mercoledì 30 novembre 2022

Il piacere è tutto mio

"Il piacere è tutto mio" (Good Luck to You, Leo Grande) di Sophie Hyde. Con Emma Thompson, Daryl McCormack, Isabella Laughland e altri. Gran Bretagna 2022 ★+

Insegnante di religione in pensione da poco, Nancy Stokes, non ha mai provato un orgasmo durante la sua vita sessuale, che peraltro coincide con quella matrimoniale: rimasta vedova, si concede finalmente il tentativo di soddisfare le proprie curiosità e fantasie in materia e ingaggia alla bisogna un giovane di bell'aspetto, nome d'arte Leo Grande, tra quelli offerti nel catalogo di un sito per escort maschili. Per l'agognata occasione, guarda un po', si presenta sotto il falso nome di Mrs Robinson (fantasia sfrenata!) Più che di cinema, si tratta in sostanza di una pièce teatrale in quattro atti filmata con la telecamera, fatta apposta per esaltare la bravura di Emma Thompson, sulla quale peraltro non sussisteva dubbio alcuno, e del suo compagno di ventura Daryl McCormack, già visto all'opera nella serie Peaky Blidners, non male forse proprio per la sua faccia da bambolotto, peraltro ideale per un ruolo da toy boy per signora. I primi tre atti coincidono con i tre appuntamenti che hanno luogo in una camera d'albergo con vista su Londra, che vedono Nancy alle prese col proprio imbarazzo nel dichiarare le sue richieste: davanti al ragazzo che fa di tutto per metterla a suo agio e rassicurarla che è lì apposta per renderla felice e che "andrà tutto bene", estrae un foglietto con appuntata una lista di prestazioni, e questo sarebbe il culmine dell'aspetto comico della vicenda. Tutto il resto è consequenziale e fa parte di un copione di una prevedibilità sconcertante: il rapporto che si dovrebbe sostanziare in una prestazione di servizio finalizzata al piacere "senza conseguenze", finisce per travalicarne il senso per avviarsi alla scoperta l'uno dell'altro e della reciproca vera identità, perché è chiaro fin dall'inizio come in Nancy la natura dell'insegnante abbia il sopravvento per cui, prima ancora di chiedersi perché si sia improvvisamente "svegliata" dallo stato di totale ibernazione dei sensi, si incaponisce ad indagare il motivo per cui un giovine così ammodo, sensibile e intelligente si sia messo a fare il puttano, col risultato di metterlo in crisi quando lo costringe a "giustificare" la propria vocazione e, guarda caso, viene in evidenza il ruolo della madre di lui, irlandese e quindi cattolica, che aveva rinnegato il figlio dopo averlo scoperto da adolescente in situazioni ambigue. In sostanza lui si prostituisce perché la mamma non lo capisce e non lo accetta, mentre Nancy, che pure aveva vissuto l'adolescenza negli inquieti e libertari, pure nell'ipocrita  Inghilterra, anni Settanta, era affogata in una vita coniugale di un piattume e di una noia indicibili senza neanche accorgersene, salvo farsi sorgere qualche dubbio all'alba dei sessant'anni, una volta rimasta vedova e madre di un figlio che lei stessa giudica di una noia mortale, manco l'avesse allevato qualcun altro. Il quarto e ultimo atto si svolge al bar dell'albergo, con le vere identità della "strana coppia" reciprocamente disvelate, ed è la chiusa buonista di una pellicola francamente penosa e insulsa, con Nancy che augura a Leo Grande "buona fortuna", come da titolo originale, e questo dopo che una giovane cameriera l'ha pubblicamente riconosciuta e si ricorda bene che era lei, Nancy, insegnante di religione alle superiori, a definire "troie" le ragazze della classe perché indossavano, a suo dire, gonne troppo corte e, insomma, "se la cercavano". Insomma: un colpo alla botte di qua e un altro di là: il punto di vista delle donne, il diritto alla felicità, la sessualità repressa, il bel ragazzo ovviamente meticcio, bono ma con anima, l'incontro tra due solitudini, tanta fuffa e luoghi comuni messi lì manco si stesse parlando dei massimi sistemi però da "fighi", con destrezza e (falsa) disinvoltura, come se il risultato finale non fosse che, in coerenza peraltro con la mentalità utilitarista anglosassone, tutto si riduce a una questione di quattrini, pure il piacere. Il risultato è irritante, un film cretino e raffazzonato, che fa intravedere una profondità che non esiste. La prestazione di una grande attrice come la Thomposon, unica ragione che mi ha motivato di andare a vederlo, non lo salva. 

domenica 27 novembre 2022

L'ombra di Caravaggio

"L'ombra di Caravaggio" di Michele Placido. Con Riccardo Scamarcio, Louis Garrell, Michela Ramazzotti, Isabelle Huppert, Mario Molinari (I), Michele Placido, Vinicio Marchioni, Lolita Chammah, Gianfranco Gallo, Maurizio Donadoni, Brenno Placido, Lea Gavino, Alessandro Haber, Moni Ovadia e altri. Italia 2022 ★★★★-

