altra storia di amore contrastato, con protagonisti un villico che reclama dei presunti diritti su una fanciulla basati sulla tradizione e un ex studente espulso per motivi politici dall'università di Tehran, col primo che fa riunire i maggiorenti del villaggio per sottoporre Panahi a una sorta di processo incolpandolo di avere ritratto la coppia "clandestina" e chiedendogli di giurare sul Corano di non averlo fatto, benché abbia già restituito la scheda di memoria alle autorità del villaggio, giuramento che il regista si rifiuta di prestare chiedendo invece che la riunione venga documentata attraverso una ripresa. Da una parte e dall'altra di un confine precario, dove se nei posti di frontiera i controlli sono ferrei a pochi chilometri di distanza è oltremodo poroso, consentendo traffici di ogni genere, realtà e finzione si intrecciano, gli interpreti stessi del film si ribellano ai personaggi che mettono in scena, e perfino il regista non se la sente di superare la linea di separazione che divide i due Paesi (e quindi, simbolicamente, realtà e finzione), e gli tocca subire i fastidi che gli procura quella permanenza in un ambiente da cui viene sentito estraneo nonostante l'atteggiamento apparentemente ospitale ma sostanzialmente ambiguo e ostile degli autoctoni, schiavi di superstizioni e menzogne su cui del resto qualsiasi regime punta per mantenerli tali e garantirsi potere, tanto che alla fine è costretto, per evitare guai maggiori, a rientrare a Teheran. Sale sulla sua auto, mette in moto e parte: uscito dal villaggio si ferma, tira il freno a mano e mette in folle, le luci si spengono, il motore rimane acceso, sullo schermo appare la scitta: Fine. Sarà l'ultimo film di Panahi prima di aver scontato la più recente condanna che gli è stata inflitta: attualmente è nuovamente in carcere. Non è vero che, come dice il titolo, gli orsi non esistono: la prova è lui, che ha l'aspetto bonario e pacifico di un panda e che si muove con la medesima goffaggine. E noi siamo con lui. Un grande artista, un piccolo grande uomo. A presto, Jafar.

sabato 15 ottobre 2022

Athena

"Athena" di Romain Gavras. Con Dali Benssalah, Alexis Manenti, Anthony Bajon, Karim Lasmi, Radostina Rogliano, Ouassini Embarek, Tarek Haddaji, Mehdi Abldelhakmi, Sami Slimane e altri. Francia 2022 ★★★1/2

Athena, nome immaginario di una banlieue parigina quanto mai realistica, è il primo lavoro che vedo del controverso figlio di cotanto padre, da cui ha ereditato la propensione per il cinema scomodo e un indubbio talento dietro alla macchina da presa. Athena ha molti tratti in comune con I Miserabili di Ladj Ly, che peraltro qui è cosceneggiatore, uscito tre anni fa, però mostrando alcuni pregi in più. Originale senza dubbio la scelta di adattare agli stilemi della tragedia greca classica una potenziale vicenda attuale, una rivolta particolarmente violenta di un intero quartiere di emarginati pressoché "off limits", situazione peraltro comune nelle periferie francesi sempre sull'orlo dell'esplosione, in seguito alla morte di un ragazzino di cui i ribelli ritengono responsabile la polizia. Il film si apre con il tentativo di Abdel, un soldato fresco reduce dai vari fronti (africani) in cui è impegnato l'esercito francese e originario di Athena che, in fianco al capo della polizia, cerca di calmare le acque garantendo ai suoi abitanti che i colpevoli verranno identificati e resi noti: la sua credibilità sta nel fatto, oltre a essere una sorta di eroe del quartiere, di essere il fratello maggiore di Imir, il ragazzino tredicenne assassinato, ma a non dargli credito, per primo, è il penultimo dei fratelli, Karim, il giovane caporione che, facendo scoppiare la molotov che tiene in mano nella sala del commissariato dove sta avendo luogo la conferenza stampa di Abdel, dà il via alla rivolta, che parte con un piano-sequenza memorabile in cui si vedono i rivoltosi invadere l'edificio, impossessarsi di armi e automezzi e sfrecciare verso il loro quartiere a bordo di un camioncino della polizia che issa la bandiera francese, dove si asserraglieranno erigendo barricate contro la polizia e mettendo Athena a ferro e fuoco. Di piani sequenza, che portano lo spettatore a immergersi nel caos della protesta, fin quasi a venirne stordito, ce ne sono altri, seguendo i movimenti sia di Karim, che organizza militarmente la rivolta nei meandri del quartiere, sia di Abdel che tenta di penetrarvi per persuaderlo a non insistere nella protesta, sia il terzo dei fratelli sopravvissuti, Moktar, uno spacciatore che risulta equidistante perché interessato unicamente alla prosecuzione indisturbata dei propri affari ma di "importanza strategica" per i piani degli altri due. I ritmi sono frenetici, i toni a loro modo epici, la tensione allo spasimo, i colpi di scena a ripetizione ma, come in ogni tragedia che si rispetti, in tanto odio latente che scoppia quando saltano tutti gli schemi, compresi quelli dei rapporti famigliari, e la situazione è totalmente fuori controllo, finirà male per tutti e tre i fratelli rimasti (per non parlar del quarto, già cadavere, origine del tutto), ognuno dei quali ha combattuto per uno scopo: uno per il mantenimento di una sorta di status quo; un altro vendetta, ritenendo impossibile una giustizia; l'ultimo per i suoi interessi, ma che nulla possono contro il destino. Senza dubbio un film spettacolare e coinvolgente, che non ha mancato di far discutere, come se nelle intenzioni di Gavras vi fosse una sorta di inno alla violenza, mentre mi pare evidente che sia, da un lato la riproposizione di un dramma che esiste da quando lo hanno rappresentato gli antichi greci; dall'altro, un'immersione estremamente efficace in contesti più reali di quel che si vuol credere, o che si finge di non vedere, pronti a deflagrare da un momento all'altro. Grande abilità di ripresa, anche se l'utilizzo dei piani sequenza di cui sopra può rasentare l'abuso, ottime le prestazioni degli interpreti, potente la colonna sonora: un film che non può lasciare indifferenti. 

