sabato 31 dicembre 2022

venerdì 30 dicembre 2022

The Fabelmans

“The Fabelmans” di Steven Spielberg. Con Michelle Williams, Paul Dano, Gabriel LaBelle, Seth Rogen, Judd Hirsch, Julia Butters, Keeley Karsten, Cole Est, Oakes Fegley, Sam Rechner, Jeannie Berlin, Tina Schildkraut, David Lynch e altri. USA 2022 1/2

Peggio di quel che temessi: mi aspettavo la consueta celebrazione nostalgica dei Mitici Fifties Made in USA e mi sono ritrovato con l’autocelebrazione solipsistica di Steven Spielberg. Palesemente autobiografico, nelle intenzioni dell’autore il sottotitolo implicito suona come “Vocazione e formazione dell’Artista”, il risultato per lo spettatore più scettico si traduce in “Come sono diventato un cinematografaro”. Di ottimo livello e grandi capacità tecniche e commerciali (fin dagli esordi i suoi film sono stati campioni di incassi), ma dove di spontaneo e di autentico c’è poco o niente. C’è una sola scena, peraltro rivelatrice, verso la fine, quella di una pellicola girata in occasione della conclusione dell’ultimo anno di scuola superiore, il 1964, che sembra (involontariamente) sincera: quella in cui il giovane Sam Fabelman (l'alter ego di Spielberg nel film) dipinge Logan, il rivale che l’ha sempre “bullizzato” fin da quando era approdato in quell’istituto californiano, come una sorta di eroe ariano, oltre che il bello della High School, e il protagonista non si capacita di ciò, chiedendogli perché l’abbia descritto per quello che non è e non potrà mai essere nonostante tutti i torti che ha subito da lui, e l’aspirante artista, a diciotto anni già così pieno di sé e convinto di essere stato toccato dalla Grazia, gli risponde, in sostanza, che è questa la magia del cinema, il potere del regista: compiacere e manipolare lo spettatore, puntando sul suo lato debole, ossia l’impressionabilità, i buoni sentimenti e il senso di colpa, capacità che Spielberg senza dubbio possiede e avrebbe sistematicamente sfruttato per tutta la sua carriera, giocando, come si suol dire, sporco. Per come l’ho percepito io, controluce emerge il ritratto di una persona meschina, che non lascia mai trasparire come la pensa davvero e non prende mai una posizione decisa; pavida, opportunista, in fondo, cattiva e vendicativa: l’esatto contrario del buonismo melenso che permea tutta la sua filmografia. In poche parole, The Fabelmans ripercorre l'infanzia, l'adolescenza e la prima giovinezza del Prodigio, dal primo film che ha visto, a 6 anni, ai primi che ha girato, da dilettante (i fondi non gli sono mai mancati, grazie alla generosità del padre, ingegnere di successo che non mancava certo di mezzi), all'incontro niente meno che con John Ford (il cameo di David Lynch, a differenza di Spielberg un artista a tutto tondo, che lo interpreta è una delle cose migliori di una pellicola insopportabilmente prolissa e noiosa), insomma la formazione del Giovane Genio, e le vicende della sua famiglia, coi suoi spostamenti dal New Jersey all'Arizona alla California, e ai traumi inenarrabili che avrebbe subito a causa della separazione dei suoi genitori (il padre un informatico di valore, la madre una pianista e ballerina che ha rinunciato alla carriera per tirare su il viziatissimo Sam e le tre sorelle), con l'inevitabile contorno, trattandosi di una famiglia ebraica, di festività come Hanukkah, nonne invadenti, zii pazzi e folkloristici, fiducia messianica nella psichiatria, una buona dose di vittimismo e, al contempo, un'esibizione di superiorità e diversità fastidiosa; in compenso, e stranamente, senso dell'umorismo, insomma del witz, quasi inesistente. Insomma un mondo a parte, quello della benpensante e conformista borghesia ebrea-americana, dove tutto è correttezza e deve svolgersi secondo binari prefissati, la rottura dell'armonia (la relazione della madre con l'amico di famiglia Benny scoperta, guarda caso, dal giovane Sammy montando un filmino di una vacanza al campeggio) una tragedia, come se non fossero cose che capitano a centinaia di milioni di persone, ma se succedono a Lui, Spielberg, allora diventano montagne insuperabili ed Eventi spaventosi che-segnano-una vita. Ovviamente in tutto il film e attraversando tre Stati nell'arco di 20 anni non si incontra nemmeno una persona di colore e a malapena si intravvede un italiano e un ispanico: miracolo. Insomma, il Paese reale, come qualsiasi cosa non riguardi l'Autore e il suo ego ipertrofico, non esiste o non ha importanza. Aggiungiamo lo schematismo, il moralismo pervasivo, la pedanteria delle descrizioni, veri e propri "spiegoni" su ogni quisquilia, la puerilità del tutto, a metà della proiezione ero stato tentato di lasciare la sala per andare a bermi un paio di birre, ma alla fine ho resistito fino alla fine per vedere dove andava a parare e a qualcosa è servito: dopo anni ho capito perché i film di Spielberg non mi abbiano mai convinto, per quanto spettacolari e ben fatti (e non tutti) e perché l'uomo mi sia sempre stato sui coglioni. 