Genio e sregolatezza, Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio (paese della Bergamasca) ma nato a Milano, giunge a Roma negli anni Novanta del 16° secolo quando la città è il centro ideologico, artistico e culturale della Controriforma, ed è già una sorta di rock star dell'epoca quando viene condannato a morte per l'uccisione del sodale di scorribande e al contempo rivale Ranuccio: chiunque lo incontrasse era autorizzato a decapitarlo e si dà dunque alla fuga, prima a Napoli, sotto la protezione di Costanza Colonna, che lo conosceva ed era sua ammiratrice e amica fin dai tempi milanesi, dove era andata in sposa a uno Sforza prima di rimanere vedova, e poi a Malta dove, sempre su intercessione dei Colonna, venne nominato cavaliere allo scopo di ottenere l'immunità, ma anche qui ebbe le sue rogne, passando quindi in Sicilia. Durante questo suo peregrinare, altri suoi protettori a Roma (oltre alla famiglia Colonna il cardinale Del Monte, ruolo che nel film si è ritagliato il regista Beniamino Placido) si davano da fare per impetrare la grazia da parte del Papa che, a partire dal 1605, fu Camillo Borghese. Qui si innesta la finzione, perché nel film si immagina che il pontefice incaricasse un inquisitore, un misterioso, fanatico e glaciale personaggio conosciuto come l'Ombra, di interrogare chi conosceva e frequentava il Merisi per conoscerne i segreti e l'animo, se le sua arte fuori dagli schemi e i suoi eccessi fossero legati e in che modo e frutto di genio o di follia: con questo artificio i momenti salienti della vita del pittore vengono ripercorsi attraverso i racconti che ne fanno coloro che lo hanno conosciuto e ammirato, a cominciare dai Colonna, soprattutto Costanza (Isabelle Huppert è superlativa nella sua interpretazione), il cardinale Del Monte, perfino Artemisia Gentileschi (qui la giovane Lea Gavino), che già opera nella bottega di suo padre (caravaggesco) e a cui si ispirerà per la sua "Giuditta" (ancora più sanguinaria e vendicativa di quella del Merisi), nonché chi gli fece da modello: i poveracci e le prostitute (segnalo Micaela Ramazzotti nel ruolo di Lena e di Lolita Chammah, peraltro figlia della Huppert, in quello di Anna, le modelle di due delle più celebri celebri Madonne del Caravaggio) ospiti dell'ospedale di Santa Maria in Vallicella, sempre a Roma, fondato da San Filippo Neri, che l'artista frequentava regolarmente per trovare ispirazione perché, sosteneva l'artista, lui dipingeva il vero, non la finzione, o adeguandosi a modelli ideali e astratti. Abbiamo quindi da un lato un riuscito squarcio sulla Roma dell'epoca, grazie a una ricostruzione accurata delle botteghe e degli ambienti frequentati del pittore, e dei personaggio che la popolavano, compreso Giordano Bruno (Gianfranco Gallo: notevole il suo monologo) nei suoi ultimi giorni di vita, durante uno dei frequenti soggiorni in galera del Merisi, col quale aveva in comune lo spirito ribelle e critico verso i dogmi della chiesa ufficiale; e dall'altro, grazie a una fotografia eccellente, una ricostruzione credibile della tecnica pittorica del tutto innovativa del Caravaggio, il gioco di luci e ombre e della prospettiva per cui questo grandissimo pittore è rimasto e rimarrà nella storia e che è il fulcro della sua arte. Un uomo controverso, che riuscirà ad affascinare e ammaliare perfino chi gli era nemico, come il viscido  e conformista Giovanni Baglioni (che ricorda il Salieri nei confronti di Mozart, altro personaggio controverso nella seconda metà del secolo successivo), qui un misurato ed efficace Vinicio Marchioni, e la stessa Ombra, che quando finalmente lo incontrerà di persona, a Porto Ercole, gli chiederà, in cambio della concessione della grazia, di rinunciare alla sua arte: finirà con Caravaggio consegnato alla vendetta del fratello di Ranuccio. Il film, una coproduzione italo-francese, è ben fatto, appassionante, meritevole per quanto un po' didascalico: senz'altro vi si intravede anche la posizione di Placido nei confronti del cinema "ufficiale" e una sua certa immedesimazione nel personaggio, ma anche questo ci sta. Meno l'accento apulo-romanesco di Scamarcio, per il resto non male, in bocca al protagonista: mi chiedo se Placido abbia mai preso in considerazione di proporre un qualche corso di dizione al suo conterraneo, e perché, in sua vece, non abbia scelto un milanese doc come Thomas Trabacchi, o uno che ci va vicino, come Pier Giorgio Bellocchio, a proposito di volti "caravaggeschi". Comunqe merita.

giovedì 24 novembre 2022

Diabolik - Ginko all'attacco!

"Diabolik - Ginko all'attacco!" di Marco e Antonio Manetti. Con Miriam Leone, Valerio Mastandrea, Giacomo Gianniotti, Monica Bellucci, Pier Giorgio Bellocchio, Alessio Lapice, Linda Caridi, Ester Pantano, Andrea Roncato e altri. Italia 2022 ★★★1/2