mercoledì 12 ottobre 2022

Everything Everywhere All At Once

"Everything Everywhere All At Once" di Dan Kwan e Daniel Sheinert. Con Michelle Yeoh, Stephanie Hsu, Ke Huy Quan, James Hong, Jamie Lee Curtis, Tallie Medel, Jenny Slate e altri. USA 2022 1/2

Presentato come una sorta di prodigio dalla critica militonta, un evento da iscrivere tra le vette più alte della nuova cinematografia ormai entrata nella gloriosa era del multiverso, il film dei due Daniels, Kwan e Sheinert, la cui origine di autori di videoclip appare in tutta evidenza lungo le quasi due ore e mezzo di proiezione, celebrerebbe la rivalsa della produzione indipendente nei confronti di quella "maggiore" come la Marvel coi suoi supereroi sul suo stesso terreno ma con mezzi più modesti: a mio parere questo vale anche per i risultati. Non per il minore impatto: quello che in altre mega produzioni viene ottenuto con costosi effetti speciali, qui si consegue facendo scorrere le immagini a velocità doppia o tripla, ossia "effetto Ridolini", ovvero ottundendo la capacità ricettiva dello spettatore con l'intendo di distrarne l'attenzione da una trama inconsistente e ridicola: Tutto, ovunque e allo stesso tempo suona la traduzione del titolo, insomma un pastrocchio colossale. Evelyn è un'americana di origini cinesi che gestisce in maniera caotica assieme al marito una lavanderia che ha problemi finanziari e sulla quale ha puntato l'attenzione l'occhiuta agenzia delle entrate locale: con lei vive il vecchio padre, che non spiccica una parola di inglese e la coppia ha una figlia, Joy,  invece completamente americanizzata, il cui rapporto omosessuale con la coetanea Becky Evelyn viene rimosso perché di fondo non accettato. Inetta in tutto, votata al fallimento, Evelyn viene scelta dall'alter-ego del marito, proveniente da una realtà parallela, proprio per questa caratteristica: non avendone una in cui eccella, è perfetta per assorbire quelle in cui invece primeggiano le varie Evelyn che vivono negli universi paralleli, e così, trovandosi nell'ufficio delle entrate dove si è recata per perorare la propria causa presso l'arcigna burocrate impersonata da una Jamie Lee Curtis resa quasi irriconoscibile, la nostra "eroina", interpretata dalla paraltro bravissima e pluriprermiata Michelle Yeoh, viene palleggiata come una pallina da flipper impazzita da un universo all'altro per salvare l'AlfaVerso in cui ha preso il potere Jobu Tobaki, già Alpha Joy, che altri non è che la "alfa" versione della figlia. Ritmi parossistici, commedia a tratti noir e a tratti fantasy con dosi massicce di kung fu, un omaggio al cinema di Hong Kong e un altro a quello americano anni Ottanta, il film vuole forse fare un ritratto ironico della condizione dei cinesi d'America, tirare frecciatine apparentemente iconosclaste e irriverenti qua e là ma in realtà prive di mordente e francamente puerili, ma quello che ormai è insopportabile è il continuo ed esasperato citazionismo cinéphile, con cui sarebbe ora piantarla per raccontare qualcosa di originale senza fare sempre riferimento a un passato più o meno autoriale, uno stucchevole strizzare l'occhio tra addetti ai lavori e pubblico che si ritiene consenziente che a forza di insistere ha rotto i coglioni. Se il film si fa sopportare, a fatica, fino alla fine, è solo perché c'è movimento (parossistico), ritmo e colore e si è pagato il biglietto, e perché ci si vuol rendere conto fino a che punto si è disposti a farsi prendere per il culo: una sorta di autopunizione, che si merita per esserci cascati. Se siete disposti a fare lo stesso, è un film da non perdere. Altrimenti meglio che aspettiate che passi in TV e metterlo a velocità tripla, tanto non cambia niente, e alla fine ve la cavereste con poco più di tre quarti d'or di visione. 

