lunedì 29 maggio 2023

This Is Not a Drill

Roger Waters - This Is Not a Drill - Live dalla 02 Arena di Praga del 25 maggio. Con Roger Waters (vocals, bass guitar, acoustic guitar, electric guitar, piano), Jon Carin (keyboards, guitar, pedal steel guitar, vocals, Marxphone), Dave Kilminster (guitar, vocals), Jonathan Wilson (guitar, vocals), Gus Seyffert (bass guitar, guitar, vocals, accordion), Joey Waronker (drums, percussion), Amanda Belair (background vocals, percussion), Shanay Johnson (background vocals, percussion), Robert Walter (Hammond B3 organ, keyboards, piano, melodica), Seamus Blake (saxophone, clarinet).

Persa l'occasione dei 7 concerti italiani tra marzo e aprile a Milano e Bologna, ho felicemente approfittato della trasmissione in diretta tramite Nexo Digital di quello tenutosi alla 02 Arena di Praga giovedì scorso: imperdibile. Una delle ultime proiezioni nelle sale dello storico Cinema Centrale di Udine, che fa parte del Gruppo Visionario, in via di dismissione: chiuderà in settembre, per lasciare spazio, pare, all'ennesimo supermercato. La speranza è che il nuovo sindaco De Toni ascolti il grido di dolore e trovi una soluzione per impedire il misfatto ma la vedo dura, se anche per un evento del genere la sala era semivuota. Giovani, pochi: ma questo era già più prevedibile. Riguardo al concerto non ho nulla da aggiungere all'articolo che Andrea Scanzi aveva pubblicato su Il Fatto Quotidiano del 28 aprile scorso e che ripropongo più sotto, mentre ci tengo a segnalare, come già fatto da Waters in persona durante il concerto, che l'imbecillità non ha limiti né frontiere: l'artista e attivista britannico è stato indagato dalla polizia tedesca (il colmo del grottesco) per "istigazione all'odio" per aver indossato una divisa da ufficiale delle SS durante la tappa berlinese del tour il 17 maggio scorso. Cosa che ha fatto in tutte le date della tournée all'inizio della seconda parte del concerto che si apre con In the Flesh, Run Like Hell e Déja Vu, e già dai tempi del film di Alan Parker The Wall del 1982.  Come se non bastassero le accuse di essere antisemita per il solo fatto di essere contrario alla politica dei governi israeliani nei confronti dei palestinesi (che, peraltro, sono semiti quanto gli ebrei), oltre che putiniano perché da sempre coerente pacifista. Mala tempora currunt...

Il concerto che Roger Waters riproporrà stasera e domani all’Unipol Arena di Bologna, dopo la data di una settimana fa e i quattro sold-out di marzo a Milano, poggia principalmente su due binari: quello politico e quello della memoria.

Palco enorme a croce, band pazzesca. Due ore e venti minuti di musica, con pausa poco sotto la mezzora. Scaletta di pregio (con qualche sorpresa), ogni sera tutto esaurito cascasse il mondo (in qualsiasi parte del mondo).

Waters è un precursore degli effetti speciali, che in questo spettacolo costituiscono una vera e propria narrazione nella narrazione: il sempiterno maiale che vola, e stavolta pure la pecora che volteggia durante l’esecuzione di Sheep, una delle tre suite-capolavoro del sottovalutato Animals. Sui due maxischermi scorrono esecuzioni, discorsi vomitevoli di Reagan (e non solo di Reagan), animazioni inquietanti, cecchini efferati. Con Waters la speranza non ha mai avuto granché spazio e, se possibile, negli anni il deflagrare delle bombe e l’odore di morte e ingiustizia è persino aumentato. Anche solo il video che introduce il concerto e accompagna Comfortably Numb, riproposta nella versione penitenziale delle Lockdown Sessions, è una chiara dichiarazione d’intenti: l’umanità è al collasso, “piacevolmente insensibile” (il significato di Comfortably Numb) e rincoglionita così tanto da essersi “divertita da morire” (il titolo del suo capolavoro solista del 1992 è appunto Amused To Death).

“Forse la razza umana è terminata”, si domandava questo genio enorme e ingestibile (anche e soprattutto da se stesso) in Two Suns In The Sunset, la traccia conclusiva di The Final Cut, e non è un caso che il brano venga recuperato poco prima del commiato.

Il tour si chiama This Is Not A Drill, “Questa non è un’esercitazione”, e Waters l’ha presentato come “il mio primo tour d’addio”. Verosimilmente anche l’ultimo, perché il tempo passa pure per i miti (Roger ha 79 anni). Mai questo iper-pacifista ragionevolmente incarognito col mondo si era così raccontato sul palco: è proprio un Waters ciarliero, e dunque doppiamente spiazzante. C’è l’elemento politico, se possibile ancora più preponderante del solito: i soprusi del potere, la condanna della guerra (qualsiasi guerra), la vicinanza nei confronti delle minoranze (i nativi americani, le popolazioni indigene dell’Ecuador), l’abbraccio a Julian Assange. Waters scudiscia i potenti, che per lui restano “pigs on the wing” come la sua arcinemica degli Ottanta “Maggie” Thatcher, e ha il dente particolarmente avvelenato con gli Stati Uniti: Reagan e i Bush, ma pure Obama, certamente Trump e senza dubbio Biden, che “ha appena cominciato” la sua carriera da “criminale di guerra”.

