martedì 28 febbraio 2012

Serendipity


UNAWATUNA - Serendib fu il nome in arabo, persiano e urdu per Sri Lanka (dal sanscrito: isola splendente), Taprobane quello dato dai greci e Ceilão dai portoghesi, da cui il Ceylon adottato da olandesi e inglesi, per denominare questa isola a forma di goccia (o di pera) situata appena a Sud-Est della punta meridionale del Subcontinente Indiano, e serendipity è un termine che indica la sensazione che si prova quando ci si imbatte in una cosa non cercata e imprevista mentre se ne sta cercando un’altra o, semplicemente, per caso: insomma una piacevole sorpresa, un felice accidente. Questa è stata per me Unawatuna e credo sia la prima volta dalla mia prima adolescenza che soggiorno, senza averlo peraltro minimamente programmato, in un luogo che si può definire di villeggiatura, al mare, per tre settimane di fila. Non un "colpo di fulmine", ma la sensazione, sin dal primo momento di essere a proprio agio, e di adeguarsi, senza nemmeno accorgersene, al placido ritmo di questo paesino sulla costa meridionale, pochi chilometri a Est di Galle, che conta meno di un migliaio di abitanti. Gentili, sorridenti, per nulla invadenti, che vivono prevalentemente di turismo ma non per questo vedono lo straniero come un pollo da spennare: la seconda volta che ti incrociano ti salutano già come se fossi uno del luogo, e come tale uno ci si sente, se è nello spirito giusto. Alcuni stranieri (due gemelli gallesi, un inglese, tutti sulla cinquantina) hanno messo su famiglia qui e conducono delle guesthouse con ristorante, e sempre turisti che avevano soggiornato qui ed erano rimasti affezionati al luogo, prevalentemente europei, anche dell'Est, hanno dato una grossa mano a risollevare le sorti di Unawatuna dopo il disastroso tsunami del 26 dicembre 2004 che si abbattè su due terzi delle coste dell'isola, devastando in particolare la costa sud-occidentale. Nella sola Unawatuna, ci furono 60 morti, di cui 10 stranieri. Pesca, artigianato e agricoltura le attività di contorno senza concessioni a un turismo di tipo predatorio o da villaggio turistico: si resta soltanto se ci si adatta a quel che passa il convento, che è più che sufficiente per persone che non hanno per modello una vacanza né riminesca, né tipo Ibiza e meno che mai "Sharm". A differenza di ogni altra località balneare che abbia visto nel Sud Est Asiatico, qui la spiaggia è vissuta anche dai locali, a cominciare dal pomeriggio quando  ragazze e ragazzi, rigorosamente in divisa, escono da scuola, e soprattutto al tramonto. Non è un'esclusiva degli ospiti, e non hanno con l'acqua il rapporto puramente funzionale di thailandesi, vietmaniti, cinesi, malesi, ma anche ludico: ci nuotano, giocano, si divertono. Una motivo in più per non sentirsi degli estranei, ma integrati a pieno titolo nella comunità. Ed è una sensazione che dà calore e un senso di pace. Per questo Unawatuna è un posto che rimane nel cuore di chi ci è stato. 


sabato 25 febbraio 2012

A sua immagine e somiglianza

Giustizia di merda in un Paese di merda: questo è diventato dopo 17 anni di "Cura Berlusconi". D'altra parte le leggi per non farsi giudicare le ha fatte lui. Con la compiacenza di quasi tutto l'arco parlamentare. Come ha detto il PM De Pasquale dopo la sentenza sul processo Mills: "Inutile commentare". Ricordare, no.

mercoledì 22 febbraio 2012

Il più amato dagli italiani

Dolce mi giunge la voce, anche a qualche migliaio di chilometri di distanza (grazie ai potenti mezzi moderni) dei pastori sardi, degli indipendentisti e di altri cittadini libero-pensanti dell'isola, e la sequela di improperi, confortati dalle immagini, che hanno accolto come si merita il peggior presidente che la Repubblica Italiana abbia mai avuto, in confronto al quale perfino Antonio Segni, complice di un tentativo di golpe da operetta nel '64 (Caso Sifar/De Lorenzo), Gronchi e Leone erano dei galantuomini. "Buffone", "Non ti vogliamo", "Servo dei banchieri": così è stato apostrofato Giorgio Napolitano, alla sua prima vista ufficiale in Sardegna dopo 6 anni di presidenza (cara grazia!), lunedì a Cagliari e ieri a Sassari. Mi sono sempre sentito in particolare sintonia con su populu sardu, che ha molti tratti in comune con quello della Piciule Patrje dal Friûl, tra cui diverse affinità linguistiche, caratteriali e la propensione a parlar chiaro e dire le cose con schiettezza. Sardegna, ti amo. Grazie!

domenica 19 febbraio 2012

Il cuoco zen

Naturalmente le svariate erbe che usa le coltiva personalmente nel suo curatissimo giardino, la sua casa con veranda dove ospita il ristorante e la dépéndance dove affitta alcune camere sono deliziose e delle vere oasi di pace dove ci si siede a parlare di filosofia o di qualsiasi altro argomento che valga la pena, i libri non mancano: appena ha saputo che sono italiano mi ha chiesto se conoscevo Tiziano Terzani: "Un indovino mi disse" è uno dei suoi libri preferiti, e anche miei. Non manca nemmeno una connessione internet veloce, e va da sé che Jina si dedica alla meditazione buddhista, allo yoga ed è un uomo saggio. E quello che esce dalle sue mani è sempre delizioso e una gioia per il palato. Jina è qui. E io pure. Namasté. 