mercoledì 28 dicembre 2022

Il mio nome è vendetta

"Il mio nome è vendetta" di Cosimo Gomez. Con Alessandro Gassmann, Ginevra Francesconi, Remo Girone, Luca Zamperoni, Alessio Praticò, Sinjia Dikes, Gabriele Falsetta, Mauro Lamanna e altri. Italia 2022 💩

Sedicente thriller d'azione, finanziato da Netflix, che quindi può permettersi costi che un produttore italiano non si sognerebbe mai, e giustamente, di coprire per una boiata del genere, ha come oggetto il genere d'esportazione preferito e più scontato: una storia di vendetta di una delle mafie nostrane. Per la precisione, quella più efferata e impenetrabile (o così la raccontano): la ndrangheta calabrese. Assumono Alessandro Gassmann, gli fanno crescere la barba, lo mandano in un maso sulle Dolomiti Sudtirolesi, gli accollano un'identità fasulla (nessuno se ne accorge, figurarsi), una moglie locale e una figlia adolescente, Sofia, e un lavoro nella segheria del cognato: un terrone ben integrato nell'ambiente. La ragazzina gli scatta una foto di nascosto (babbo non vorrebbe, chissà perché) e la pubblica su un qualche social. Non l'avesse mai fatto: l'idillio ha fine, perché Santo Romeo Gassmann, grazie al riconoscimento facciale, viene individuato come Domenico Franzé da un altro capobastone, Don Angelo Lo Bianco (Remo Girone), attivo a Milano, come il killer di fiducia di una ndrina rivale che ha accoppato il suo figlio preferito prima di ritirarsi dal servizio attivo e sparire dalla circolazione. Vendetta 1: del boss calabro-milanese, che spedisce una squadra di picciotti sulle Alpi la quale elimina moglie e cognato ma non non raggiunge il bersaglio principale, il nostro "eroe" Gassmann che, avendo avuto contezza della strage, dismette la barba, si rade i capelli e indossa la truncia di quando gli affidano la parte del "cattivo" e ridiventa Domenico Franzé, innescando, assieme alla figlia adolescente, scampata miracolosamente alla cerneficina, la fase 2 della Vendetta di cui al titolo, facendo rotta su Milano. Nell'arco di tre giorni (questo l'arco temporale in cui si pretende di comprimere la vicenda, e ci si perita pure di ribadirlo) il Gigante e la Bambina, nel frattempo trasformatasi in un'esperta di trucchi del mestiere come manco un membro dei ROS dopo 10 anni di pratica, compiono una cerneficina con almeno una sessantina di morti che in confronto i Wagner o i Mozart attualmente in azione in Ucraina sembrano dei poaréti. Insomma, una pagliacciata e un film di cui vergognarsi che venga riproposto all'estero come prodotto nazionale. Certo, le scene d'azione sono girate bene, per quanto assolutamente improbabili: e ci mancherebbe pure altro, col budget che sorregge questa solenne cagata. Che giustamente mi ero rifiutato di andare a vedere in sala, quando era uscita, ripromettendomi di guardarla in TV in occasione delle festività natalizie, funestate da una programmazione miserevole più del solito sui grandi schermi: per fortuna dura meno di un'ora e mezzo. Il bello è che per confezionare e sceneggiare questa minchiata, ci si sono messe due teste, non dico di quale contenuto: quella del regista stesso e quella di Sandrone Dazieri, quello che aveva inventato il Gorilla, il detective schizofrenico di alcuni romanzetti di discreto successo; uno che dal Centro Sociale Leoncavallo è passato direttamente al ramo editoriale presso Mondadori, cfr. Berlusconi: un giallista, esperto del ramo. Il risultalo penoso ne è la logica conseguenza. Oltre a trattarsi dell'ennesima variazione su un tema ormai abusato: (Una vita tranquilla di Claudio Cupellini, 2010, per fare solo un esempio cinematografico), quel che salta all'occhio è che la storia è molto meno plausibile di quanto non lo sia la vicenda raccontata da Bang Bang Baby, esplosiva serie uscita su Amazon Prime quest'anno e di cui mi occuperò prossimamente, che pur essendo esplicitamente parodistica, pulp e splatter, si ispira dichiaratamente a una vera storia di ndraghenta, il libro autobiografico di Marisa Merico L'intoccabile. Con cui questo miserevole film ha parecchi tratti in comune. Non che si tratti di plagio, per carità, non mi permetterei nemmeno di sospettarlo: ma le coincidenze sono tante. Troppe per essere solo un caso. Non il risultato: squallido quello di Il mio nome è vendetta; prodigioso, e non sto scherzando, quello di Bang Bang Baby. 