Gli idioti accusano Waters di essere “antisemita”, accusa vile come quella di “filo-putiniano” (tra i war criminal, ovviamente, compare anche lui). L’unica “colpa” di Waters è quella di essere orgogliosamente vicino al popolo palestinese, a cui dedica una volta di più la splendida Déjà Vu indossando la kefiah. È un concerto tanto bello quanto doloroso, e chi non piange almeno una volta ha seri problemi di empatia (Us and Them, con quelle immagini che la suggellano, è davvero insostenibile). Waters si esibisce più volte al piano – rarità quasi biblica – e insiste sulla metafora del concerto inteso come bar, e quindi luogo di incontro e confronto. The Bar è anche il titolo dell’unico inedito, che viene ripreso alla fine – citando Sad Eyed Lady Of The Lowlands, gemma di Bob Dylan che Waters ha sempre amato – con dedica tripla: allo stesso “Bob”, alla quinta moglie di Roger e a suo fratello maggiore, scomparso un anno fa (e qui Waters si commuove, dopo aver buttato giù un bicchierino di Mezcal).

Se la parte politica scuote e strazia, quella della memoria commuove oltremodo. Waters racconta della sua amicizia con Syd Barrett, dei tempi con i Pink Floyd (in foto sfilano tutti tranne David Gilmour: i due si odiano) e di quanto sia facile smarrire se stessi, proprio come accadde a Syd, perché vivere è dannatamente complicato e “non è un’esercitazione”. Infiniti gli apici musicali (e visivi): Have A CigarWish You Were HereShine On You Crazy Diamond Part VI-VII-VRun Like Hell (dove Waters torna a indossare il ruolo del Pink dittatoriale di The Wall, con tanto di smitragliata alla folla), Déjà VuUs And Them. Alla fine si torna a piangere, perché Waters saluta tutti con Outside The Wall, il gioiellino che concludeva The Wall. Applausi, tripudio, ovazione.

Roger Waters è uno dei più grandi geni degli ultimi 37 secoli (a stare bassi). E se questo sarà davvero il suo ultimo tour, vivere senza più poterlo abbracciare dagli spalti non sarà che la malinconica conferma di quanto sia purtroppo calzante la frase che conclude The Dark Side Of The Moon: “In realtà non c’è nessun lato oscuro della luna. Di fatto è tutta scura”. Shine On, Roger.

venerdì 26 maggio 2023

Ritorno a Seoul

"Ritorno a Seoul" (Rétour à Seoul) di Davy Chou. Con Ji-min Park, Kwang rok-Oh, Guka Han, Kim-Sun Young, Yoann Zimmer, Louis-Do de Lencquesaing, Huor Ouk-Sook, Emeline Briffaud, Lim Cheol-Hyun, Son Seung-beom e altri. Francia, Cambogia, Germania, Belgio, Corea del Sud, Romania, Qatar 2022 ★★★★+

Secondo lavoro per il franco-cambogiano Davy Chou (il primo, Diamond Island, del 2016, non mi risulta essere stato distribuito in Italia) che si avvale di una nutrita coproduzione internazionale per un film, presentato l'anno scorso a Cannes nella sezione Un certain regard, tanto convincente quanto poco banale, che si ispira alla vicenda di una sua amica e non estranea nemmeno a lui stesso e alla bravissima Ji-min Park, attrice non professionista (è una scultrice e video-artista ben quotata) la quale, oltre a intervenire sulla sceneggiatura imponendo alcune correzioni sul suo personaggio al regista, interpreta con stupefacente naturalezza la venticinquenne la parigina di origine coreana Freddie Benoit, adottata da piccolissima da una coppia francese che, a suo dire per una serie di coincidenze (un volo per Tokio cancellato), si trova a passare due settimane di vacanza, che coincidono con il suo compleanno, a Seoul. Non del tutto casualmente, si ha subito l'impressione. Lega immediatamente con Tena, che lavora alla reception della guesthouse dove stabilisce la sua base, con cui riesce a intendersi in francese e inglese, e con lei comincia a entrare a contatto con l'ambiente, le consuetudini e la mentalità coreane, del tutto in contrasto e incomprensibili, come del resto la lingua, con la sua personalità e la sua educazione tipicamente europea e transalpina in particolare: all'apparenza appare spavalda, moderna, sicura di sé, indipendente, lontana anni luce dal formalismo e dalle compassate maniere asiatiche, in realtà la sua disinvoltura, a cominciare dal rapporto con gli uomini (nulla di morboso nelle immagini) appare sempre più una corazza con cui la ragazza protegge la propria insicurezza, cosa che diventerà chiara col procedere del racconto. Dopo qualche giorno, infatti, si mette in contatto con la Hammond, una società che si occupa di adozioni che, essendo in possesso del suo fascicolo, è in grado di metterla in contatto con i suoi genitori biologici: il padre accetterà di vederla, mentre la madre non risponde al telegramma con cui l'ente chiede la disponibilità a un incontro. Con Tana Freddie si reca a Gunsan, dove vive la famiglia del suo genitore, e l'esperienza con suo padre, un alcolizzato vittimista e che insiste nel volerla "recuperare" e farne una coreana, è piuttosto traumatica. Due anni dopo Freddie torna a Seoul anche per motivi di lavoro e sul fronte paterno la musica non è cambiata, nonostante i tentativi dell'uomo di modificare il suo comportamento, mentre ancora nulla si muove da parte materna; solo la terza volta che la ragazza torna a Seoul, sette anni dopo la prima, cambiata anche nell'aspetto fisico, oltre che divenuta una donna d'affari (si occupa di armamenti: per difendere la Corea del Sud da quella del Nord...) e, all'apparenza, ancora più sicura di sé, oltre a essere ormai in grado ci comprendere abbastanza bene la lingua, la madre accetterà di vederla, per una sola volta, in una scena completamente muta dove crollano tutte le difese della protagonista ed emerge il dolore profondo per il vuoto che sente dentro di sé a causa del senso di mancanza di qualsiasi radice o punto di riferimento, per cui questi ritorni nella terra natìa si rivelano, di fatto, un viaggio alla ricerca della propria identità più profonda. Compito ancora più difficile per una persona che si sente come un pesce fuor d'acqua e un'estranea sia nella realtà francese in cui è cresciuta ed è stata educata, sia in quella coreana. Il tutto raccontato con estremo nitore, naturalezza, senza cedere al melodramma e al sentimentalismo, con eleganza, partecipazione e intelligenza. Un gran bel film.