Secondo episodio (non lo definirei seguito o, come si suol dire, sequel) della trilogia dedicata dai fratelli Manetti al Re del Terrore uscito dalla fervida immaginazione delle mitiche sorelle Giussani (il terzo è stato girato in contemporanea a questo ed è in fase di post-produzione), vede alcune novità rispetto al primo, a cominciare dal personaggio principale, che in realtà è l'Ispettore Ginko, come si evince anche dal titolo. L'altra è l'interprete di Diabolik, l'italo-canadese Giacomo Gianniotti, che ha sì gli occhi glaciali dell'eroe del fumetto e pure le physique du rôle, però è totalmente inespressivo e ha una dizione robotica (sempre meglio della Bellucci, nei panni della duchessa Altea di Vallemberg, la donna amata da Ginko, che risulta inascoltabile ancor più che inguardabile: ha raggiunto inarrivabili cime abissali di incapacità). Come notava l'amica con cui ho visto il film, senza tuta e senza maschera non lo si vede quasi mai, a differenza di Luca Marinelli nel film precedente, forse perché da bravo criminale è il caso che si faccia notare il meno possibile con il suo vero volto. Però incombe. Soprattutto nella mente dell'ispettore Ginko, per cui è diventato una vera e propria ossessione, e che qui organizza una trappola per far cadere nella sua rete l'eterno avversario. Come nel caso del Diabolik uscito un anno fa, evito di parlare della trama, se non per dire che la storia è tratta dal 16° albo del fumetto, uscito nel 1964, il primo in cui compare Altea (e così abbiamo il lato privato di entrambi i contendenti), e che il poliziotto si lascia convincere che Eva Kant (una sempre impeccabile e splendida Miriam Leone) per vendetta nei confronti di Lui, il quale preferisce fare il colpo invece di portarla in vacanza come una qualsiasi sciurèta, si presti a collaborare alla cattura dell'uomo in tuta nera, soffermandomi invece sulle differenze, abbastanza notevoli, tra i due episodi. Paradossalmente, anche se in questo film c'è molta più azione rispetto al primo, oltre all'uso di tutta una serie di mirabolanti invenzioni create dal criminale, che ricordano quelle che uscivano dai laboratori dell'MI5 nei film di James Bond, a cui comunque i due registi si richiamano anche per le scelte musicali (potente la colonna sonora, e c'è anche un balletto molto anni Sessanta, in cui sembra di essere tra Studio Uno e Canzonissima), l'aspetto fumettistico è ancora più marcato: gli interpreti parlano "come un libro stampato", in questo caso una storia illustrata, per l'appunto, in maniera estremamente didascalica. Oltre all'entrata in scena di Altea, attraverso cui si approfondisce il lato umano, oltre che professionale, dello sfigatissimo ispettore, c'è maggiore spazio anche per altri personaggi secondari, a cominciare dal sergente Palmer (Pier Giorgio Bellocchio), l'agente Roller (Alessio Lapice) e la poliziotta Elena Vanel (Linda Caridi), che alla fine è quella che va più vicina alla cattura del criminale ma che viene miracolosamente graziata dai registi, perché il pugnale che le lancia (lo swisss di antica memoria) non la colpisce dalla parte della lama ma dell'impugnatura e questo è un falso storico: Diabolik, quello vero, non l'avrebbe certo risparmiata! In compenso i Manetti avrebbero potuto risparmiarci la sofferenza di patire l'interpretazione, si fa per dire, della Bellucci: rimane il mistero di capire se la sua scelta sia stata voluta proprio perché Altea è un personaggio vuoto o per pietà. Per il resto, tutto bene, un'ora e 50' di divertimento assicurato, e un prodotto confezionato in maniera eccellente, però il primo film mi era piaciuto di più.

martedì 22 novembre 2022

Princess

"Princess" di Roberto De Paolis. Con Kevin Glory, Lino Musella, Sandra Osagie, Maurizio Lombardi, Salvatore Striano e altri. Italia 2022 ★★1/2

Secondo lungometraggio di Roberto De Paolis dopo il positivo esordio, cinque anni fa, con Cuori puri, che racconta, visto dall’interno, il mondo della prostituzione delle ragazze nigeriane che prospera da decenni ai margini delle città italiane, sconosciuto non solo per mancanza di interesse ("si arrangino tra loro" è la reazione comune) ma perché pressoché impenetrabile, anche a causa della cultura del tutto estranea di queste giovani donne, ricattate dalle “maman” e protettrici al servizio della potente mafia locale fin dall’arruolamento nel loro Paese e poi spedite in Italia (e nel resto d’Europa) a prostituirsi nell’illusione di potersi pagare un giorno il “riscatto”. Un’esistenza fatta di miseria, pericoli, umiliazioni, ma anche di cameratismo, gelosie, invidie tra poveracce, dove tutto, sentimenti compresi, è ridotto a merce e, dunque, a denaro: sono le stesse famiglie d’origine, oltre a chi le ha sequestrate, a reclamarlo, ossessionate come sono dal consumo e del tutto indifferenti alla vite che sono costrette a condurre le loro figlie o sorelle. Tra queste la diciannovenne Princess, nomignolo con cui è nota tra le colleghe, che a ogni prestazione con un nuovo cliente cambia il proprio “nome d’arte” con una sistematicità tale da avere perfino dimenticato quello proprio di battesimo. Una ragazza che riesce ad affrontare lo squallore del suo mestiere perché vive in totale separazione dal suo corpo: non è il suo, quello che offre ai desideri dei clienti, ma quello di una donna rimasta in Africa, a cui una qualche "curandera" le ha assicurato di aver trasferito gli eventuali dolori subiti mentre lavora. Insomma, una favola che racconta a sé stessa questo che è il personaggio principale che, francamente, non suscita alcuna empatia, chiusa com'è in un circolo di superstizione, cinismo, autoassoluzione, incapace di vedere qualcosa al di fuori del denaro anche quando le si presenta l'occasione di essere sé stessa invece della maschera (con parrucca e nome diverso a ogni occasione) con cui lavora, in seguito all'incontro con Corrado, un sempre misurato ed efficacissimo Lino Musella, uomo che conosce casualmente nel bosco dove "esercita" e che non è interessato alle sue prestazioni ma a lei come persona. Da quel che risulta, il regista romano si è immerso nell'ambiente, la boscaglia alle spalle di Ostia verso la capitale, collaborando con ragazze nigeriane vittime di quella che è una vera e propria tratta di esseri umani, che hanno accettato di interpretare sé stesse, per cui il ritratto che fa della loro esistenza è del tutto veritiero: non giudica, e di questo bisogna essergli grati, né è pietistico e penosamente "buonista" nel ritrarre quest'umanità derelitta, ma il film non convince del tutto, a meno di non volerlo considerare una sorta di documentario o saggio. E, anche in questo caso, lo trovo carente. La reazione, davanti agli atteggiamenti di queste ragazze, e di Princess in particolare, che viene istintiva è di dire: sono vittime, senz'altro, ma ci mettono del loro ad accettare la logica che le ha fregate e, anzi, a perpetrarla. Non credo che fosse questo l'intento del buon De Paoli, ma il risultato, per quel che mi riguarda, è alquanto respingente e non dispone in senso positivo. Lo spettatore è costretto a prendere atto di un'ulteriore situazione che testimonia che l'umanità non ha vie d'uscita finché non prende coscienza di essere essa stessa una semplice merce e che l'unico valore è il dannato denaro. Se è questo il risultato che De Paoli voleva ottenere, ebbene: lo sapevamo già da un pezzo. 