domenica 25 dicembre 2022

Glass Onion - Knives Out

"Glass Onion - Knives Out" ("Glass Onion - Knives Out Mistery") di Rian Johnson. Con Daniel Craig, Edward Norton, Janelle Monáe, Kathryn Hahn, Leslie Odom Jr., Madelyn Cline, Kate Hudson, Jessica Henwick, Dave Bautista, Ethan Hawke, Hugh Grant e altri. USA 2022 ★★★+

Perfetto film natalizio: perché è divertente e ben fatto e soprattutto perché è un'ottima alternativa rispetto alla sconfortante programmazione nelle sale del periodo e comodamente fruibile su Netflix, da vedersi in panciolle, mettendolo all'occorrenza in pausa per recuperare generi di conforto liquidi o di altro genere. Sequel del fortunato Cena con delitto, fa parte di un progetto che vede già in cantiere un terzo film, che propone una sorta di rivisitazione dei thriller alla Agatha Christie però in versione attualizzata, con protagonisti i ricchissimi del giorno d'oggi, quindi finanzieri e avventurieri di ogni genere, il loro contorno di parassiti e miracolati e l'immancabile investigatore eccentrico e dall'inarrivabile nello scoprirne gli altarini e, in particolare, i delitti: anziché un Hercules Poirot, belga e quindi esotico nell'ambientazione prettamente brit dei romanzo della Christie, qui abbiamo Benoit Blanc, interpretato in modo brillante e ironico da Daniel Craig, che col suo raffinato eloquio e l'ineccepibile pronuncia inglese è rara avis in mezzo allo sguaiato, cacofonico accento di cafoni a stelle e strisce. Per farla breve, questa volta si trova a partecipare a un'altra "cena con delitto" ideata dalla mente solipsista e megalomane del multimiliardario Miles Bron, gran capo della Alpha Industries, multinazionale che si occupa di tutto, a cui l'ottimo Edward Norton dona le fattezze e le espressioni della perfetta faccia da cazzo alla Elon Musk, il quale convoca, in piena pandemia, il gruppo di amici storici nella sua lussuosissima villa in un'isola greca di sua proprietà per risolvere l'enigma messo in scena (c'è pure la Mona Lisa di Leonardo originale, prestatagli in cambio di una più che generosa donazione...). Che però si traduce in realtà quando viene ucciso uno dei partecipanti, Duke, di professione influencer trumpiano pluritatuato, e viene a galla che si trattava di omicidio e non di suicidio nel caso di Andi, l'ex socia della socia estromessa dalla Alpha Industries perché non  condivideva pericolose scelte di Miles e ne era la vera ideatrice, a cui si sostituisce, per scoprirne l'autore, la gemella Helen: è stata lei a invitare Blanc per sciogliere il mistero. Gli altri invitati, per mezzo di una scatola contenente enigmi ideati da Miles, sono Claire, governatrice del Connecticut; Lionel uno scienziato capo della sezione ricerca e sviluppo della compagnia di Miles; Birdie, una stilista suonata e la sua assistente Peg e Whiskey, la fidanzata di Duke, portata da quest'ultimo per tentare di sedurre il grande capo: tutti sono legati a Miles per interesse e a lui devono le rispettive fortune, ma tutti hanno sia un movente sia avuto la possibilità di uccidere... Non svelo altro, ovviamente, per non guastare la sorpresa finale di questo film scoppiettante, un epilogo propriamente esplosivo, che però non ritengo all'altezza del precedente. Di cui conserva alcuni aspetti che apprezzo molto: l'autoironia, il mettere alla berlina e ridicolizzare certi personaggi e certi ambienti. un bel po' di sana "scorrettezza"; ma l'ordito, appesantito da un flash back piuttosto laborioso, risulta un po' troppo intricato, per quanto il congegno funzioni alla perfezione e tutto alla fine si incastri. Quel qualcosa che manca, a mio parere, sono gli interpreti, a parte i due sopra citati, non all'altezza e non altrettanto complici e divertiti quanto quelli del cast di Cena con delitto, che ricordavano una scanzonata compagnia teatrale ben assortita e affiatata: qui l'unico che recita con scioltezza e naturalezza, è Daniel Craig seguito a ruota da Edward Norton, gli altri, a parte i camei di Hugh Grant ed Ethan Hawke, sono "sotto" di un tono o due, per quanto s'impegnino. Comunque, il risultato si colloca ben sopra la sufficienza e si va sul sicuro. 

sabato 17 dicembre 2022

Il corsetto dell'imperatrice

"Il corsetto dell'imperatrice" (Corsage) di Marie Kreutzer. Con Vicky Krieps, Florian Teichmester, Katharina Lorenz, Jeanne Werner, Alma Hasun, Aaron Friesz, Manuel Rubey, Colin Morgan,  Finnegan Oldfield, Tamás Lemgyel e altri. Austria, Francia Germania, Lussemburgo 2022 ★★★