martedì 23 maggio 2023

Pacifiction - Un mondo sommerso

"Pacifiction - Un mondo sommerso" (Tourment sur les îles) di Albert Serra. Con Benoît Magimel, Pahoa Mahagafanau, Marc Susini, Matahi Panbrun, Alexandre Melo, Sergi Lopez, Montse Triola, Lluis Serrat, Baptiste Pinteaux, Mike Landscape, Cécile Guilbert, Marewa Wong, Cyrus Arai e altri. Spagna, Francia, Germania, Portogallo 2022 ★★★★

Ottavo film per lo spagnolo Albert Serra, il primo che mi capita di vedere: straordinario e, a suo modo, memorabile. Perché ci vuole del genio a tenere lo spettatore inchiodato per oltre due ore e quaranta minuti a vedere, o meglio immergersi, in un film senza alcuna trama, un flusso di brevi conversazioni, per lo più formali, scambi di idee, considerazioni personali che l'Alto Commissario della Repubblica nella Polinesia francese De Roller, interpretato in maniera superba da Benoît Magimel, a volte trascrive sul suo quaderno d'appunti oppure affida alle orecchie delle persone di cui si fida di più, a cominciare da Shannah, una trans che lavora in un resort e talvolta lo accompagna nelle sue puntate in giro per le isole. De Roller, uomo disincantato, colto e sinceramente innamorato di Tahiti, da bravo diplomatico, fa una vita di pubbliche relazioni, parla con chiunque, è sempre disponibile: tiene i contatti con gli esponenti politici locali così come con gli expats (ché tali si considerano tutto sommato i francesi metropolitani sulle isole, benché siano da un punto di vista legale sul suolo della madrepatria), ma anche con avventurieri di vario genere, con investitori, con dei gruppi ecologisti e indipendentisti e, ovviamente, militari della Marina, capeggiati da uno strampalato ammiraglio, che da un po' di tempo frequentano una specie di Night Club dove l'Alto Commissario, sempre in abito bianco, fisico non proprio scultoreo, si fa spesso vedere ed è un po' la sua base per tastare il polso della situazione. Soprattutto da quando gira la voce che, da qualche parte al largo dell'isola, sia presente un sottomarino sul quale ogni tanto vengono portate delle ragazze per "soddisfare" l'equipaggio che non può sbarcare, perché la ragione della sua presenza pare sia la ripresa degli esperimenti nucleari già compiuti negli anni Sessanta negli atolli di Mururoa e Fangataufa, che hanno lasciato tracce dolorose nella memoria, anche genetica, della popolazione locale. Ufficialmente De Roller non ne sa nulla perché il suo governo nulla gli ha comunicato in proposito, ma qualcosa non torna nemmeno a lui e così si mette a indagare. Trattandosi di Tahiti, uno dei luoghi che scatena la fantasia di qualsiasi amante dell'esotico, ci si sarebbe aspettato che il regista facesse largo uso dei panorami mozzafiato e degli scorci paradisiaci che la natura offre in quella parte del globo, e invece Serra si limita a offrirci un paio di tramonti rosso fuoco, a una ripresa dall'alto mentre il De Roller e Shannah volano su un'altra isola a parlare con un amico che si è candidato a sindaco e a una escursione del diplomatico, abbastanza controvoglia e sempre in abito bianco, a bordo di un acquascooter, tra i surfisti in attesa di una mareggiata memorabile. Papeete, la capitale, non la si vede mai, nemmeno alberghi di lusso e resort per turismo miliardario, ma locali normali, residence modesti, porticcioli e cantieri di rimessaggio di piccoli yacht senza pretese. In pratica un mondo sospeso, in cui si gira a vuoto, gente che non ha cognizione della storia e memoria (come nell'unico momento in cui De Roller perde per un po' il suo aplomb riconosce con delusione, lamentando la scomparsa della memoria storica e dei valori illuministi, a cominciare dalla razionalità e dalla coscienza di sé) e che così andrebbe avanti all'infinito, fino alla scossa finale dovuta alla farneticazione, quanto mai credibile, dell'ammiraglio della Marina: non posso aggiungere altro per non rovinare la sorpresa a chi seguirà il mio consiglio di non lasciarsi scappare questa chicca preziosa.