giovedì 16 febbraio 2012

Tra lusitani e batavi a Galle



GALLE - Dopo Colombo Jaffna e Kandy, Galle, coi suoi 90 mila abitanti, è la quarta città più popolata dello Sri Lanka ed è la porta d’entrata della splendida costa meridionale del Paese. Alcuni sostengono che si trattasse dell’antica città di Tarshish, luogo biblico legato alle vicende di re Salomone, mentre per altri si trattava di un porto spagnolo: di sicuro divenne un centro di primaria importanza con l’arrivo dei portoghesi, una cui flotta finì fuori rotta e si rifugiò nel porto nel 1505. Nel 1588 vi costruirono un piccolo forte con terrapieni e palizzate di legno, chiamato Santa Cruz, per difendere le loro basi dagli attacchi del regno di Kandy, ampliandolo poi con mura e tre bastioni limitandolo al lato terra, verso Nord, da cui provenivano le incursioni. Dopo che Galle fu conquistata dagli olandesi, nel 1640, questi decisero di cintare tutta la penisola che tuttora racchiude la città vecchia, e che sorge su un’area di circa 52 ettari, anche verso il mare, per difendere il porto da altre potenze coloniali concorrenti, così ampliarono e irrobustirono le vecchie fortificazioni portoghesi con pietra corallifera e granito costruendo 14 bastioni, dotati di due porte d’entrata: il Main Gate e l’Old Gate.

Dal 1988 il Fort è stato inserito nella lista dei siti patrimonio dell’umanità stilato dall’UNESCO, a pieno diritto perché è una testimonianza rimasta praticamente intatta, e ben conservata, dell’epoca: edifici coloniali olandesi, tra cui la bellissima chiesa riformata, moschee, templi, per un totale di oltre 400. Anche se da tempo l’attività portuale è secondaria, rimane un vivace centro commerciale e vi abita una nutrita comunità di artisti, locali e stranieri, una città autentica e non solo un mausoleo. Immediatamente mi ha ricordato Olinda e alcuni tratti di Salvador, in Brasile, altro Paese in cui lusitani e batavi si sono scontrati sovrapposti quando ancora nelle isole britanniche si scannavano tra di loro indecisi tra repubblica e monarchia e prima che fossero unite un regno; più vicino, i destini di portoghesi e olandesi si sono incrociati in India, Indonesia, in Malesia e in Vietnam, e qui mi sono venute in mente Malacca e Hoi An. 

L’atmosfera che si respira a Galle è simile, e in tutti i casi sono luoghi che per posizione, clima, storia hanno in comune un particolare magnetismo, che conferisce loro una vitalità particolare che le rende senza tempo. Vi ci si perde con piacere, e avendo la mia base a pochi chilometri da qui vi sono già tornato due volte, perdendomici volentieri. A parte le passeggiate sui bastoni, c’è un notevole Museo Marittimo, rinnovato di recente con l’appoggio del governo olandese, un discreto Museo Nazionale, ma il massimo è “Historical Mansion”, non un vero museo, anche se si definisce tale, che in una vecchia magione olandese ottimamente restaurata contiene un’inverosimile raccolta di oggetti coloniali tra i più disparati, dalle macchine per scrivere a quelle fotografiche, vecchi grammofoni e dischi d’epoca, porcellane, vetri, ceramiche, telefoni, riviste: un autentico trionfo per chi ha l’animo del rigattiere, un’accozzaglia di deliziose cianfrusaglie che difficilmente credo di aver visto tutte insieme. Fosse solo per questo, non mancherò di tornarci per una terza visita; inoltre, a Galle ci sono ottimi caffè e ristoranti in cui gustare a poco prezzo l’ottima e speziata cucina locale, che provvede a dare un tocco in più. 

domenica 12 febbraio 2012

Tempo sospeso


Lanka bus

Unawatuna - I 106 chilometri che separano che separano Colombo da Galle, lungo la strada costiera che porta a Sud, si percorrono in tre ore e un quarto, quando va bene: il problema principale consiste nel partire. Il caos è totale perché a Colombo esistono tre stazioni di bus, tutte piuttosto centrali, completamente disorganizzate, da dove i mezzi partono a getto continuo per tutte le località del Paese: raccapezzarcisi è impossibile, nessuna scritta o numero è in caratteri latini, ma si rimedia affidandosi ai guidatori di tuc-tuc o di taxi che vi ci portano i quali si industriano di capire dove è situato il marciapiede di partenza per la destinazione desiderata: una volta trovato posto sul bus, il più è fatto e nell’arco di un quarto d’ora al massimo si parte. L’altra opzione è il treno, meno frequente e più caro rispetto alle 115 rupie pagate per la tratta (circa 80 € euro cent). La prima ora è un attraversamento della capitale e relativi suburbi, che confermano la sensazione di squallore di cui al post precedente, ma la situazione migliora nettamente quando si esce dalla città e si comincia e vedere l’Oceano. Si incontrano prima Beruwela e poi Bentota, divenute tra le principali mete per i viaggi organizzati: dotate di barriera corallina, permettono una balnezione tranquilla in ogni periodo dell’anno. Segue Hikkaduwa, che è stata per anni la località balneare per eccellenza del Paese, scoperta dai “freak” nei primi anni Settanta: a parte uno sviluppo incontrollato, insopportabile è che venga attraversata dalla statale Colombo-Galle, il cui traffico parossistico rende pericoloso anche attraversarla, oltre a impestare l’aria di esalazioni mefitiche. Una volta arrivati a Galle, dominata dal Fort, esteso per 36 ettari, costruito dagli olandesi nel 1663 e che come a Colombo occupa il vecchio centro cittadino (sito dichiarato Patrimonio dell’’Umanità dall’UNESCO), la situazione cambia, perché il primo angolo di paradiso della costa Sud si trova a circa 5 chilometri: Unatawuna, che si trova defilata rispetto alla strada principale. Ci si arriva con un tuc-tuc dalla stazione dei bus di Galle e si entra in un’altra dimensione. Circa due chilometri di spiaggia disposta a mezzaluna, protetta dalla barriera corallina, un paio di isolotti in mezzo. Una ventina di discrete guesthouse, qualche ristorante, qualche bottega e basta. Non serve altro per perdere con piacere la nozione del tempo, calarsi immediatamente nell’atmosfera locale con una capacità di adattamento immediata, il che fa pensare che altri ritmi sono possibili, anzi: sono quelli più connaturati alla propria dimensione. Si ha la meravigliosa sensazione di non avvertire alcun affanno, alcuna urgenza, meno che mai quella di programmare “la prossima mossa”, neanche quella di prendere in mano la mappa dello Sri Lanka e valutare quella che potrebbe essere la tappa successiva: non se ne sente la necessità perché non manca niente. Ci si abbandona al ritmo che viene spontaneo, perdendo di vista l’orologio e valutando l’ora all’incirca, a seconda della posizione del sole. Che più o meno alle 18 tramonta, assicurando 12 ore di tregua da dedicare al riposo, un relax in forma diversa. Al chiaro di luna. Io intanto mi fermo qui. Perché, come diceva Sandro Pertini, hic manebimus optime.
La spiaggia di Unawatuna