domenica 20 novembre 2022

La stranezza

"La stranezza" di Roberto Andò. Con Toni Servillo, Salvatore Ficarra, Valentino Picone, Giulia Andò, Rosario Lisma, Donatella Finocchiaro, Galatea Ranzi, Fausto Russo Alesi, Filippo Luna, Renato Carpentieri, Luigi Lo Cascio, Tuccio Musumeci, Paolo Briguglia, Tiziana Lodato e altri. Italia 2022 ★★★★★

Un film bellissimo, esemplare, imperdibile per chi ama il teatro (oltre che il cinema): con l'intelligenza, garbo, profondità e insieme lievità che ne contraddistigono l'opera, non stupisce che a dirigerlo e curarne la sceneggiatura (assieme a Ugo Chiti e Massimo Gaudioso) sia Roberto Andò, uomo di cultura a tutto tondo, innanzitutto di lettere e di teatro, che però anche dietro la macchina da presa è stato in grado di esprimersi al meglio, e lo dimostra a ogni suo nuovo lavoro. Qui racconta la gestazione di uno dei capolavori di Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca di autore, che nasce in un momento di crisi creativa del grande drammaturgo, dovuto anche a cause personali (la pazzia della moglie, il gilgio ferito gravemente durante la Grade Guerra): siamo nel 1920 e Pirandello, tornato in Sicilia in occasione dell'ottantesimo compleanno di un altro grande letterato, Giovanni Verga (prezioso il cammeo di Renato Carpentieri nelle vesti del  maestro del verismo), passa per la natìa Girgenti (vecchia denominazione di Agrigento) dove è morta la sua balia e, volendosi personalmente occupare delle esequie, si imbatte in una coppia di becchini, a cui affida l'incarico: Nofrio e Bastiano, magnficamente interpretati rispettivamente da Salvo Picarra e Valentino Picone, che sono anche  animatori della filodrammatica locale ("dilettanti professionisti", si autodefiniscono) intenti a mettere in scena una tragicommedia, La trincea del rimorso, ovvero Cicciareddu e Pietruzzu, di cui stanno facendo le prove che coinvolgono tutti aspiranti attori della città (e che ne esprimono le diverse anime). E' all'intrecciarsi delle dinamiche che avvengono tra gli interpreti, tra palcoscenico e dietro le quinte, finzione e realtà che assiste Pirandello, discreto spettatore delle prove e poi anche della "prima" dello spettacolo, in incognito, dove esse degenereranno in una rappresentazione dove non ci sarà più distinzione tra quanto avviene sulla scena e in sala, in quanto alcuni spettatori si sentiranno presi di mira ed esposti al pubblico ludibrio dagli attori e alcuni di essi, a loro volta, impegnati a regolare delle questioni in sospeso tra di loro, questioni che hanno a che vedere anche con l'onore di Nofrio, gelosissimo della sorella Santina, la sarta della compagnia (e interpretata sontuosamente dalla figlia di Roberto Andò, Giulia), di cui viene a scoprire la tresca con l'amico di sempre e collega, sia sul lavoro sia nella comune passione per il teatro, Bastiano. Si scatena dunque il caos così come sarebbe accaduto, un anno dopo circa, nel 1921, al Teatro Valle di Roma al debutto di quella che è l'opera più famosa di Pirandello, dove si giunse allo scontro fisico tra sostenitori e haters, come si direbbe oggi, dell'autore di quella trilogia di "teatro nel teatro" che comprende, oltre ai Sei personaggi, anche Stasera si recita a soggetto e Ciascuno a suo modo, in cui Pirandello esprime nel modo più compiuto il suo pensiero, o meglio le sue riflessioni, sul rapporto non solo tra verità e inganno, vizi e virtù, la complessità e doppiezza della vita in tutte le sue manifestazioni, ma anche tra autore e attore, pubblico e interpreti, tutti aspetti e manifestazioni di un'esistenza variegata, che cambia senso a seconda dei diversi punti di vista; vita che è teatro e teatro che è vita, per l'appunto. Magistrale, come ci si poteva aspettare da un autentico prodigio, l'interpretazione di Toni Servillo nei panni di un Pirandello misurato, essenziale, questi timido e sotto tono, che tende a sottrarsi, l'esatto opposto di quello straripante Eduardo Scarpetta a cui diede vita in quel Qui rido io di Mario Martone, altra pellicola di grandissimo spessore sul teatro in generale e italiano in particolare e un altro dei suoi personaggi fondamentali, di cui La stranezza è praticamente gemello e di cui condivide l'altissima qualità: attori, fotografia, ambientazione, ritmo, misura e al contempo intensità sono encomiabili. Un film rigoroso, sottile, elegante, di grande equilibrio, di altissima qualità, da non perdere. 