domenica 21 maggio 2023

Plan 75

"Plan 75" di Chie Hayakawa. Con Chieko Baisho, Hayato Isomura, Stefanie Arianne, Yumi Kawai, Taka Takao, Hisako Ôkata, Kazuyoshi Kushida, Mari Nakayama, Motomi Makiguchi, Koshirô Asami, Hiroaki Kawatsure, Masahiro Umeda, Tsuyoshi Kondo e altri. Giappone, Francia, Filippine 2022 ★★★★

Felice esordio della regista giapponese Chie Hayakawa, con un film dolente, meditativo, profondamente umanista ed elegante come conviene alla tradizione cinematografica del suo Paese, che non definirei di fantascienza, come pure è stato superficialmente catalogato da più parti, bensì lievemente distopico: quel tanto che serve per collocare un po' più in là alcune tendenze di fondo di cui si ha già sentore da qualche decennio nel mondo cosiddetto sviluppato, e rendono perfettamente plausibile un progetto statale come quello che si immagina abbia introdotto in un futuro quanto mai prossimo il governo nipponico, consentendo agli anziani che abbiano compiuto i 75 anni, soli, senza lavoro e con problemi abitativi di accedere volontariamente a un programma di eutanasia legale con agevolazioni economiche e assistenza personalizzata da parte di solerti e gentilissimi impiegati assunti allo scopo di seguire le adesioni. Il tutto per fare fronte al sempre più impetuoso invecchiamento della popolazione che si scontra con l'altrettanto drastico calo delle nascite e che innesca la necessità di una sorta di welfare all'incontrario come soluzione almeno parziale a un problema innescato proprio dalla cieca adozione del modello economico-sociale che l'ha causato. Il tutto sullo sfondo di una etica del sacrificio in nome del bene della nazione che pervade la società del Sol Levante, e che vede quindi il Plan 75 ottenere un discreto successo fin dal suo lancio, reso più urgente dalla crescente insofferenza dei più giovani verso gli anziani. La regista affronta la questione da tre punti di vista: quello di Michi, il personaggio principale affidato all'attrice e cantante Chieko Baisho, una 78 enne sola, che ha perso il suo lavoro di donna delle pulizie in un albergo e sta per essere sfrattata dall'appartamento in cui vive ed è alla vana ricerca di un altro impiego, che vede nel piano una via d'uscita dignitosa ai suoi problemi ma comincia a dubitarne quando entra in contatto personale, e non solo telefonico, con la giovane e sensibile addetta di Plan 75 che la segue e le telefona una volta alla settimana per una sorta di supporto psicologico; quello di Hiromu, un altro impiegato del programma, il quale scopre che un suo "cliente" è lo zio paterno che non vedeva da quando era bambino, infine quello di Maria, una giovane infermiera filippina che per curare la propria figlia lontana e malata accetta un posto ben pagato in una struttura del Piano e quindi vede in prima persona con quale cinismo e indifferenza questo viene messo in atto in concreto. ll forte impatto emotivo del film è dovuto proprio alla sua grande credibilità: un'idea del genere non è lontana dal poter essere partorita dalle menti (si fa per dire) di chi ci governa, per cui la vecchiaia, dopo essere diventata un lucroso affare per chi si occupa di sanità e di assistenza, ovviamente a pagamento e per chi se lo può permettere, diventa pure una colpa da espiare per chi invece è impossibilitato a permettersi cure e rette di case di riposo, essendosi nel frattempo pressoché dileguata l'assistenza pubblica, per cui in sostanza è più conveniente per lo Stato levarsi l'incomodo di provvedere allestendo un sistema di uscita dalla vita pulito, senza traumi, con tanto di tutor personale e una mancetta di 100 mila yen (circa 600 €) per concedersi un'ultimo sfizio. Per rendere la cosa più accettabile, rimane naturalmente la possibilità di recedere all'adesione al piano anche all'ultimo momento, e la chiamano "libertà di scelta" dopo averla subdolamente indotta, lasciandola ancora una volta sulle spalle di chi di fatto non ha altre prospettive davanti a sé, e comunque non ha nulla a che fare con il sacrosanto diritto all'eutanasia e a disporre riguardo alle cure a cui essere o meno sottoposti. La psicologia e le reazioni dei personaggi sono trattate con grande attenzione e sottigliezza, e questo si deve anche alla bravura degli interpreti; l'idea del film è comunque estremamente valida così come la regìa, che non cade mai nel patetico né nel didascalico: l'ottima accoglienza ricevuta al Festival di Cannes e a quello di Torino nella scorsa stagione non è casuale e si deve ringraziare la benemerita Tucker Film di Udine di averne curato la distribuzione nelle sale italiane. 