Film eminentemente metaforico, che di storico ha soltanto l'ambientazione temporale, racconta l'anno tra il 24 dicembre del 1877, giorno in cui Elisabeth von Wittelsbach, principessa di Baviera nota universalmente come Sissi, imperatrice del Regno Austro-Ungarico, compie i 40 anni e deve fare i conti con l'incipiente vecchiaia, e il compleanno successivo. I personaggi che la circondano sono realmente esistiti: dal consorte Franz Joseph; all'amato cugino Ludovico II il Folle, suo complice e confidente; il capitano Bay Middleton, con il quale era stata sospettata di trescare mentre era in visita dalla sorella Marie Sophie in Inghilterra nell'estate del 1878; i figli Rudolf (quello di Mayerling) e Sophie, che lei voleva educare all'ungherese, parlandole quasi sempre in magiaro; le sue dame di compagnia; il liberale ministro degli Esteri Gyula Andrássy; quel che non esisteva erano i telefoni a muro, i trattori, i dolcevita bianchi indossati dall'imperatore e neppure i muri scrostati e gli ambienti decadenti delle dimore visitate da Elisabetta durante i suoi viaggi per sfuggire alla soffocante atmosfera di corte, che detestava, in contrasto con Schönbrunn e gli altri palazzi viennesi che evitava il più possibile di frequentare. Che fosse estremante attenta alla linea (rivelatore il titolo: chiedeva alle sue damigelle di stringere il corsetto quanto più possibile) e quindi all'alimentazione si sapeva; così come fosse refrattaria agli obblighi, ribelle, amante dei cavalli: lo dice la sua vita. Pregio de Il corsetto dell'imperatrice è proporre sullo schermo una versione del tutto diversa, e più realistica, di Elisabetta rispetto alla Sissi dei film interpretati da Romy Schneider, che hanno forgiato l'immaginario collettivo. Nonostante la scarsa somiglianza dell'interprete con l'originale, o almeno da quel che si ricava dai suoi innumerevoli ritratti, la bravissima Vicky Krieps riesce a rendere perfettamente l'idea di una donna irrequieta, infelice, profondamente narcisista e ossessionata dalla propria immagine e quindi dall'invecchiamento: uno degli aspetti per cui, vista a posteriori, sembra aver precorso i tempi; una sorta di preveggenza più o meno conscia, come se la sua insofferenza alle regole e ai "doveri" di sovrana fossero espressione di un suo essere al passo coi tempi, consapevole del fatto che The Times They Are A-Changing; che un'epoca si stesse chiudendo e lei ne fosse non solo testimone ma, in qualche modo, precursore. Con tutta la simpatia e benevolenza che si possa avere per il personaggio, attribuirle intenzioni, una vocazione femminista ante litteram e una coscienza