giovedì 9 febbraio 2012

Colombo: due giorni e non di più

Colombo a... volo d'uccello
Due giorni, di cui uno trascorso cercando di recuperare del sonno perduto durante gli spostamenti più recenti, bastano e avanzano da dedicare a Colombo, capitale dello Sri Lanka, a meno di non essere qui per motivi di lavoro oppure affetti da qualche particolare perversione o scompenso emotivo. Si salvano tre cose: l'aeroporto internazionale Bandaranaike, che a rigore si trova 30 chilometri a Nord della città (almeno un'ora di tragitto), moderno, pulito, funzionale; l'albergo che ho scelto più o meno alla cieca in rete, in stile coloniale, con tanto di camere spaziose, che danno su un patio interno così come anche una veranda che funge da ristorante (più che soddisfacente, e ottimo il servizio); infine il Museo Nazionale. Naturalmente anche la gente, che è educata, gentile e disponibile. Pure il traffico, per quanto intenso e causa primaria di un'aria urticante per laringe, faringe e occhi, è paradisiaco rispetto a quello di una qualsiasi città indiana (il termine di paragone in ogni senso più vicino), anche perché qui chi guida non passa il tempo azionando il clacson e sorridendo e dondolando soddisfatto la testa. Il resto è deprimente. L'area del vecchio "Fort", come tale usato dagli occupanti portoghesi, olandesi e infine inglesi, è un insieme incoerente di nuovissimi edifici moderni, quali il World Trade Center e l'immancabile Hilton, e vecchie costruzioni coloniali in lento ma sicuro decadimento, in buona parte militarizzata e inaccessibile: sarebbe il centro storico della città. Attaccato, verso l'interno, si sviluppa Pettah, il quartiere commerciale e quindi multietnico per definizione: non vi ho avvertito alcuna particolare tensione. E' un reticolo di viuzze colme di botteghe di ogni genere, trafficato all'inverosimile, dove si trova di tutto. Tra cui anche il "Dutch Period Museum", interessante più che altro perché è lo stesso storico edificio che ospitò la residenza del governatore olandese nel XVII secolo, e un coloratissimo e fantasmagorico tempio induista. Nei pressi, anche la stazione ferroviaria centrale, chiamata del "Fort". Il resto della città è un'enorme periferia che si estende in parte all'interno, in parte verso Nord oltre il porto ma prevalentemente verso Sud, per una dozzina di chilometri. Ovviamente, come in ogni capitale che si rispetti, esistono anche a Colombo zone più chic, dove fervono le attività finanziarie e commerciali globalizzate, come Kollupitiya, appena a Sud del "Fort", o residenziali di lusso come Cinnamon Gardens (a proposito: ci sono ancora alberi di cannella in città, ma non ne ho potuto apprezzarne l'eventuale profumo per via dell'aria fetida), dove non a caso si trovano il Museo Nazionale, quello attiguo di Scienze Naturali e l'unico vero parco della città, abitati da coloro che governano il Paese (vi hanno anche sede le diverse ambasciate, compresa quella della Terra dei Cachi pagata dai contribuenti italiani) e da quelli che fanno lavorare a proprio vantaggio il prossimo (loro lo chiamano offrire opportunità di lavoro o di crescita). Naturalmente tutte le lussuose residenze sono sottoposte a stretta videosorveglianza nonché intensivo pattugliamento di polizia e guardie private. E come in tutto il mondo i figli di puttana che vivono internati nelle loro fortezze come i capibastone mafiosi, quando ne escono circolano esclusivamente a bordo di SUV, e  quanto più grandi sono i figli di puttana tanto più ingombranti sono questi veicoli orripilanti e inutili, possibilmente neri e con i vetri oscurati (quelli coi cristalli specchiati sono esclusiva dei russi, i più cafoni al mondo, e dei narcos messicani). Scendendo la costa verso Sud, si susseguono altri quartieri che hanno l'aspetto, quando va bene, di Lignano Sabbiadoro d'inverno ma con un traffico agostano, fino a giungere alla decrepita località balneare di Mount Lavinia, che avrà anche vissuto tempi migliori ma che gli inglesi, in uno dei loro rari ma dirompenti lampi di idiozia acuta, hanno pensato bene di deturpare dall'inizio facendo correre i due binari della ferrovia direttamente sugli scogli. Tutta la passeggiata a mare, degna dei paesoni di camorra del Litorale Domizio, è costituita infatti da un marciapiede largo sì e no un metro che fiancheggia i binari sul lato mare e un orrido vialone dall'altro. Una cosa indecente. Non a caso la via commerciale che inizia da Nord come Galle Road, appena dopo il "Fort", per cambiare nome procedendo verso Sud, corre parallela a un centinaio di metri, giusto per impedire opportunamente la sconcezza della "vista a mare". Colombo è una città squallida, più che brutta. Trascurata forse perché ha poco da dire e da offrire, salvo probabilmente occasioni di lavoro (e sfruttamento) per chi è venuto ad abitare in un posto simile. Forse vi si riflettono ancora le lacerazioni di una lunga e sanguinosa guerra civile che si è conclusa nemmeno tre anni fa, nel maggio del 2009, che però si è svolta lontano da qui, nel Nord Est dell'isola abitato dai Tamil, anche se Colombo è stata oggetto di attentati clamorosi e sanguinari. A suo modo però è una città viva, anche se molto difficile da apprezzare. 
Lungomare con rotaia

