venerdì 9 dicembre 2022

Esterno notte 1 e 2

"Esterno notte 1 e 2" di Marco Bellocchio. Con Fabrizio Gifuni, Margehrita Buy, Toni Servillo, Fausto Russo Alesi, Daniele Marra, Gabriel Montesi, Davide Mancini, Paolo Pierobon, Fabrizio Contri, Pier Giorgio Bellocchio, Gigio Alberti e altri. Italia, Francia 2022 ★★★★★

Mi ero ripromesso di dire la mia sul Esterno notte, la serie coraggiosamente prodotta da RAI Fiction in collaborazione con Arte France, che avevo già visto quando era uscito nella sale cinematografiche, in due parti, nella passata primavera, una volta che fosse stata trasmessa anche in televisione e l'avessi rivisto in quella modalità, cosa che ho fatto nei giorni passati, ma non trovo altro da aggiungere a quanto scrisse Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano il 29 maggio scorso, salvo che, a mio parere, l'impatto e la resa su grande schermo sono decisamente maggiori. Bene comunque ha fatto la RAI a impegnarsi in questa avventura.

Non c’è parola se non capolavoro per descrivere Esterno notte, la serie-film di Marco Bellocchio sul sequestro Moro (...). Dovrebbero vederla tutti per il livello artistico, degno dei migliori Rosi e Volonté. Ma anche per il valore storico, civile e politico: era difficile raccontare la tragedia greca che segnò l’Italia del 1978 e di molti anni a seguire riuscendo a mantenere l’equilibrio fra commozione e melodramma, retorica e cinismo, misteri e complottismi, senza mai cadere in nessuno di quegli opposti. Merito del regista, dei produttori, degli sceneggiatori e di un casting che non sbaglia un colpo: Fabrizio Gifuni (Moro: non lo fa, lo è), Margherita Buy (la moglie Eleonora), Toni Servillo (Papa Paolo VI), Fausto Russo Alesi (Cossiga), Fabrizio Contri (Andreotti), Gigio Alberti (Zaccagnini), Daniela Marra, Gabriel Montesi e Davide Mancini (i brigatisti Faranda, Morucci e Moretti). E poi Paolo Pierobon nei panni di don Cesare Curioni, il capo dei cappellani carcerari che tratta sottobanco mentre il Papa raccoglie 22 miliardi di lire di riscatto che resteranno ammucchiati sul suo tavolo. Tutto intorno, un formicaio di macchiette, ridicole e inquietanti, come il presidente da operetta Leone, il consulente americano Pieczenik e gli altri acchiappafantasmi del Viminale, il sottobosco di diccì mollicci, untuosi e inadeguati alla gravità dell’ora. Ogni tanto Bellocchio solleva lo sguardo dal crudo realismo e si concede licenze poetiche, visionarie ma mai pretestuose. Moro schiacciato dalla croce di Cristo nella Via Crucis, la Faranda che sogna i cadaveri di Moro e dei cinque agenti di scorta trascinati da un fiume, Eleonora incatenata alla sede Dc. E poi il secondo finale che apre e chiude: Moro liberato e subito sigillato in una clinica, secondo il “piano Mike” di Cossiga e Pieczenik per evitare che divulghi i segreti di Stato già svelati alle Br (che inspiegabilmente li ignorarono), che dal letto scandisce un lento e feroce j’accuse al suo ormai ex partito davanti a Cossiga, Andreotti e Zaccagnini lividi e impietriti.

I 55 giorni del sequestro Moro sfilano via in cinque ore di Via Crucis cinematografica che ci leva il fiato e ci restituisce un’Italia che, per fortuna ma anche purtroppo, non c’è più. Un’Italia già immersa da nove anni (dalle stragi nere al terrorismo rosso) nel sangue dei delitti politici e ora costretta pure a scegliere fra la vita di un uomo (sulla pelle dei cinque agenti della scorta assassinati in via Fani) e quella dello Stato (che non può riconoscere le Br) dal doppio ricatto dello statista con le sue lettere imploranti e dei terroristi con i loro comunicati deliranti.

Nei sei episodi del film, Bellocchio infila la telecamera negli occhi di ogni protagonista della tragedia per mostrarla da ogni prospettiva. C’è il potente Moro che convince con un emolliente discorso la Dc riottosa ad accettare i voti degli odiati comunisti al primo governo Andreotti di solidarietà nazionale, poi nottetempo vede Berlinguer nella sua auto, poi rincasa, si frigge un uovo, controlla maniacalmente che le manopole del gas siano chiuse, raccomanda alla figlia Agnese di lavarsi le mani, raggiunge Eleonora in camera per l’ennesima notte insonne e l’indomani si ritrova addosso il sangue della scorta per finire in un loculo di cartongesso: uniche compagnie una branda, una Bibbia, una biro, qualche foglio e drappo rosso con la stella a cinque punte, finché non arriva un prete incappucciato per l’ultima confessione e comunione. Poi Cossiga che si macera nell’impotenza, preso tra amicizia e ragion di Stato, mentre giorno dopo giorno perde l’amico (che gli scrivere lettere di fuoco), la fiducia (sa di aver intorno piduisti e depistatori, ma anche di non poterli sostituire), il sonno (ascolta inutili intercettazioni e parla con i colleghi radioamatori), la salute (già compromessa dalla ciclotimia e dal dramma coniugale), perfino il colore della pelle (la vitiligine).

A suo modo è una maschera tragica anche Andreotti: mai un’emozione su quel volto di cera, mai un gesto per liberare Moro se non il fioretto di rinunciare al gelato, la notte riesce a dormire perché tiene tutto dentro (ma lì dentro succede di tutto, tant’è che si vomita addosso alla notizia del sequestro). Poi ci sono i brigatisti, divisi fra la lotta armata, lo scetticismo sulla rivoluzione proletaria, gli affetti familiari, i barlumi di pietà e l’intransigenza sanguinaria. C’è la famiglia Moro: moglie e figli sempre con la tv accesa ad attendere novità dalle voci di Vespa e Fede, increduli e poi furiosi per i depistaggi dozzinali (le ricerche del cadavere nel lago ghiacciato della Duchessa quando Moro è ancora vivo) e il partito cristiano che al Vangelo preferisce la ragion di Stato, al punto di dichiarare pazzo l’”amico Aldo” per screditare qualunque cosa dirà. E infine papa Montini: diccì anche lui, li conosce tutti dall’Azione Cattolica, già malato consuma gli ultimi respiri torturandosi con cilicio, trattative segrete e appelli pubblici, tenta di trascinarsi all’ultima Via Crucis cercando un crocifisso abbastanza leggero da poterlo sollevare, infine celebra i funerali di Stato dell’amico con tutta la Dc ma senza il feretro e tre mesi dopo muore. Squarci di un’Italia in bianco e nero e di una politica davvero orrenda, che nessuno può rimpiangere se non per un aspetto: che il lutto e la paura costringevano tutti a un minimo di rigore e serietà.

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