venerdì 18 novembre 2022

Boiling Point - Il disastro è servito

"Boiling Point - Il disastro è servito" di Philip Barantini. Con Stephen Graham, Vinette Robinson, Jason Flemyng, Ray Panthaki, Hannah Walters, Malachi Kirby, Alice Feetham, Laureen Ajufo e altri. Gran Bretagna 2021 ★★★★

Escludo che il film sia stato girato in un unico piano sequenza, come pure qualcuno ha affermato, però senz'altro l'effetto (notevole per la sensazione di immersione nella realtà che procura allo spettatore) è quello e il racconto si svolge in un'unica unità temporale: quella di una serata da incubo in un ristorante londinese alla moda, che inizia con l'arrivo, "puntualmente" in ritardo, dello chef, Andy, da qualche tempo alle prese con la separazione dalla moglie e che cerca disperatamente di mantenere un rapporto con il figlio piccolo, che sta forzatamente trascurando. Un incubo per tutti, personale di sala, diretto dalla figlia del proprietario, Beth, velleitaria quanto inetta, per non parlare di quello di cucina, dove la vice di Andy, Carly, tiene botta e copre Andy quando è alle prese con i suoi problemi privati o con le PR che deve intrattenere con i clienti di riguardo (proprio quella sera capita al ristorante l'odioso Alastair Skye, per cui un tempo lavorava, e ora star televisiva, che si è portato appresso una temuta quanto supponente critica gastronomica). In poche parole, tutto quello che può andare storto in un ristorante succede, secondo il copione della inesorabile Legge di Murphy, in questa terrificante serata prenatalizia, col locale affollato da una fauna altrettanto variegata come quella dietro al bancone del bar e nei meandri della cucina. Nell'elenco dei disastri che possono accadere, non manca quasi nulla: quando Andy arriva, trafelato, al locale, vi trova la visita di un ispettore dell'ufficio d'igiene che lo declassa per alcune magagne riscontrate; Carly gli comunica che ha ricevuto un'offerta di lavoro vantaggiosa che sta prendendo in considerazione visto che Beth, la manager, non ha ancora dato risposta a una richiesta di aumento di stipendio da parte dello staff; in cucina mancano alcuni ingredienti e fretta e rimedi improvvisati peggioreranno la situazione; lo chef si destreggia tra Skye, la cooking star televisiva, che lo ricatta perché a sua volta nei guai ma suo creditore perché gli ha prestato 200 mila sterline per aprire il ristorante; Freeman, il rotissier, accusa Andy apertamente di essere alcolizzato, di non aver licenziato uno sguattero lavativo perché lo rifornisce di cocaina e responsabile di tutto quel che non va; il punto di ebollizione (da cui il titolo) raggiunge il suo culmine quando una cliente finisce in shock anafilattico a causa di un'allergene di cui Beth era stata preventivamente informata al momento dell'ordinazione ma non correttamente inoltrato in cucina, insomma il cataclisma perfetto: non entro nei particolari, ma non finisce bene per il nostro eroe, lo chef Andy, uno strepitoso Stephen Graham, un grande attore, fin qui utilizzato pressoché soltanto come caratterista ma sempre autore di prestazioni eccellenti, che meriterebbe maggiori opportunità e ruoli più variati. Proprio alcuni giorni fa parlavo del mondo della ristorazione e dei suoi ritmi massacranti con un mio amico che vi lavorava negli anni Ottanta proprio a Londra, e altri ne ho attivi in quell'ambiente: Philip Barantini apre uno squarcio non convenzionale su di esso ma anche sulla clientela di un certo tipo di ristoranti e in generale di quella attuale (il tavolo degli influencer è un piccolo e memorabile saggio sull'imbecillità e la miseria umana di certi personaggi), specchio, del resto, dei tempi che viviamo; al contempo mette in scena un vero e proprio thriller dove protagonista non è la haute cuisine e le sue creazioni bensì i rapporti umani, di cui il nevrotico mondo della ristorazione è solo un aspetto; al contempo il regista fa in modo che nessuno dei personaggi cannibalizzi l'altro: il film è, in tutti i sensi, corale, e l'amalgama tra di essi perfettamente riuscito, bravo quindi sia il responsabile del casting, sia chi ha diretto un'intera brigata di attori così come un bravo chef dirige quella dei suoi collaboratori. Un esperimento davvero riuscito, senz'altro meglio della cena prenatalizia Chez Andy...