domenica 9 ottobre 2022

La notte del 12

"La notte del 12" (La nuit du 12) di Dominik Moll. Con Bastien Bouillon, Bouli Lanners,  Anouk Grinberg, Théo Cholbi, Johann Dionnet, Mouna Saoualem, Lula Contton-Frapier, Pauline Serieys e altri, Francia 2022 ★★★1/2

Di Dominik Moll, regista tedesco da tempo naturalizzato francese, avevo apprezzato il curioso, anomalo noir Only The Animals, apparso qualche mese fa in Italia, tre anni dopo la sua uscita in patria, e ora torna nelle sale con una tempistica più adeguata con questo film che, di nuovo, è un poliziesco sui generis, che ha al centro un caso non risolto (in Francia, secondo una statistica, il 20% degli omicidi lo è): ogni poliziotto ne ha uno, nell'arco della propria carriera, che lo tormenta diventando un'ossessione divorante, in questo caso per Yohan, appena nominato a capo della polizia giudiziaria di Grenoble, il quale non riesce a finire di festeggiare il pensionamento del predecessore nonché la propria nomina assieme ai suoi colleghi che gli tocca dirigere le indagini sulla misteriosa morte di Clara, una ragazza poco più che ventenne assalita e bruciata viva mentre stava rientrando a casa in un paesino di montagna, reduce da una festa organizzata dalla sua più cara amica e coetanea, Stéphanie. E' dall'interrogatorio di quest'ultima che parte l'inchiesta, che il film segue passo per passo, anche perché aveva ricevuto sul proprio cellulare un ultimo video messaggio da parte di Clara poco prima della sua morte, cui ne seguono altri di tutte le persone che, man mano, si scoprono aver frequentato la ragazza, che risulta aver avuto "anche" una vita sessuale attiva e variegata, oltre a essere stata una sportiva, che però, secondo i canoni non solo maschilisti (il film è stato definito "femminista" per questo) e bacchettoni, ma semplicemente improntati al luogo comune, la rendono in qualche modo responsabile della propria stessa morte, mentre Clara aveva semplicemente voglia di vivere e, perché no, sperimentare. Conscia di questi pregiudizi, Stéphanie dapprima è reticente a riferire dettagli sulla vita e le frequentazioni della sua amica, ma poi si apre rendendosi conto che Yohan ha un punto di vista differente dai suoi colleghi, per la maggior parte dei quali vale l'equazione giovane disinvolta=se l'è cercata. In particolare Yohan deve frenare l'impeto di Marceau (il bravissimo Boulin Lanners), collega e soprattutto amico, che sembra prendere il caso come un fatto personale e un modo di vendicarsi della moglie che lo ha tradito, tanto che il neo capitano lo convince a lasciare la polizia e trasferirsi altrove prima che faccia danni e si cacci nei guai lui stesso. Gli interrogatori del vari tipi, in realtà uno più ambiguo e spesso spregevole dell'altro, per la maggior parte maschi, ne fruga la grettezza nonché gli aspetti sordidi di una in apparenza tranquilla cittadina di provincia; a un certo punto pare che i sospetti si addensino su un giovane che però risulta essere un mitomane e per di più in cura per problemi psichiatrici e ricoverato in una struttura al tempo del delitto: un alibi di ferro,  insomma la polizia, come su suol dire, brancola nel buio. A sostituire Marceau arriva una collega donna, che contribuisce ad avere dell'assassinio un punto di vista diverso da quello scontato e prevalente, come del resto il suo capo, un uomo giovane e introverso, sensibile, senza vita privata, che si rifiuta di adagiarsi nel luogo comune, ben conscio che non solo gran parte degli omicidi di questo genere sono compiuti da maschi, ma che chi deve scoprirne il colpevole è a sua volta quasi sempre maschio e comunque ne adotta gli schemi mentali. Un anno dopo i fatti, un nuovo giudice istruttore donna convoca Yohan e, studiando i fascicoli ricevuti in eredità, decide di riaprire il caso e lo convince a riprendere le indagini e a tentare di far cedere in trappola l'assassino in occasione dell'anniversario dell'omicidio di Clara, ma invano anche questa volta perché il suo autore rimarrà ignoto (in realtà avrebbe potuto essere chiunque dei personaggi indagati, compresa una donna, a mio modo di vedere la sospetta principale): l'unico testimone risulterà essere un gatto, che però non sa parlare... Film strano, sospeso, inquietante, ma profondo, molto ben girato e recitato: Dominik Moll è decisamente un regista originale, che merita di essere seguito con attenzione. 