giovedì 18 maggio 2023

Air - La storia del grande salto

"Air - La storia del grande salto" (Air) di Ben Affleck. Con Matt Damon, Ben Affleck, Jason Bateman, Chris Messina, Matthew Maher, Chris Tucker, Viola Davis, Julius Tennon, Marlon Wayans e altri, USA 2023 ★★★

Secondo un noto luogo comune, il basket è un gioco semplice per persone intelligenti: per me rimane un mistero, così come lo sono il baseball e il football americano, altri due sport inventati negli USA, anche se dei tre che da quelle parti spopolano è quello più guardabile, almeno da un punto di vista estetico. Stupefacente è che sia nato in un Paese in cui i cretini abbondano, o forse sono io a esserlo. Non amo gli yankees e non amo gli sport da yankees, per cui ho affrontato con molta circospezione questo film, attirato soltanto dalla presenza di un trio di attori che hanno tutta la mia stima: Affleck, Damon e Bateman, il primo dei quali nell'occasione anche regista (Argo, il suo esordio in questa veste, era stato un film convincente). La trama è molto semplice: ricostruisce in maniera agile e tutto sommato piuttosto credibile il come, nel 1984, la Nike abbia convinto il giovane Michael Jordan (uno dei più grandi cestisti esistiti, che conosco perfino io), allora ventunenne e che non aveva ancora ancora esordito nella NBA, a firmare un contratto in esclusiva con l'azienda, che allora era solo il terzo produttore di scarpe da pallacanestro dietro a Converse e Adidas, e che stava valutando se chiudere quel reparto. Il tutto si deve alla testardaggine e visionarietà di Sonny Vaccaro (Damon), scopritore di talenti in erba, assiduo frequentatore di palestre di scuole e di allenatori, oltre che di casinò, di passaggio, assunto proprio per questi requisiti da Phil Knight (fondatore di Nike, ruolo che si è riservato Affleck) che riesce a convincere il boss e il direttore del marketing Rob Strasser (Bateman) a investire l'intero budget di 250 mila dollari su un solo giocatore, appunto Jordan, che notoriamente preferiva di gran lunga indossare scarpe Converse e tute Adidas, invece che spalmarlo su quattro atleti diversi. Ancora più dura, però era convincere il giocatore e Vaccaro ci riuscì conquistando la fiducia della madre-manager (Viola Davis) azzeccando tutte le parole che avrebbe sentito dai dirigenti della concorrenza, la quale offriva all'incirca la stessa cifra, e proponendo di creare una calzatura di nuova concezione da mettere sul mercato che portasse il nome del figlio: la donna accettò a condizione di ottenere una percentuale su ogni pezzo venduto in tutto il mondo, una novità assoluta negli schemi finanziari delle aziende sportive, e rischiosa per una società quotata in borsa, che il grande capo della Nike, un originale runner buddhista, sorprendentemente accettò. Tutto il film gira attorno al concetto, più volte ripetuto, che la scarpa è solo una scarpa finché qualcuno non la indossa, in questo caso Michael Jordan: curioso che proprio lui venga interpretato da una controfigura che nel film si vede solo di spalle e non si sente mai pronunciare nemmeno una parola, mentre il trio di simpatiche star di cui sopra interpreta personaggi realmente esistiti e in buona parte tuttora in vita e la stessa Viola Davis sia stata segnalata ad Affleck da MJ in persona per interpretare sua madre. Nonostante la sostanziale e prevedibile lode del sistema capitalistico nella sua versione più pura e dell'american way of life e of sport, lo fa con una certa ironia; il film risulta gradevole e agile, decisamente guardabile e a suo modo interessante, anche se un po' ruffiano la sua parte. Di buono c'è anche che non perde nulla vederlo sul piccolo schermo: lo trovate su Amazon Prime

venerdì 12 maggio 2023

Mon crime - La colpevole sono io

"Mon crime - La colpevole sono io" (Mon crime) di François Ozon. Con Nadia Tereszkiewicz, Rebecca Marder, Fabrice Luchini, Isabelle Huppert, Dany Boon, Olivier Broche, André Dussollier, Jean Christophe Bouvet, Félix Lefebrvre, Michel Fau, Adostina Rogliano, Édouard Sulpice e altri. Francia 2023 ★★★★1/2