martedì 15 novembre 2022

Alla greca


"Alla greca" di Steven Berkoff. Traduzione di Carlotta Clerici e Giuseppe Manfridi; regìa di Elio De Capitani. Con Elio De Capitani, Crisitina Crippa, Sara Borsarelli, Marco Bonadei. Costumi di Andrea Taddei; scene di Thalia Istikopoulo, riprogettate e realizzate da Roberta Monopoli. Musiche di Mario Arcari eseguite dal vivo da Mario Arcari e Tommaso Frigerio; luci di Nando Frigerio; suono di Marco Sorasio; assistente ai costumi Elena Rossi. Produzione Teatro dell'Elfo e Campania Teatro Festival. Al Teatro Elfo/Puccini di Milano fino al 13 novembre 2022

All'ultimo respiro ce l'ho fatta: l'ultima replica di uno spettacolo che l'Elfo aveva proposto trent'anni fa, durante la stagione 1992/93, sempre per la regìa di Elio De Capitani, che domenica, emozionato, ha ricordato Gigi Dall'Aglio e Tania Rocchetta, scomparsi negli ultimi anni i quali, in quell'edizione, interpretarono il ruolo dei genitori di Eddy (Edipo: si tratta di una rilettura in chiave attuale della tragedia di Sofocle da parte del drammaturgo inglese Steven Berkoff) in cui ora si sono cimentati lo stesso De Capitani e sua moglie Cristina Crippa, che allora aveva dato vita alla madre e moglie di Edipo. Nei panni di quest'ultimo un Marco Bonadei estremamente fisico, nella parte che fu di Ferdinando Bruni: e il cerchio elfistico si chiude. Berkoff aveva riproposto il mito di Edipo ambientandolo nei bassifondi della Londra post-punk degli anni Ottanta, quelli della Thatcher e dell'avvio della trasformazione in senso sfrenatamente liberista e individualista della società, e il giovane Eddy è il prototipo dell'adolescente furioso e nichilista, che rifiuta lo squallore dell'ambiente in cui si adagia la sua famiglia di origine, composta dal classico trio padre-madre-sorella, un mondo sordido di vecchi ubriaconi da pub, hooligan scozzesi, terroristi irlandesi, contro cui si scaglia con un'intemerata memorabile fatta di improperi, insulti, volgarità e di una violenza inaudita, cui dà corpo Marco Bonadei con una prestazione muscolare e vocale degna di nota; e vuole uscire con tutte le sue forze da un destino altrimenti segnato, supportato anche da uno strana profezia che uno zingaro fa a suo padre, trovando la sua "strada" proprio in un pub, dove reagisce alle provocazioni di un gestore nazista ingaggiando con lui un duello verbale che tramortisce il rivale, perché anche le parole uccidono... in maniera contundente. Con la sua loquela immaginifica e allucinata riesce a sedurre anche la moglie del defunto barista (l'ottima Sara Borsarelli) che, più che addolorata per la morte del marito, vive nel rimpianto di un figlio svanito e mai più ritrovato, in una intensa e provocatoria schermaglia erotica e soprattutto oratoria, conquistandola. La scena si svolge su tre livelli: in alto Mario Arcari, che ha composto le musiche e che le esegue assieme a Tommaso Frigerio, contrappunto al cabaret che si svolge sul piano intermedio, con i personaggi che ingaggiano grotteschi siparietti dialettici, andando avanti e indietro con carrelli da supermercato e dondolandosi su una sbarra metallica sospesa; più in basso ancora una distesa di ghiaia (in origine ricordo che la scena di Thalia Istikopoulo prevedesse un tappeto di frammenti di vetro). Nel secondo atto troviamo ritroviamo la coppia, una decina di anni più tardi, siamo negli anni Novanta di blairiana memoria, baciata dal successo: hanno aperto una catena di fast food, sono ricchi sfondati, la vecchia Londra è sparita, e su insistenza della moglie Eddy contatta i suoi genitori che non vede da quando ha lasciato casa, che però scopre non essere quelli naturali ma adottivi ma ora si sente abbastanza forte da affrontare, come da profezia, la Sfinge, una Cristina Crippa che qui si sdoppia nel ruolo di femminista incazzata che non solo gli vomita addosso tutto il disprezzo per il suo rozzo maschilismo ma anche la verità sulla sue origini: è lui il figlio che sua moglie aveva perso, in sostanza il suo matrimonio è frutto di un incesto. A differenza di Edipo, però, Eddy nonostante sia sconvolto dalla rivelazione, viene a patti con il tabù e l'accetta: al grande "amore", quando capita, non si rinuncia, non ci sono limiti che possano frapporsi e gli scrupoli morali, al giorno d'oggi, sono superflui. Nella perfetta logica amorale e utilitaristica che, profeticamente, Berkoff aveva visto nascere e che abbiamo visto trionfare al giorno d'oggi. Grande spettacolo, disturbante, coinvolgente, vivo, quattro attori che dominano la scena e, quando sono presenti in simultanea, sembrano il doppio. Grazie, elfi!

domenica 13 novembre 2022

War - La guerra desiderata

"War - La guerra desiderata" di Gianni Zanasi. Con Edoardo Leo, Miriam Leone, Giuseppe Battiston, Stefano Fresi, Carlotta Natoli, Antonella Attili, Paolo Briguglia, Simone Guarany, Bruno Todeschini, Anna Moulalis, Lorena Cesarini, Massimo Popolizio, Teco Celio, Barbara Alberti, Marco Tè e altri. Italia 2022 ★★★★1/2 