mercoledì 5 ottobre 2022

Omicidio nel West End

"Omicidio nel West End" (See How They Run) di Tom George. Con Sam Rockwell, Saoirse Ronan, Adrien Brody, Ruth Wilson, Reece Shearsmith, Harris Dickinson, David Oyewolo, Shirley Henderson, Sian Clifford, Pippa Bernett-Warner e altri. USA 2022 ★★+

Che si tratti di un gioco, un divertissement cinematografico-letterario citazionista a oltranza ce ne si accorge fin da quando appare sullo schermo il cartellone del teatro londinese dove, nell'inverno del 1953, si festeggiava la centesima rappresentazione di Trappola per topi di Agatha Christie (ve ne sarebbero state infinite altre: la più lunga serie ininterrotta fino al lockdown da pandemia del 2020, fra l'Ambassador's e il St Martin Theatre, entrambi nel West end londinese): durante il relativo ricevimento, viene assassinato dietro le quinte Leo Köpernick, un regista americano che vorrebbe farne l'adattamento cinematografico, cosa che qualcuno non gradisce e il suo cadavere viene esposto in scena. A impersonarlo è Adrien Brody, che da "Morto" fa la voce narrante; e già da qui si ha l'impressione di assistere a un film di Wes Anderson (vedi Grand Hotel Budapest) senza però lui a dirigere le operazioni, ma Tom George, esordiente nel lungometraggio e proveniente dalle serie TV e si vede, a cominciare dall'utilizzo indiscriminato dello schermo diviso e del flash back. Come non bastassero gli intorcolati e improbabili intrecci della Christie, a cui il film vuole rendere seppure ironicamente omaggio (visto un giallo, visti tutti è una delle battute che ritorna) a fare da base, abbiamo il mondo del cinema con i suoi tormentoni (i battibecchi tra registi, sceneggiatori e produttori) che si inserisce in quello del teatro con i suoi, e i relativi luoghi comuni: le checche isteriche, gli attori egolatri, le rivalità, gli intrecci di corna, le gelosie, l'avidità (tutte cose già viste, e mi torna alla mente un altro capolavoro inarrivabile: Birdman); infine le indagini vere e proprie affidate alla solita vista e rivista scombinata e improbabile coppia di poliziotti, ovviamente di Scoltand Yard, una sorta di Gianni e Pinotto di sesso diverso: il disilluso e alcolizzato ispettore Stoppard e la petulante agente e aspirante sergente che l'assiste, Stalker (un nome, un programma), interpretati rispettivamente da Sam Rockwell e Saoirse Ronan, entrambi bravissimi, come del resto tutto gli altri componenti del cast. Che hanno se non altro tutti l'aria di essersi divertirsi un sacco durante le riprese, e se si prende il film come un gioco, che per fortuna dura (relativamente) poco, un'ora e mezzo e spiccioli, ci sono buone probabilità che il buonumore contagi anche il pubblico in sala, almeno quello che ama i "gialli" dell'autrice inglese (non è il mio caso), gli ammiccamenti, i giochi di parole scontati e le trame inutilmente intricate e sconclusionate: poco dopo essere uscito dal cinema avevo già dimenticato chi fosse l'assassino (come in ogni lavoro della Christie avrebbe potuto essere qualsiasi dei personaggi, a cominciare dal maggiordomo, tanto per rimanere ai luoghi comuni). Insomma, se l'intento affettuosamente parodistico è evidente quanto dichiarato, la sua riuscita mi sembra francamente discutibile anche se il film si fa vedere. 

domenica 2 ottobre 2022

Il signore delle formiche

"Il signore delle formiche" di Gianni Amelio. Con Luigi Lo Cascio, Elio Germano, Leonardo Maltese, Sara Serraiocco, Anna Caterina Antonacci, Rita Bosello, Dabide  Vecchi, Maria Caleffi, Valerio Binasco, Alberto Cracco e altri. Italia 2022 ★★★