politica che non possedeva, come anche una animus femminista ante litteram, mi sembra eccessivo: la regista Marie Kreutzer però non sposa del tutto questa visione, e testimonianza ne sono proprio l'introduzione di elementi incongrui e, a tratti, favolistici, a differenza di quel che fece Susanna Nicchiarelli col pessimo e didascalico Miss Marx, con risultati controproducenti rispetto alle intenzioni. Il risultato è una pellicola di buon livello, elegante, originale, ben girata e con un ottimo cast: curioso ma coerente l'accompagnamento musicale, tra cui spicca una versione di As Tears Go By dei Rolling Stones della cantautrice Camille Dalmais, che ha scritto la colonna sonora originale. 

martedì 13 dicembre 2022

Addavenì a' Qatarsi...


Continua l'inchiesta su lobbies e potere a Bruxelles, che vede coinvolti ONG, sindacati, assistenti e membri del Parlamento Europeo, indagati per essere stati lautamente foraggiati dall'Emirato del Qatar, e colti con le mani nel sacco. La vicenda è nota, perché vede coinvolti personaggi legati al gruppo S&D (Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici), tra cui spiccano la vicepresidente greca del Parlamento Europeo Eva Kaili e l'ex europarlamentare, già deputato italiano nonché, a suo tempo, dal 1995 al 2003, segretario della Camera del Lavoro di Milano, la più potente d'Italia, Antonio Panzeri. Una vita "asinistra", tra CGIL e PCI e tutta la filiera delle sue successive reincarnazioni, fedele scudiero di Massimo D'Alema ("da Halema-Halim. 
Siamo tra quegli arabi che servirono Federico II di Svevia" aveva rivelato a suo tempo l'ex deputato di Gallipoli) in Lombardia e infine approdato, come il suo mentore, ad Articolo 1, sedicente "Movimento Democratico e Progressista". Non sto qui a fare la morale né a stupirmi della vicenda, coi suoi aspetti anche grotteschi (pacchi di migliaia di euro in contanti nascosti tra gli   indumenti nelle abitazioni degli indagati, o stipati nelle valigie in un vano tentativo di trafugamento delle prove: quando si tratta di luoghi dove nascondere danari di provenienza sospetta la fantasia non manca, tra i nostri progressisti, compresi gli scarichi dei cessi e le cucce dei cani) perché solo chi ha scarsa o nessuna memoria e onestà intellettuale può ancora cadere dal pero e sostenere una qualche "diversità" della cosiddetta "sinistra" quanto e etica e moralità. E certi personaggi non si smentiscono mai: posseggono, a loro modo, una coerenza. Ora non rimane che augurarsi che la magistratura e la polizia belghe proseguano proficuamente il loro lavoro, e che, inshallah, arrivino prima o poi ai pesci grossi...