Gianni Zanasi sa fare cinema, ha buona idee ma finora non si era, a mio parere, ancora espresso al meglio: con War ha fatto centro, checché ne pensi la critica militonta e prevenuta. E non perché sia un veggente, dato che il film, scritto nel 2019, prima del Covid, ipotizza lo scoppio di una guerra nel cuore dell'Europa, ben prima del conflitto tra Russia e Ucraina, però tra Italia e Spagna (supportata dalla Francia). La causa scatenante che innesca una crisi diplomatica inarrestabile è l'uccisione di una ragazza italiana a Roma da parte di un gruppetto di giovani turisti spagnoli in preda a stupefacenti che si sente provocato da coetanei italiani. Mentre nessuno sembra in grado di frenare l'escalation, né i media, che si limitano a raccontarla come se fosse inevitabile, pura cronaca; né i politici e i governi, pronti a soffiare sul fuoco pur di trarne un momentaneo vantaggio nei sondaggi e per deviare l'attenzione dalla crisi economica e il malessere sociale causati da loro stessi a livello continentale e che non sono stati in grado di vedere e fermare negli ultimi vent'anni almeno (le tensioni tra i governi italiano e francese in atto in questi giorni sulla vicenda dei naufraghi e rifugiati è sintomatica di questo andazzo), la verità è che lo scivolamento in uno stato di guerra non solo viene subìto, ma pare pure essere voluto, come rivalsa o sfogo, da parte di una popolazione sempre più arrabbiata, frustrata, impotente, pronta a espoldere: una valvola di sfogo. In questa situazione che degenera man mano, scivolando quasi senza scosse da uno stato di normalità a quello belligerante (quanto sia facile il passaggio, lo dimostrano il clima degli anni Trenta, o anche quello di Sarajevo pochi giorni prima dello scoppio del conflitto che sconvolse la Bosnia nemmeno 30 anni fa), si trovano tre personaggi emblematici: Tom (Edoardo Leo, perfetto nella parte), laureato in lettere romanze ma suo malgrado allevatore di vongole per portare avanti la ditta del fratello, che giace in ospedale in coma farmacologico dopo un tentativo di suicidio, alle prese con i deliranti iter burocratici per ottenere la certificazione di qualità per i suoi prodotti; Lea (Miriam Leone, sempre più brava), una psicoterapeuta di una ASL con cui entra in contatto per riavere la patente che gli è stata ritirata, a sua volta figlia di un ex generale dell'aeronautica e attuale sottosegretario alla Difesa, con cui ha un rapporto difficile, data la sua indole pacifista; infine Mauro, un grandissimo Giuseppe Battiston, gestore di una birreria e amico di Tom, che sfrutta l'occasione per rifarsi e mette in piedi una banda di paramilitari per conto di un ex capitano paranoico in cui recluta il recalcitrante allevatore di molluschi. Non sto qui a svelare la trama, mi limito a dire che benché vesta i panni della commedia, con battute solo apparentemente ironiche, il film è in realtà drammaticamente veritiero perché sviscera il potenziale di violenza a cui possono condurre rimbecillimento, frustrazione, intolleranza che cova, ma soprattutto spirito di rivalsa. In questo senso, il personaggio più illuminante, e gli dà sostanza Battiston, è Mauro, e sue due frasi emblematiche: "ecco come ci hanno ridotti 70 anni di pace" (che sento sempre più spesso pronunciare in giro nella realtà) e quella rivolta a un africano, legato a un bidone, a cui da ubriaco è in procinto di dare fuoco: "non ti brucio perché sei nero, niente di personale: ma per come hanno bruciato me". Quando si va avanti, sistematicamente, a togliere speranze e futuro, sorvolando sul proprio passato, a questo si arriva. Altro che Zanasi visionario e aruspice: essendo intelligente e avendo coraggio oltre che spirito d'artista e di osservazione, si è limitato a prendere atto della realtà e descriverne le derive possibili e, a questo punto, persino probabili. Che possono sfuggire a qualsiasi controllo e logica, e che solo delle combinazioni fortuite possono fermare, in questo caso un rapimento (e un tradimento) orchestrato da Lea , che coinvolge anche Tom e, in parte, Mauro. Bravo il regista anche a rendere visivamente l'atmosfera: la Roma che scivola man mano sotto il controllo dei militari, con blindati che prendono via via posto delle camionette, accampamenti nei parchi e nelle piazze, aerei da caccia che sorvolano la città a bassa quota convive con quella in preda al turismo di massa di tutti i giorni, coi suoi  bus scoperti per i tour nella città, le guide con l'ombrellino; e anche con quella dei ministeri, dei palazzi del potere, delle auto blu e financo dei sempiterni "salotti". Un film riuscito alla perfezione, emozionante, coinvolgente, a tratti angosciante, 130' che volano via. Bravissimi tutti gli interpreti e chi li ha diretti, ma soprattutto i tre sopra citati. Il confronto con il recente La siccità, sempre ambientato in una Roma distopica, è impietoso, e se a quello avevo assegnato, generosamente, ★★+ qui devo come minimo raddoppiare. 

giovedì 10 novembre 2022

Amsterdam

"Amsterdam" di David O. Russell. Con Christian Bale, Margot Robbie, John David Washington, Chris Rock, Anya Taylor-Joy, Zoe Saldana, Mike Myers, Michael Shannon (II), Robert De Niro, Timothy Olyphant, Rami Malek, Andrea Riseborough, Matthias Schoenaerts, Alessandro Nivola, Taylor Swift e altri. USA 2022 ★★★1/2