Grande merito dell'ultimo film di Amelio, presentato in concorso alla recente Mostra del Cinema di Venezia, è di aver riportato alla memoria dei più anziani, e conoscere ai più giovani, la vicenda di Aldo Braibanti, già partigiano, comunista (critico), drammaturgo e poeta, nonché appassionato studioso di formiche (ossia mirmecologo, da qui il titolo) e in particolare del loro comportamento sociale, che nel 1968 venne condannato a 9 anni di reclusione (14 ne aveva chiesti il PM), poi ridotti a 4 in appello per plagio nei confronti di un giovane: era la prima volta che questo reato ereditato dal Codice Rocco, e mal configurato, veniva applicato. Surrettiziamente: perché l'accusa di avere subornato la mente di un giovane (Ettore, peraltro maggiorenne) celava in realtà lo scopo di condannare l'omosessualità, peraltro orgogliosamente rivendicata, del Braibanti e la sua condotta immorale. Oltre a questo pregio principale, ha quello ulteriore di fornire un quadro piuttosto fedele dell'Italia di quegli anni, anche attraverso personaggi di contorno quali il giornalista dell'Unità Ennio (Elio Germano), la sua cugina attivista e il suo compagno, avvocato comunista: rendono bene l'atmosfera di quella fase di passaggio, in cui la conquista dei diritti civili entrò a fare parte, a fatica, del dibattito politico. I fatti "incriminanti" sarebbero avvenuti a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta quando, al Torrione Farnese di Castell'Arquato, Braibanti era stato attivo nel ruolo di animatore di un laboratorio culturale molto vivace che coinvolse un buon numero di giovani tra cui, per l'appunto, Ettore, che per volere della famiglia si era messo a studiare medicina invece di seguire la sua passione per il disegno: Braibanti si limitò a incoraggiarlo a coltivare il suo talento, oltre a stringere con lui un rapporto intenso. Il film inizia con la scena del sequestro del ragazzo da parte del fratello e della madre nella pensione romana in cui erano ospitati lui e il Braibanti nel 1962, con successivo ricovero del giovane in una clinica psichiatrica privata dove venne costretto a essere "curato" dall'omosessualità, con l'uso ripetuto, oltre agli psicofarmaci, dell'elettroshock, per poi raccontare in flash-back come avevano cominciato a frequentarsi e l'opposizione della famiglia e in particolare la madre, una cattolica particolarmente retriva, e del fratello, che peraltro frequentava pure lui il centro culturale ma soffriva del fatto che il Braibanti non lo tenesse in particolare considerazione. La seconda parte del film, invece, racconta lo svolgimento del processo che si tenne a Roma, la volontà persecutoria dell'accusa, l'ottusità perbenista e bigotta non solo dei giudici e della stampa in generale ma perfino di molta parte del suo stesso partito, il PCI. Tra le eccezioni Ennio, il sempre ottimo Elio Germano, nei panni del giornalista dell'Unità incaricato di seguire il caso, che cerca di convincere il Braibanti a cambiare l'atteggiamento scostante che teneva in aula, dove volgeva le spalle ai giudici e si rifiutava di rispondere alle (capziose e prevenute) domande del presidente della corte: quell'arrogante aria di superiorità intellettuale che rende insopportabili e odiosi tanti intellettuali sedicenti di sinistra anche oggi. Fuori dal Palazzaccio, intanto, cresce il movimento di protesta animato dai radicali di Pannella in appoggio al Braibanti, in una battaglia contro l'oscurantismo che sarebbe culminato negli anni successivi con l'approvazione delle legge sul divorzio nel 1970 e la vittoria del referendum sulla sua abrogazione nel 1974. Tutto funziona, a cominciare dal Braibanti non particolarmente empatico interpretato da Luigi Lo Cascio; particolarmente coinvolgente la testimonianza di Ettore, nonostante le sue precarie condizioni di salute, a sua volta ottimamente impersonato dall'esordiente Leonardo Maltese, non fosse per un eccesso di didascalismo, e quella che trovo una forzatura: il cameo di Emma Bonino versione 2022, con tanto di turbante, in una scena del sit-in davanti al Palazzo di Giustizia, quando in realtà non era presente nell'occasione. Lo era invece era Marco Pannella con i suoi: sarebbe stato più corretto, a mio avviso, cercare qualcuno che gli somigliasse per farne la controfigura. Insomma, buone le intenzioni, coretto il racconto, ma nell'insieme non del tutto convincente.