Frizzante e raffinato come il migliore champagne, riecco François Ozon al massimo della sua forma espressiva e del suo spirito birbante: in Mon crime riprende una pochade che, invertendo il segno del dramma giudiziario che prevede tradizionalmente l'innocente portato alla sbarra, sbertucciava le logiche processuali nonché una serie di luoghi comuni e aveva avuto un grande successo teatrale nella Parigi della metà degli anni Trenta, e ambienta con evidente divertimento il suo film negli stessi anni. Un primo plauso va fatto al trailer con cui era stato presentato nelle scorse settimane e che viene proposto dopo la parole Fine mentre scorrono i titoli di coda: mostra gli attori in scene che non esistono nella pellicola (ma potrebbero starci), una sorta di "fuori onda", per raccomandarlo; un altro alla bravura dell'intero cast, senza eccezioni, a tutta evidenza perfettamente sulla stessa lunghezza d'onda del regista che l'ha scelto e lo dirige; un terzo al ritmo indiavolato e alle battute che si susseguono a raffica che ricordano da vicino capolavori di maestri come Lubitsch/Wilder (peraltro espressamente citato) e Hawks (La signora del venerdì). Eppure Mon crime è quanto mai attuale, trattando tanto della spettacolarizzazione della giustizia quanto dei mille aspetti che può assumere la Verità: un ambito che ha a che fare con l'ambiguità in tutte le sue forme, da sempre al centro dell'interesse di Ozon, e della sua rappresentazione: quale palcoscenico migliore che un'aula di giustizia? Vi finisce una giovane attrice squattrinata, Madeleine Verdier (Nadia Tereszkiewicz), dopo che è stata accusata da un giudice inetto (il grande Fabrice Luchini) dell'omicidio del potente e ricco produttore teatrale che le avrebbe offerto una parte ben remunerata in cambio di prestazioni sessuali: su istruzioni di Pauline (Rebecca Marder), l'amica con cui convive, avvocatessa finora senza clienti che la difende, si autoaccusa del delitto invocando la legittima difesa. Entrambe intravedono nel caso (mediatico) un trampolino di lancio per le rispettive carriere: il loro nome circolerà, un caso così pruriginoso scatena i cronisti di nera e la curiosità dei lettori e la stampa ha tutto l'interesse per montarlo. Nella girandola di personaggi che a vario titolo entrano nella vicenda: l'affittacamere che perseguita le due ragazze che non riescono mai a pagare il canone per tempo; il giovane spasimante di Madeleine, figlio di un produttore di pneumatici in crisi (Dussollier) che lo vorrebbe accoppiare a un potenziale investitore che lo salvi dal fallimento; un ricco ipotetico finanziatore (Boon) amico del giudice; infine una vecchia attrice dei tempi del cinema muto in attesa di una parte per riciclarsi che, a sorpresa, rivendica a sua volta l'omicidio, una Isabelle Huppert strepitosa, che quando entra in scena, a tre quarti del film, lo rende del tutto irresistibile. Arguzia, senso dello spettacolo, puro divertissement di altissimo livello, leggero e arguto allo stesso tempo: c'è davvero tutto e al meglio. Un grandissimo spasso, lascerete la sala più leggeri di quando vi siete entrati. Se possibile, da godere in lingua originale sottotitolato.

domenica 7 maggio 2023

Edificio 3 - Storia di un intento assurdo


"Edificio 3 - Storia di un intento assurdo" scritto e diretto da Claudio Tolcachir. Con Rosario Lisma, Stella Piccioni, Valentina Picello, Giorgia Senesi, Emanuele Turetta. Traduzione di Rosaria Ruffini: luci di Claudio De Pace; costumi di Giada Masi. Produzione Piccolo Teatro di Milano-Teatro d'Europa, Carnezzeria srsl, Timbre-4 in collaborazione con Aldo Miguel Grompone. Al Teatro Verdi di Pordenone