lunedì 6 febbraio 2012

Il Myanmar, a una possibile svolta



Yangon – Quattro settimane trascorse nel Myanmar, lungo un itinerario classico e procedendo senza fretta, non sono certo sufficienti per conoscere un Paese, a maggior ragione complesso come questo e con l’ostacolo della lingua, ma sufficienti per farsene un’idea, suscitare delle sensazioni e perfino spingersi a fare alcune previsioni. Da 50 anni esatti il Myanmar vive sotto la cappa di un regime militare che non ha esitato a usare metodi brutali per reprimere le manifestazioni di dissenso, che pure ci sono state, a ondate, come nel 1974, nel 1988 e, più di recente, nel settembre del 2007 quando arrivò a usare violenza contro le decine di migliaia di monaci che in tutto il Paese avevano guidato la protesta, alienandosi definitivamente ogni possibile residuo di rispetto da parte di una popolazione che vede nei clero buddhista l’unica vera autorità riconosciuta. Della situazione si è venuto a sapere, e qualcuno ha cominciato a interessarsene, dopo il conferimento del premio Nobel per la pace ad Aung San Suu Kyi nel 1991. Questa donna, dall’aspetto dolce e  fragile ma dotata di una determinazione e coerenza d’acciaio, è da più di vent’anni la spina nel fianco della giunta, da quando, dopo i moti dell’88, attorno a lei l’opposizione si è coagulata nella NLD  (Lega nazionale per la democrazia), partito che ottenne alle elezioni del 1990 qualcosa come 392 dei 485 seggi disponibili in Parlamento e ai cui deputati fu impedito di assumere la carica. Figlia del generale Bogyoke Aung San, che guidò la Birmania all’indipendenza dagli inglesi, ottenuta nel 1947, ed è considerato un eroe nonché padre della patria dagli stessi militari (fu ucciso pochi mesi dopo a soli 32 anni in un complotto probabilmente organizzato dagli stessi perché intendeva smilitarizzare il governo al più presto),  e chiamata perlopiù semplicemente The Lady, la sua immagine, assieme a quella del padre, campeggia in quasi tutte le case e botteghe del Paese, così come nelle beer station e nelle sale da tè, spesso su calendari: una specie di santino laico, o di nat protettivo, un po’ come accadeva nella ex Jugoslavia col ritratto di Tito, che era riuscito a tenere insieme un Paese che si sarebbe disgregato, alla sua morte, in preda alla demenza etnica e separatista (ed ecco un altro aspetto in comune con la Birmania e i suoi conflitti con le minoranze, in buona parte indotti proprio dal regime militare). In ogni caso, la stima e l’affetto di cui è circondata Aung San Suu Kyi non hanno nulla a che fare con una cieca devozione da parte di fedeli acriticamentemente adoranti, ma sono ancor più commoventi per come sono autentici. Le recenti aperture da parte della giunta, simboleggiate della visita del segretario di Stato USA Hillary Clinton avvenuta qualche mese fa; la maggiore integrazione del Paese nell’ASEAN; la stessa estensione del visto turistico a 28 giorni (erano 14 l’ultima volta che avevo provato, inutilmente, a ottenerlo, qualche anno fa) hanno contribuito a rasserenare il clima e a prima vista non si direbbe che il Paese sia governato da una dittatura, anche perché, come ho già notato, la gente (e non solo i monaci) tende a parlare di politica, lo fa volentieri e non ha alcuna remora a dicuterne anche con gli stranieri. Poi ci si accorge di alcuni particolari: le stazioni di polizia, soprattutto a Yangon, sono circondate, a protezione, da sacchetti di sabbia, filo spinato e cavalli di frisia; le caserme e basi militari protette da occhi indiscreti e ove possibile mimetizzate: lungo il percorso della Circle Line ne avevo notate parecchie nella cinta esterna della città, e il primo pensiero era stato di gente asserragliata, pronta a decretare e mettere in atto uno stato d’assedio perché si sente a sua volta sotto assedio da parte di una popolazione che la ignora e cerca di vivere come se non esistesse, e che nutre disprezzo non tanto per l’esercito in sé quanto per chi ne è a capo. Un esempio lampante l’ho avuto a Mandalay, dove nel pieno centro della città, circondata da un fossato lungo 2 chilometri per lato, si erge la fortezza circondata da mura del Mandalay Palace, ricostruita negli anni Novanta utilizzando il lavoro forzato dei detenuti, spesso politici. Su una delle quattro entrate campeggia un cartello con la scritta: “Il Tatmadaw (l’esercito) è sempre stato e sempre sarà al servizio del popolo birmano”. Il Mandalay Palace non lo visita nessuno, a parte i gruppi di turisti dei viaggi organizzati (da agenzie controllate dal governo). La gente ci passa davanti e lo ignora. Se si chiede com’è, ne sconsiglia la visita, specificando il perché. In quattro settimane, oltre ai 25 € per il visto, ho calcolato di essermi limitato a versare nelle tasse statali al massimo 50 dollari USA, tra ingressi ad aree archeologiche e musei e compresi due viaggi in battello con compagnie pubbliche (quantomeno il prezzo del biglietto è destinato in parte a coprire lo stipendio degli addetti), incoraggiato e indotto dagli stessi locali, prodighi di consigli su come evitare le gabelle, e dal personale stesso, che spesso evita di controllare i biglietti. Un regime, per quanto brutale, non può sopravvivere in eterno circondato da un discredito così generalizzato, e gli scricchiolii si percepiscono eccome. Sembra che sia intenzionato a consentire finalmente delle elezioni regolari il prossimo aprile: foto della “Lady” e il simbolo della NLD nel frattempo si moltiplicano. E il Paese non può rimanere isolato, e difatti lo è sempre di meno: quantomeno il corridoio verso la Cina è sempre più aperto, e non soltanto alle merci. A questo proposito, negli ultimi anni ho notato un numero sempre crescente di giovani cinesi (e sudcoreani), appartenenti a quella che si può definire “generazione internet”, viaggiare, cominciando naturalmente dai Paesi più vicini, come per l’appunto il Myanmar, e farlo alla maniera dei loro omologhi occidentali, anche se in modo più timido e impacciato. Ragazzi normali, non i figli degli alti papaveri di partito