venerdì 9 dicembre 2022

Esterno notte 1 e 2

"Esterno notte 1 e 2" di Marco Bellocchio. Con Fabrizio Gifuni, Margehrita Buy, Toni Servillo, Fausto Russo Alesi, Daniele Marra, Gabriel Montesi, Davide Mancini, Paolo Pierobon, Fabrizio Contri, Pier Giorgio Bellocchio, Gigio Alberti e altri. Italia, Francia 2022 ★★★★★

Mi ero ripromesso di dire la mia sul Esterno notte, la serie coraggiosamente prodotta da RAI Fiction in collaborazione con Arte France, che avevo già visto quando era uscito nella sale cinematografiche, in due parti, nella passata primavera, una volta che fosse stata trasmessa anche in televisione e l'avessi rivisto in quella modalità, cosa che ho fatto nei giorni passati, ma non trovo altro da aggiungere a quanto scrisse Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano il 29 maggio scorso, salvo che, a mio parere, l'impatto e la resa su grande schermo sono decisamente maggiori. Bene comunque ha fatto la RAI a impegnarsi in questa avventura.

Non c’è parola se non capolavoro per descrivere Esterno notte, la serie-film di Marco Bellocchio sul sequestro Moro (...). Dovrebbero vederla tutti per il livello artistico, degno dei migliori Rosi e Volonté. Ma anche per il valore storico, civile e politico: era difficile raccontare la tragedia greca che segnò l’Italia del 1978 e di molti anni a seguire riuscendo a mantenere l’equilibrio fra commozione e melodramma, retorica e cinismo, misteri e complottismi, senza mai cadere in nessuno di quegli opposti. Merito del regista, dei produttori, degli sceneggiatori e di un casting che non sbaglia un colpo: Fabrizio Gifuni (Moro: non lo fa, lo è), Margherita Buy (la moglie Eleonora), Toni Servillo (Papa Paolo VI), Fausto Russo Alesi (Cossiga), Fabrizio Contri (Andreotti), Gigio Alberti (Zaccagnini), Daniela Marra, Gabriel Montesi e Davide Mancini (i brigatisti Faranda, Morucci e Moretti). E poi Paolo Pierobon nei panni di don Cesare Curioni, il capo dei cappellani carcerari che tratta sottobanco mentre il Papa raccoglie 22 miliardi di lire di riscatto che resteranno ammucchiati sul suo tavolo. Tutto intorno, un formicaio di macchiette, ridicole e inquietanti, come il presidente da operetta Leone, il consulente americano Pieczenik e gli altri acchiappafantasmi del Viminale, il sottobosco di diccì mollicci, untuosi e inadeguati alla gravità dell’ora. Ogni tanto Bellocchio solleva lo sguardo dal crudo realismo e si concede licenze poetiche, visionarie ma mai pretestuose. Moro schiacciato dalla croce di Cristo nella Via Crucis, la Faranda che sogna i cadaveri di Moro e dei cinque agenti di scorta trascinati da un fiume, Eleonora incatenata alla sede Dc. E poi il secondo finale che apre e chiude: Moro liberato e subito sigillato in una clinica, secondo il “piano Mike” di Cossiga e Pieczenik per evitare che divulghi i segreti di Stato già svelati alle Br (che inspiegabilmente li ignorarono), che dal letto scandisce un lento e feroce j’accuse al suo ormai ex partito davanti a Cossiga, Andreotti e Zaccagnini lividi e impietriti.