Felice e gradito ritorno del drammaturgo e regista argentino Claudio Tolcachir, già noto al pubblico nostrano per Il caso della famiglia Coleman ed Emilia, il quale dirige qui per una produzione del Piccolo di Milano assieme a Carnezzeria la versione italiana di uno spettacolo presentato per la prima volta e Buenos Aires nel 2008. Edificio 3 è l'unico rimasto di quelli di un'azienda pubblica, forse un ministero o un ente parastatale, dopo che altri due sono stati abbattuti e lì si trova l'ufficio dove si svolge la vita di tre impiegati che pur non avendo nulla da fare, perché non arrivano più carte, spesso manca la luce (cosa che capita spesso in Argentina) o non funzionano le linee del telefono passano gran parte delle loro giornate in quegli spazi: forse sono stati dimenticati lì e, almeno per il momento, non sono stati "dismessi" pure loro. Un luogo kafkiano, o anche un non luogo, dove mettono in scena le loro vite fingendo che tutto sia normale e loro stessi di essere quello che non sono: nell'atto unico della durata di un'ora e mezzo scarsa, attraverso dialoghi surreali e talvolta grotteschi scopriremo il loro segreti e la loro totale incapacità di relazionarsi non solo tra di loro, ma anche col prossimo e, soprattutto con sé stessi. Moni (l'effervescente Valentina Picello, premio Ubu come migliore attrice per il 2022) è una maniaca dell'ordine che non avendo una vita propria si impiccia sistematicamente di quella degli altri e in particolare dei suoi due colleghi: Sandra (Giorgia Senesi), una donna in apparenza perfettina ma in ritardo su tutto che desidera ardentemente un figlio e inventa un marito inesistente non solo ad uso dei colleghi ma della dottoressa a cui i rivolge per ricorrere all'inseminazione artificiale, ed Ettore (Rosario Lisma), un patetico cinquantenne mai cresciuto, una sorta di Fracchia vissuto all'ombra di una madre opprimente appena morta e dal cui ricordo tenta di emanciparsi con tentativi penosi. In parallelo, nello stesso spazio ma senza incrociare gli altri se non nel finale, vive, o meglio tenta un dialogo, una coppia più giovane: Sofia (Stella Piccioni), una ragazza innamorata di Manuel (Emanuele Turetta), un disadattato, borderline, che al contrario non vuole impegni e tantomeno un futuro e un figlio da lei, che scopriremo essere tormentato dalla propria omosessualità quando viene alla luce la sua relazione con Ettore, così come in realtà anche Moni nasconde il fatto di non avere nemmeno una casa, vivendo nell'ufficio anche di notte e, al contempo, la vita dei suoi colleghi... Un po' commedia, un po' dramma, Edificio 3 racconta di solitudini e di precarietà, di attesa e di maschere a cercare di celare i propri fallimenti. Si ride ma con l'amaro in bocca di situazioni molto più reali di quello che un tono scanzonato e irridente lascerebbero pensare. Interpreti tutti di ottimo livello, regia agile, un bel lavoro.


giovedì 4 maggio 2023

L'innamorato, l'arabo e la passeggiatrice

"L'innamorato, l'arabo e la passeggiatrice" (Viens je t'emmène) di Jean-Charles Clichet, Noémie Lvovsky, Ilies Kadri, Michel Masiero, Doria Tillier, Renaud Rutten, Farida Rahouadj, Philippe Fretun, Miveck Packa, Nathalie Boyer e altri. Francia 2022 ★★★★

Ennesimo titolo cretino oltre che inutile inventato dalla distribuzione nostrana per una godibilissima e lieve commedia dell'assurdo con tocchi di umorismo nero e al contempo estremamente realistica nel descrivere la condizione umana e le contraddizioni delle persone reali, il tutto sullo sfondo di un ipotetico attentato terroristico di matrice islamica che colpisce la città di Clermont-Ferrand, capoluogo del'Alvernia, cuore della Francia più profonda e lontana dalle luci della ribalta (e anche la regione in cui, secondo me, si mangia meglio e al miglior prezzo in tutto il Paese, e la gente è decisamente più simpatica che altrove). La mattina dopo il fatto, ignaro, il trentenne Méderic sta facendo, nella sua fiammante tuta da runner, la sua corsa mattutina per le strade della città quando si imbatte in Isadora, una prostituta sulla cinquantina e se ne innamora perdutamente, al primo sguardo, proponendole con tutta naturalezza e seriamente di fare sesso, ma non a pagamento, perché cozzerebbe contro i suoi sentimenti e inoltre è contrario per principio al meretricio: richiesta paradossale, che lascia dapprima interdetta la donna ma comunque colpita; altrettanto sorprendentemente Isadora accetta, dandogli appuntamento in un sordido albergo diretto da un altro personaggio, tra l'untuoso e l'ambiguo, splendidamente caratterizzato da Michel Masiero, che ha per assistente una ragazza nera, un'universitaria che dimostra molto meno della sua età. Al primo incontro erotico, esplosivo, ne seguiranno altri, sempre furtivi, perché la donna è regolarmente sposata con un uomo gelosissimo, pur essendo perfettamente al corrente del mestiere della moglie, che non tarda a scoprire la tresca, interrompenodoli sul più bello e intromettendosi nella loro relazione per scoraggialra. Sullo sfondo, una città entrata in paranoia per la caccia all'islamico, in particolare gli abitanti del condominio in cui abita Méderic, un campionario di umanità decisamente varia, che ha da ridire perché il nostro eroe ha fatto entrare nell'androne del palazzo Selim, un giovane ragazzo arabo, per ripararsi dalla pioggia: ecco il terzo personaggio dello strampalato titolo italiano, che in seguito troverà il modo di farsi accogliere nell'appartamento del protagonista e scopriremo alla fine il motivo. Non vado oltre nell'illustrare la trama del film perché le sorprese e le curiose coincidenze che caratterizzano l'irridente vicenda si succedono e infittiscono man mano; dialoghi e situazioni tanto più realistici quanto apparentemente folli, in un corto circuito tra la vita raccontata dai media, tradizionali o sociali che siano, e quella reale; la gente comune irretita dalla caccia agli attentatori fuggitivi che vede il pericolo ovunque, specie nell'arabo, e al contempo capace di gesti di sorprendente  generosità e considerazioni di raro buon senso; di totale ottusità ma anche di grande comprensione per la natura umana, anche quando è segno di "diversità". Un film strambo, ironico, imprevedibile e anch'esso "diverso": a mio parere una vera chicca, preziosa, con degli ottimi interpreti che lo rendono credibile. Raccomandato.