o dei dirigenti delle imprese turbocapitaliste, che sono di casa nelle migliori università USA ed europee: giovani che si aprono al mondo, curiosi di conoscere situazioni diverse da quelle in cui si trovano a vivere, e come già da tempo fanno quelli giapponesi. A differenza dei loro coetanei russi o indiani. E qui vengo al contributo che a uno sbocco positivo delle aperture che si intravedono in questa fase politica, e allo sviluppo in generale del Myanmar, possono dare i Paesi che hanno i maggiori contatti commerciali, e non solo, con esso. Come avevo già accennato, a essere decisiva è la Cina. Il Myanmar è un Paese ricco. Potenzialmente è un esportatore netto, autosufficiente dal punto di vista alimentare, che abbonda di materie prime ambite, comprese le fonti energetiche. Un Paese ricco che vive in povertà; con una immensa dignità, l’arretratezza a cui l’ha costretto una classe dirigente ingorda, paranoica e irrimediabilmente stupida. E anche un Paese terribilmente arretrato a livello di infrastrutture, se si pensa alla rete stradale, a quella idrica, a quella delle telecomunicazioni (funziona meglio la neonata rete mobile  che quella fissa). Stando così le cose, la Russia, che è potenziale concorrente del Myanmar per quanto riguarda l’export di gas e petrolio, non ha niente da offrire, se non armi; l’India forse nel campo delle  telecomunicazioni: ma sconta la diffidenza e la scarsa simpatia che gli indiani, visti come trafficatori inaffidabili e spesso truffaldini, suscitano nella popolazione. Non che i thailandesi  (nemici storici dei birmani) e i cinesi, che sono i maggiori investitori nel Paese, siano particolarmente amati, ma certamente sono considerati più affidabili ed efficienti, soprattutto i figli del Celeste Impero, che a mio parere hanno l’asso nella manica ora che il Myanmar non è più uno Stato socialista. Perché, dal 1964 al 1988, ha seguito anche questa utopia, che la storia ha dimostrato non percorribile (e la cosa non mi stupisce, dato che prende il via dalle medesime premesse del sistema che vorrebbe contestare e che, a mio parere, è entrato a sua volta in una crisi irreversibile: quello capitalista, in preda a un’agonia che durerà ancora a lungo, almeno svariati decenni, salvo un collasso improvviso e attualmente non prevedibile a breve termine ma a mio parere pienamente in atto) e in seguito ha provato a seguire lo schema cinese. Con esiti penosi. Perché la Cina è il più grande mercato, sempre meno potenziale e più effettivo, al mondo, nella duplice veste di cliente e di venditore, e questo in un sistema globalizzato: pur di farci affari insieme, anche chi si autoproclama portatore di valori a suo dire universali, passa allegramente sopra ogni questione etico-politica, sempre ammesso e non concesso che i Paesi occidentali, a cominciare dagli USA, abbiano alcunché da insegnare a chicchessia. La Birmania non è certo in queste condizioni, tanto è vero che da essi è oggetto di un embargo piuttosto stretto. E mentre in Cina è stato il governo, nelle salde mani di quel complesso comitato d’affari e di potere che è il Partito comunista, a creare, attraverso una forzata e rapida accumulazione primitiva del capitale e la costruzione a ritmo serrato di infrastrutture finanziate dallo Stato, le condizioni per uno sviluppo vorticoso, in Birmania un regime al potere da troppo tempo e con inclinazioni psicopatiche, oltre che avido nei suoi esponenti di più alto livello, i mezzi per una “start up” in termini di sviluppo capitalistico se li è divorati a causa della sua stessa voracia e corruzione senza fondo. Un esempio da manuale è stato l’improvviso spostamento, nel 2005, della capitale da Yangon a Nay Pyi Taw, una città perfettamente inutile, creata dal nulla e abitata soltanto da funzionari governativi e statali, iniziativa delirante che ha suscitato perplessità perfino da parte dei cinesi. Che comunque sentitamente ringraziano, innanzitutto perché le loro imprese costruttrici, a cui si deve la costosa opera, hanno fatto affari d’oro e poi perché ancora una volta “tengono per le palle” un Myanmar indebitato. E comunque legato mani e piedi alle potenze confinanti con cui ha rapporti commerciali, fornendo loro materie prime a prezzi competitivi: Cina innanzitutto e poi Thailandia, India e, sul versante delle forniture militari, Russia e Corea del Nord. Un panorama di soci alquanto inquietanti. Eppure sono abbastanza fiducioso nell’evoluzione della situazione. Non prevedo un passaggio immediato del potere nelle mani dei civili, ma uno graduale, alla cui base sono le trattative in corso da mesi tra la giunta e Aung San Su Kyi, propiziato da una vittoria dei candidati della NLD alle elezioni di aprile, sempre che si  tengano come previsto. Col rientro in gioco anche di altri possibili partner commerciali, tra cui vedo con ottime chance il Giappone, a cui nel 1941 si rivolse con fiducia e successo suo padre Bogyoke per liberarsi dagli inglesi, salvo combatterli  non appena si accorse che da parte loro ai birmani toccava subire un trattamento anche peggiore che dagli antichi padroni coloniali. Ma quello era l’Impero del Sol Levante in piena espansione e al massimo della sua capacità bellica, e non il Giappone di oggi. Un tempo era la Thailandia, l’antico SIAM, a essere chiamata la “terra del sorriso”. Aggredita da uno sviluppo, se così vogliamo definirlo, tumultuoso e irrefrenabile; spesso deturpata e violentata da una corsa alla modernità senza limiti e da un turismo in buona parte invasivo e corrotto,  non è più tale . Trovo che la stessa lusinghiera espressione di terra del sorriso, oltre che Paese dell’oro, spetti oggi a pieno titolo alla Birmania, con l’augurio che un progresso auspicato da tutti e necessario venga tenuto sotto controllo nei suoi aspetti perversi e che non stravolga il carattere dei suoi abitanti. L’indole caparbia e orgogliosa della sua gente, la cui mitezza è l‘opposto della rassegnazione, la più amichevole, gentile e aperta che abbia trovato in tutto l’Oriente, ancora più che nel Laos, mi fa ben sperare.