I 55 giorni del sequestro Moro sfilano via in cinque ore di Via Crucis cinematografica che ci leva il fiato e ci restituisce un’Italia che, per fortuna ma anche purtroppo, non c’è più. Un’Italia già immersa da nove anni (dalle stragi nere al terrorismo rosso) nel sangue dei delitti politici e ora costretta pure a scegliere fra la vita di un uomo (sulla pelle dei cinque agenti della scorta assassinati in via Fani) e quella dello Stato (che non può riconoscere le Br) dal doppio ricatto dello statista con le sue lettere imploranti e dei terroristi con i loro comunicati deliranti.

Nei sei episodi del film, Bellocchio infila la telecamera negli occhi di ogni protagonista della tragedia per mostrarla da ogni prospettiva. C’è il potente Moro che convince con un emolliente discorso la Dc riottosa ad accettare i voti degli odiati comunisti al primo governo Andreotti di solidarietà nazionale, poi nottetempo vede Berlinguer nella sua auto, poi rincasa, si frigge un uovo, controlla maniacalmente che le manopole del gas siano chiuse, raccomanda alla figlia Agnese di lavarsi le mani, raggiunge Eleonora in camera per l’ennesima notte insonne e l’indomani si ritrova addosso il sangue della scorta per finire in un loculo di cartongesso: uniche compagnie una branda, una Bibbia, una biro, qualche foglio e drappo rosso con la stella a cinque punte, finché non arriva un prete incappucciato per l’ultima confessione e comunione. Poi Cossiga che si macera nell’impotenza, preso tra amicizia e ragion di Stato, mentre giorno dopo giorno perde l’amico (che gli scrivere lettere di fuoco), la fiducia (sa di aver intorno piduisti e depistatori, ma anche di non poterli sostituire), il sonno (ascolta inutili intercettazioni e parla con i colleghi radioamatori), la salute (già compromessa dalla ciclotimia e dal dramma coniugale), perfino il colore della pelle (la vitiligine).

A suo modo è una maschera tragica anche Andreotti: mai un’emozione su quel volto di cera, mai un gesto per liberare Moro se non il fioretto di rinunciare al gelato, la notte riesce a dormire perché tiene tutto dentro (ma lì dentro succede di tutto, tant’è che si vomita addosso alla notizia del sequestro). Poi ci sono i brigatisti, divisi fra la lotta armata, lo scetticismo sulla rivoluzione proletaria, gli affetti familiari, i barlumi di pietà e l’intransigenza sanguinaria. C’è la famiglia Moro: moglie e figli sempre con la tv accesa ad attendere novità dalle voci di Vespa e Fede, increduli e poi furiosi per i depistaggi dozzinali (le ricerche del cadavere nel lago ghiacciato della Duchessa quando Moro è ancora vivo) e il partito cristiano che al Vangelo preferisce la ragion di Stato, al punto di dichiarare pazzo l’”amico Aldo” per screditare qualunque cosa dirà. E infine papa Montini: diccì anche lui, li conosce tutti dall’Azione Cattolica, già malato consuma gli ultimi respiri torturandosi con cilicio, trattative segrete e appelli pubblici, tenta di trascinarsi all’ultima Via Crucis cercando un crocifisso abbastanza leggero da poterlo sollevare, infine celebra i funerali di Stato dell’amico con tutta la Dc ma senza il feretro e tre mesi dopo muore. Squarci di un’Italia in bianco e nero e di una politica davvero orrenda, che nessuno può rimpiangere se non per un aspetto: che il lutto e la paura costringevano tutti a un minimo di rigore e serietà.