lunedì 1 maggio 2023

Il sol dell’avvenire

“Il sol dell’avvenire” di Nanni Moretti. Con Nanni Moretti, Margherita Buy, Silvio Orlando, Barbora Bobulova, Mathieu Amalric, Valentina Romani, Teco Celio, Jerzy Stuhr, Elena Lietti e altri. Italia, Francia 2023 ★★★★★

Come già ribadito più volte, in queste mio spazio, ormai dedicato per lo più ad annotazioni cinematografiche, non c'è alcuna concessione all'obiettività: di punti di vista personali e strettamente soggettivi si tratta, compresi i "pregiudizi positivi" che nutro per alcuni autori, tra i quali Nanni Moretti. Chiudevo il mio commento su Tre piani, il suo ultimo, sconcertante film, augurandomi che si fosse trattato di un incidente e pressoché certo che si sarebbe ripreso alla prossima occasione, quando fosse tornato a raccontare una storia sua e non di altri. Con Il sol dell'avvenire ha fatto di meglio e di più: la summa del fior fiore di tutta la sua cinematografia, in particolare quella precedente agli anni Novanta, una sorta di "Moretti definitivo", come la chiusura di un cerchio, con cui il regista fa i conti con tutto quello che ha raccontato nel corso degli anni attraverso i suoi film, in definitiva rivendicandolo, ma in maniera gioiosa, a fronte di un presente sconfortante e da cui ci si sente sconnessi, sforniti dei mezzi per decifrarlo e, se solo fosse possibile, cambiarlo. Sarebbe potuto essere diverso se, per esempio, il Gran Partito non fosse stato guidato nel Dopoguerra da quel personaggio losco, ambiguo, viscido, ipocrita che fu Palmiro Togliatti e, per esempio, avesse sconfessato l'URSS e lo stalinismo almeno dopo i fatti d'Ungheria del 1956, seguendo quanto diceva l'istinto di buona parte dei suoi stessi militanti ed elettori... E' in quell'anno che Giovanni (Moretti) ambienta il film prodotto dalla moglie Paola (Buy) che narra dell'arrivo a Roma del Circo Budavari (e dove poteva sognare  di suicidarsi l'attore che a suo tempo aveva interpretato l'allenatore di pallanuoto in Palombella rossa, Silvio Orlando?) proprio nei giorni dello scoppio della rivolta di Budapest, per una serie di spettacoli organizzati dalla sezione del PCI del Quarticciolo, di cui è segretario Ennio (Orlando), che è anche caporedattore dell'Unità, sposato con Vera (Bobulova, non a caso cecoslovacca di nascita), la quale per prima simpatizza per la causa degli ungheresi che, per protesta, sospendono le rappresentazioni: il classico film nel film caro a Moretti, durante il quale assistiamo alle diatribe  con gli attori sui rispettivi ruoli, alle ossessioni maniacali del regista, ai problemi di finanziamento (il coproduttore francese, interpretato da Amalric, finisce sul lastrico), a quelli personali di Giovanni stesso che scopre non solo che Paola sta andando da uno psichiatra per trovare il coraggio di lasciarlo, ma che sta producendo in contemporanea il film di un giovane regista emergente quanto velleitario (tematica già affrontata nel recente Il ritorno di Casanova Salvatores) specializzato in scene truculente di violenza gratuita; come se non bastasse, deve anche affrontare il fatto che la giovane figlia (Valentina Romani) abbia iniziato una relazione con l'ambasciatore della Polonia, di quarant'anni più vecchio di lei, nella cui residenza viene invitato per una esilarante cena di presentazione, mentre ancora più esilarante sarà l'incontro coi dirigenti di Netflix, alla ricerca di un nuovo finanziatore al posto di quello arrestato. Ma non è tutto, perché sta già ponendo la basi immaginando il suo prossimo lavoro: un film sulla storia quarantennale di una coppia raccontato attraverso le canzoni che ascoltavano, il che dà il destro a Moretti di costellare il racconto con delle chicche scelte accuratamente dal repertorio che più ama e che chiunque l'abbia seguito in tutto il suo percorso conosce benissimo. C'è tutto Moretti, ne Il sol dell'avvenire, a cominciare dalla pungente autoironia e dallo smascheramento dell'ignoranza e della banalità, e anche di più di quello che mi aspettassi, specie sul versante politico: la critica alle ambiguità di quello che fu il PCI e alle responsabilità dei suoi dirigenti sullo stato catatonico della sinistra in Italia è esplicita e impietosa, per quanto espressa in modo beffardo e, se vogliamo, affettuoso, fino alla marcia finale inneggiante a Leon Trotzky di tutto il cast, compresi gli interpreti dei suoi film passati, in una sorta di rifacimento del Quarto Stato di Pellizza da Volpedo in movimento, guidata da un Moretti sorridente. Probabilmente il miglior Moretti visto dal suo esordio. Divertente ed emozionante. Grazie di cuore, Nanni.