sabato 4 febbraio 2012

Inle: un'economia lacustre

Pesca
Agricoltura negl orti galleggianti

Commercio (mercato a Nampan)
Industria (lo squero)

Soluzioni ecologiche di mobili

giovedì 2 febbraio 2012

Elogio del gatto birmano


Nyaungshwe / Lago Inle - Giornata piena di quiete emozioni, quella della  prima escursione sul Lago Inle: ma le più grandi e sorprendenti sono state di natura felina. Siccome ho voluto concedermi il lusso (relativo) di una lancia tutta per me per l’intera giornata: quindici dollari per l’assoluta libertà di stabilire il percorso e il tempo delle soste nelle varie tappe, compreso il conducente e un ragazzo che funge da interprete, avevo dato priorità assoluta alla visita del monastero di Nga Hpe Kyaung, ossia “Monastero del gatto che salta”, se è corretta la traduzione che me ne hanno dato. Erano anni che mi perseguitava una foto del monaco, accosciato sul pavimento, che teneva un cerchietto in mano e di un gatto che vi saltava dentro centrandolo alla perfezione, nella postura di un coniglio che facesse un tuffo a candela in acqua. Logica ha voluto che la visita avvenisse nel primo pomeriggio, visto che avevamo attraversato il Lago da Nord alla sua estremità meridionale per effettuare la prima tappa a Nampan, dove al mattino si svolgeva il mercato, e il monastero si trova in quella occidentale. Tassativo soltanto essere lì per prima delle quattro del pomeriggio, perché dopo i monaci chiudono le porte della sala di meditazione e la utilizzano per il suo scopo istituzionale. Alle due ad ogni buon conto ero già lì, per una buona mezz’ora unico visitatore per cui, sebbene in uno stato di tranquilla trepidazione in attesa dell’esibizione dei miei eroi, ho potuto godermi l’incantevole pace di questo luogo a cui si arriva solo in barca, circondato da orti e giardini galleggianti, e che di per sé vale una visita: completamente in tek, costruito nel 1854 conserva, proprio nella grande, ombreggiata e ventilata grande sala di meditazione, una collezione unica di antiche e ricchissime statue del Buddha in stile shan, tibetano, bagan e awa, poste su basi in legno intarsiato lavorato con tale finezza da essere esse stesse delle opere d’arte. Una parte della sala aveva il pavimento ricoperto di linoleum ed eccoli lì, i protagonisti, le star che, viste dietro il palcoscenico, hanno l’aspetto di normalissimi gatti meticci, di taglia piuttosto piccola, che stazionano, chi dormendo in una parte soleggiata, chi aggirandosi pigramente, chi facendo un’accurata toilette, attorno a un bonzo accovacciato su una splendida panca sempre in tek, e che evidentemente è il maestro di cerimonie, come evinco da una foto che lo ritrae con i famosi cerchi in mano e un gatto che vi salta dentro. Dall’espressione sorniona sembra un gatto anche lui: me ne accorgo quando arriva un nutrito plotone di yankee orridamente abbigliati tra cui un gruppo di donne dall’età indefinibile talmente liftate da sembrare incartapecorite, marionette di cartapesta sul punto di disfarsi da un momento all’altro. Alla sua domanda da quali Stati provenissero, a chi rispondeva, col noto accento esageratamente strascicato e ad alto volume “Kelifounie”, chi “Seaufkeuolaine”, chi “Uestuiginie”, chi “Geùgiò”, il bonzo fa, con pronuncia pressoché oxfordiana: “Nessuno del Colorado? Della zona delle Rocky Mountains? Peccato, non ci stato mai stato”, sistemandoli a dovere. Insomma gli artisti stavano lì, a farsi i fatti loro, indifferenti al pubblico che si infittiva, come degli atleti che fanno riscaldamento prima della prestazione, o musicisti durante il sound check che precede l’esibizione: e mi è tornata in mente l’attesa spasmodica dell’uscita sul palco, in puntuale ritardo sull’orario previsto, quando arriva il giusto punto di ebollizione, della “Greatest Rock‘n Roll Band in the World: Ladies and Gentlemen: The Rolling Stones” alla loro ennesima tournée. Invece, anche se sono almeno trent’anni che so dell’esistenza di questi curiosi e a loro modo straordinari gatti acrobati attivi in un misterioso monastero in un luogo isolato della lontana Birmania, mi accorgo che sto sorridendo, che non sento alcuna fibrillazione, che mi pare naturale essere lì, tanto da non essere nemmeno tentato di chiedere quando giungerà il momento: “Que será, será”, per rimanere in ambito musicale. Del resto la vera sorpresa della giornata l’ho avuta al mattino quando i miei chaperón, istruiti della mia predilezione per i piccoli ma più perfetti felini, delle autentiche tigri in miniatura come li ha definiti Desmond Morris, che in proposito ha scritto un famoso libro, mi hanno portato allo “Inpawkhon Village”, un ristorante su palafitte molto elegante dove ha sede anche la Inthar Heritage House (c’è anche un sito web: www.intharheritagehouse.com), per la preservazione del gatto di razza birmana, dal carattere dolcissimo e dal morbido pelo corto di un marrone caldo e uniforme, che uno si aspetterebbe con gli occhi azzurri, come i siamesi, e invece li ha gialli: uno più bello dell’altro, meravigliosi. L’aristocrazia felina. Tanto ero rincoglionito a guardarli, giocarci, accarezzarli, che ho dimenticato di chiudere e perfino di avere lo zainetto in spalla, quello che avevo dentro si è sparso dappertutto e ho pure perso il copri-obiettivo della macchina fotografica. Senza neanche prendermela con me stesso (è l’effetto-gatto, oltre all’effetto-viaggio) mentre di solito in tali occasioni tiro giù madonne e sacramenti insieme a tutto il coro dei santi al completo, oltre al capo dell’intera banda. Invece gli artisti erano lì, incuranti, fino al momento in cui è sopraggiunta una donna con in mano un cerchio di metallo imbottito di stoffa e tre o quattro dei mici si sono radunati attorno a lei e due di loro hanno dato via allo show, davvero curioso anche se di breve durata. A tutta evidenza erano stanchi, così come lo era il direttore d’orchestra in tunica zafferano, che si erano già esibiti fin dalla mattina: insomma avevamo sbagliato l’orario, e non è detto che stamattina non rimedi. Comunque l’esibizione, per quanto ridotta all’osso, ha pienamente soddisfatto le mie aspettative perché ha comunque dello stupefacente. Perché se non c’è nulla di strano che un gatto sappia saltare in un cerchio (offrono ben altre prove di intelligenza, a cominciare dall’imparare per conto loro ad aprire e all’occorrenza richiudere sportelli che li separano da qualcosa di loro interesse o azionare per il verso giusto le maniglie per aprire una porta o una finestra a loro piacimento), quello che ha dell’incredibile è che lo facciano a comando di qualcuno che li convinca a farlo. E qui ci vuole la pazienza e concentrazione di un monaco buddhista. 