lunedì 5 dicembre 2022

The Menu

"The Menu" di Mark Mylod. Con Ralph Fiennes, Anya Taylor-Joy, Nicholas Hoult, Jon Leguizamo, Janet McTeer, Judith Light, Chau Hong, Aimee Carrero, Paul Adelston, Reed Birney, Christina Brucato, Arturo Castro e altri. USA 2022 ★★★★★

Nel panorama invero piuttosto mediocre di film in programmazione in questo periodo, situazione che senza dubbio peggiorerà ancora nell'imminenza delle festività natalizie, brilla come un gioiello raro questo Menu succulento ideato e ammannito dietro la macchina da presa da Mark Mylod e, sullo schermo, dal Ralph Fiennes (non a caso sono entrambi inglesi e non statunitensi, e quindi con lo humour nero giocano sul loro terreno sebbene in trasferta oltreoceano), nei panni di Julian Slowik, un cuoco stellato che offre, nel suo ristorante situato sull'isola privata di Hawthorne, dove viene prodotto tutto quello che cucina, un'esperienza culinaria esclusiva e indimenticabile, al prezzo pro capite di 1250 dollari. Che possono permettersi soltanto quel tipo di personaggi che già abbiamo visto in azione nell'altro film davvero originale e sanamente cattivo apparso in sala negli ultimi tempi, Triangle of Sadnessla vera feccia dell'umanità, ovvero coloro che si sono arricchiti attraverso l'economia finanziaria e di rapina, o diventati famosi o, come si dice, "autorevoli", nel mondo dello spettacolo e quello ancora più marcio dell'informazione che supporta il sistema. Sono questi i compagni di avventura di Tyler, un sedicente gastronomo attratto come una mosca sulla merda dalla cosiddetta "cucina molecolare" (ne conosco di persona alcuni esemplari in carne e ossa) che, per non andare da solo all'Evento, si fa accompagnare da Margot (Anya Taylor-Joy, già apprezzatissima nella memorabile serie TV La regina di scacchi e in altri film recenti), l'unica commensale che si distingue dagli altri perché totalmente disinteressata al cibo e che, per questo, viene immediatamente notata da Slowik e da questi riconosciuta come appartenente alla categoria di coloro che "spalano la merda" per quelli che hanno tempo e soldi per inseguire status symbol e concedersi "esperienze uniche e irripetibili" come i pranzi preparati da lui stesso e dalla brigata ai suoi ordini, e la mette quindi in guardia. Erin, che in realtà è un'accompagnatrice ingaggiata da Tyler per l'occasione, non appartenendo alla fauna degli abituali frequentatori di Hawthorne, "snasa" da subito che qualcosa non va, mentre gli altri ospiti cominceranno a insospettirsi dalla terza portata in poi, e saranno, come si dice, cazzi acidissimi in un crescendo rossiniano con punte di comicità macabra notevoli e sorprendenti. Ovviamente non dico altro sulla trama, limitandomi a dire che, se The Menu mette alla berlina una certa gastronomia sperimentale e con velleità artistiche, che ormai col cibo non ha più nulla a che vedere e, al contempo, ribadisce le dinamiche all'interno di una professione di cui molto si parla ma poco si conosce realmente, quella che si esercita all'interno delle cucine d'eccellenza, il film è metaforico così come lo era La grande abbuffata di Marco Ferreri uscito mezzo secolo fa, e ha molto più a che vedere con la morte, non solo figurativamente, con l'insostenibilità di un'esistenza senza senso, dove tutto è fuffa, apparenza, danaro, ipocrisia e idiozia. C'è da divertirsi, oltre a stimolare le sinapsi, e il film garantisce gustosissime sorprese, dialoghi ficcanti, colpi di scena e un finale appropriato, che lascia soddisfatto i palati alla ricerca di vendetta contro gli arroganti e gli imbecilli. Oltre ai due attori citati, tutto il resto del cast, scelto con accuratezza,  funziona alla perfezione. Complimenti.