mercoledì 1 febbraio 2012

Il Lago Inle, il Titicaca e le loro insospettabili fonti

Nyaungshwe / Lago Inle - Qualcuno tra coloro che mi leggono che appartiene alla mia generazione si ricorderà l’Enciclopedia per ragazzi “Conoscere”, uscita per i tipi della “Arnoldo Mondadori, Verona”, che tra l’altro editava anche “Topolino”, molto prima che queste meritoria azienda finisse, truffaldinamente, nelle grinfie del disgustoso individuo che da oltre vent’anni è l’ombelico in cui si rimira e in parte rispecchia ciò che una volta era l’Italia, e della sua degna famiglia. Mi è tornata in mente ieri, quando dopo aver percorso qualche chilometro verso Sud a bordo di una delle tipiche lunghe lance dai potenti motori fuoribordo che lo attraversano incessantemente in lungo e in largo, sono entrato nel Lago Inle e ho subito incrociato un pescatore che si esibiva nella tipica voga, che è del tutto simile a quella veneziana, con la differenza che la spinta viene effettuata con la gamba e la rotazione con il piede, mentre con l’altra si mantiene in equilibrio. In realtà in condizioni normali la barca, dal fondo piatto come le gondole vista la scarsa profondità, viene condotta a pagaiate, ma questa caratteristica posizione viene assunta quando essa è pressoché ferma o deve fare piccoli spostamenti mentre chi la conduce ha le mani impegnate nelle reti, perché l’operazione principale a cui si dedica, e gli dà di che vivere, è la pesca. Intendo dire che devo a “Conoscere”, che io possedevo in una edizione in soli quattro grossi volumi in brossura (ciascuno dei quali ne raccoglieva quattro o cinque dell’edizione normale) ancora prevalentemente disegnata e con rare fotografie, buona parte delle mie basi culturali, mentre l’influenza della televisione è stata sostanzialmente inesistente almeno fino all’età della ragione, se non per qualche film che passava a Natale, Stanlio e Ollio, Charlot, i cartoni animati e le partite di calcio (un tempo di quella più importante del campionato), lo sci e il tennis, questi ultimi soltanto perché Giorgio Bellani, il telecronista di allora per questi due sport, che trovo tra i più stupidi almeno da guardare, era un mio zio acquisito. Non che le nozioni fornite dall’insegnamento delle elementari fosse insufficiente: ma i maestri di allora dovevano stare dietro a classi di 30 o 35 allievi di cui neanche un terzo si sognava di avere a disposizione né un apparecchio televisivo e ancor meno “Conoscere”. La qualità dell’insegnamento sarebbe poi precipitata alle medie inferiori, infestate di insegnati frustrati vittime colpevoli e condiscendenti delle tirannie di una preside psicotica figlia di un gerarca fascista che pretendeva che uscissimo dalla scuola in fila per due come dei burattini e in silenzio sull’attenti a tributarle il saluto. E non faceva dare il via libera (al bidello), con uno sdegnoso segno del capo, finché non era soddisfatta dell’allineamento e del perfetto silenzio: questo in una scuola pubblica nel pieno centro di Milano, dal 1966 al 1969, la Luigi Majno, in fianco al Berchet che nel frattempo, dal ’68 in poi, veniva ripetutamente occupato da quelli del Movimento Studentesco, e che avrei frequentato una volta uscito da quell’incubo durato tre anni. Anna Pettinari, si chiamava questa disgraziata, soprannominata “Puttanari” dai più irriverenti tra gli allievi di allora, tra cui mi distinguevo. E lei me la faceva pagare in tutti i modi, finendo per farmi “licenziare”, perché bocciarmi non poteva, con un doppio e misero “sufficiente” e il consiglio di seguire l’indirizzo professionale o tutt’al più azzardarmi a tentare la strada dell’istituto tecnico per ragioneria e geometra. Proprio io, con le solide basi ricevute in dote da quell’imbecille del suo degno vice, di cui dirò dopo. In questa fase scolasticamente infelice, ”Conoscere” fu sostituita da un’altra enciclopedia, per ragazzi del Littorio ereditata da una cugina di 20 anni più vecchia di me, a sua volta figliastra di un altro fascistone (col risultato che a 18 anni è fuggita di casa per sposarsi col primo che passava, tre mesi dopo scappava anche dal marito e sei mesi dopo era volata in Brasile a fare la cantante dell’orchestra del Maestro Enrico Simonetti - forse qualcuno se lo ricorda - finché nel 1964 il regime militare dei Gorilla che avrebbe detenuto il potere per altri vent’anni espellesse alcuni stranieri presi nel mirino, tra cui lei, confiscandone i beni) che gliel’aveva propinata. Riconosco che, presa con le dovute pinze, era fatta molto bene: a posteriori mi è stata utile per capire come le cose fossero viste e raccontate dalla prospettiva del regime; inoltre, sulle materie che più mi interessavano, storia ma soprattutto geografia, aveva ancora quel sapore di esplorazione e avventura già allora un po’ rétro che me le rendeva affascinanti: altro che il nozionismo stupido degli insegnati ignoranti, incapaci e svogliati che avevo a scuola. Del resto gente adulta che accetta di farsi trattare comune uno zerbino dimostra da sé quanto vale: niente. Tra questa manica di imbecilli spiccava il vicepreside, che era anche mio professore di matematica e scienze (col risultato da farmele odiare per tutta la vita), che integrava la paga di giornalista da strapazzo con lo stipendio statale da insegnante, altrettanto da strapazzo. Questo perfetto idiota, che non sapeva un accidente, si piccava di essere il nipote di Guglielmo Marconi, ne portava il cognome e gli somigliava pure: la stessa faccia bovina e intronata. Non vuole essere, questa, una lunga introduzione al racconto di una intensa, emozionante escursione su questo specchio d’acqua fatato, tra i mercati galleggianti che si tengono ogni 5 giorni a rotazione secondo un calendario prefissato nei villaggi più importanti; tra orti e giardini anch’essi galleggianti, come avevo visto sul Titicaca e anche vicino a Città del Messico, dove si usano i medesimi sistemi di coltivazione; tra manifatture di tabacchi e aziende tessili che lavorano artigianalmente con telai di legno e bambù e filano a mano perfino la fibra del loto (più preziosa della seta); monasteri dall’atmosfera incantata e tranquilla, dove i monaci allevano gatti acrobati: tutto questo non ci sarebbe, e io non sarei qui, senza questi occhi e il loro modo di vedere le cose, se non ci fossero stati “Conoscere”, l’enciclopedia “Littoria”, le “Spigolature” e “Strano, ma vero” della “Settimana Enigmistica”, lo spirito d’avventura di mio padre, a sua volta eredità famigliare, e i suoi racconti di viaggio oltre al suo modo di visitare i luoghi, ossia “viverli” per osservarli e capirli, da cui ho assorbito come una spugna. E’ stato questo, a parte ciò che hanno registrato i miei occhi più ancora delle fotografie che ho scattato e quello che rimarrà nella mia memoria, che ho pensato nelle ore successive all’escursione che ripeterò domani. Da quelle fonti avevo appreso che il Titicaca è il lago più alto del mondo e che vi galleggiano delle coltivazioni e che su quello di Inle si voga a forza di gambe; quelle fonti, di cui mi sono abbeverato allo spasimo grazie anche, per paradosso, alla meschinità e alla pochezza dei miei insegnati delle medie, hanno plasmato il mio substrato cognitivo e la mia impronta culturale, che è per l’appunto di tipo enciclopedico a scapito della specializzazione, che ha caratterizzato tra l’altro anche il mio percorso lavorativo e che ha stimolato la mia curiosità inesauribile verso alcune materie e alcuni aspetti dell’esistenza: conoscere persone e luoghi, soprattutto la dimensione del viaggio in sé, nel suo svolgimento tappa per tappa, dove porta l’ispirazione  del momento più che un programma preciso (che non ho mai se non a sommi capi). Sempre grazie a quelle fonti, e di conseguenza, avrei imparato a stabilire dei collegamenti, a capire come la popolazione che vive sul Titicaca, di cui non ricordo il nome ma che è imparentata con gli Aymara, e che ha una complessione fisica del tutto diversa dai Quechua (gambe lunghe, toraci meno possenti) per via della sua attività di agricoltori lacustri  e pescatori, vive in una condizione simile (anche climatica) e usa gli stessi metodi degli Intha che vivono sul lago Inle, che sono una minoranza di origina Bamar, ossia birmana, insediatasi qui dal Sud del Myanmar cicra 700 anni fa, probabilmente in fuga dalle guerre, in una zona a stragrande maggioranza Shan (il cui nome viene da Siam, e che è simile, anche per la lingua, a quella che vive nella Thailandia del Nord, nel Laos e nello Yunnan cinese) che a sua volta è la più grande minoranza del Paese (il 10% circa dei 45 milioni di abitanti del Myanmar). Per non parlare dei recenti studi, basati anche sulla genetica, che hanno confermato, come scriveva ancora anni fa Luigi Cavalli Sforza, che le popolazioni andine, come quelle degli “indiani nativi” e quelli dell’America centrale come i Maya hanno origine nell’altopiano tibetano-himalayano. Anche, se non soprattutto questo è, per me, il viaggio. Una dimensione, quella mia, dove tutto quello che sono si tiene insieme, in una fusione di passato e presente che forma un tutto unico, che solo in questa forma riesce a essere in armonia con il flusso del tempo, con le persone e con le cose e a proiettarsi in un futuro che non mi interessa definire e nemmeno delineare, ma vivere.