Commedia a suo modo romantica, che racconta la storia di una solida amicizia a tre con aspetti sentimentali (il pensiero corre immediatamente a Jules et Jim di François Truffaut), nata nei campi di battaglia della Grande Guerra e consolidatasi in un ospedale militare francese tra due soldati americani e un'infermiera, pura opera di fantasia, come i suoi personaggi, inserendola in un contesto che fa riferimento a una vicenda reale, quella del cosiddetto Business Plot, un tentativo di colpo di Stato sui generis per deporre o quantomeno condizionare Franklin Delano Roosevelt, il presidente che aveva appena avviato il New Deal per superare la Grande Depressione seguita alla crisi del 1929, da parte di un gruppo di finanzieri e imprenditori che faceva capo all'American League che aveva stretti legami con il fascismo italiano e il movimento nazionalsocialista tedesco e ne voleva imitare i metodi, facendo leva sul risentimento dei veterani di guerra, la loro frustrazione e le loro rivendicazioni. Siamo nel 1933 a New York quando viene ritrovato cadavere il generale Meekins e Burt (Christian Bale. sempre un portento), ex tenente medico e Harold, (Washington: forse il personaggio meno convincente) commilitoni sotto il suo comando, avvocato, conosciutisi sotto il suo comando e che collaborano aiutando i reduci, vengono ingaggiati dalla figlia del militare, che dubita che il suo decesso sia avvenuto per cause naturali e viene uccisa a sua volta: sospettati della morte della donna vengono proprio i nostri due eroi, presenti sul posto. Nel tentativo di appurare la verità sulla morte di Meekins padre (avvelenamento) e figlia (un'impiccio imprevisto per gli autori del primo delitto, ossia i cospiratori) ritrovano dalla loro parte Valérie (Margot Robbie: brava, simpatica e bella), l'infermiera che li aveva curati in Europa e con cui avevano trascorso un periodo di sfrenata vitalità nel primo dopoguerra ad Amsterdam, grande amore di Harold e di cui avevano perso le tracce: entrambi non sapevano che appartenesse alla facoltosa e potente famiglia Voze, a cui si sono dovuti rivolgere perché garantisse della loro innocenza nel caso della morte della figlia del generale. In realtà Valérie, artista e "pecora nera" della potente famiglia, è tenuta quasi prigioniera dal fratello e dalla odiosa cognata, fatta passare per squilibrata e sedata con psicofarmaci, ma il patto a tre tornerà in auge e il complotto verrà sventato grazie all'appoggio di Dillenbeck (Robert De Niro: non occorre aggiungere altro), che nella realtà si chiamava Butler e che perorava a sua voltala causa dei reduci di guerra, il quale finge di accettare una mazzetta dagli organizzatori del Business Plot e di aderirvi allo scopo, invece, di smascherarli. E' stato detto che il film soffre di un certo dogmatismo, ed è vero che l'ammonimento a "stare all'occhio" è ripetuto a ogni occasione, del resto guardandosi attorno (negli USA con l'assalto al Campidoglio nel gennaio dell'anno scorso, dopo la sconfitta di Trump; qui in Europa in vari Paesi, da ultimo anche in Italia), ma ci sta, soprattutto quando è inserito in un racconto gradevole e ironico, nello stile di Russell, i cui film a volte raggiungono vertici assoluti come nel caso di American Hustle, altre risultati a mio parere più modesti come fu per Joy, oppure si collocano a metà strada ma ampiamente in fascia positiva: Il lato positivo e, in questo caso, Amsterdam. Ma non sono mai banali e le parole, e ne scorrono molte: la verbosità può essere un limite, nemmeno, se vi si presta la dovuta attenzione. Il regista è sempre in grado di affrontare temi seri col sorriso sulle labbra, ricorrendo a favole e miscelando ogni genere: il suo modo di fare cinema può ricordare quello di Wes Anderson, a cui è peraltro legato da una solida amicizia, senza però utilizzare ibridazioni con mezzi diversi dalla macchina da presa. Ambientazione accurata, fotografia ineccepibile, un cast di prim'ordine e una colonna sonora di qualità contribuiscono comunque a farne un film molto piacevole. 

domenica 6 novembre 2022

Il Presidente

"Il Presidente" (La Cordillera) di Santiago Mitre. Con Ricardo Darín, Erica Rivas, Dolores Fonzi, Elena Anaya, Daniel Giménez Castro, Alfredo Castro, Gerardo Romano, Paulina García, Christian Slater e altri. Argentina, Francia, Spagna 2017 ★★★★1/2

Tocca essere grati all'esistenza delle piattaforme streaming, in questo caso Prime Video, perché spesso consentono di recuperare film che non sono usciti in sala in Italia oppure vi sono apparsi come meteore: è il caso de Il Presidente di Santiago Mitre, uscito nei cinema italiani fugacemente nell'autunno del 2018 dopo essere stato selezionato al Torino Film Festival dell'anno precedente, capitatomi sott'occhio dopo aver cercato Argentina, 1985; stessa sorte per il suo lungometraggio d'esordio, El estudiante, intercettato per puro caso, mentre non mi sembra per ora reperibile La patota del 2015. Come in Argentina, 1985, Mitre può avvalersi della straordinaria prestazione di Ricardo Darín, che qui è nella parte del neo presidente argentino Hernán Blanco il quale partecipa al suo primo summit di capi di Stato latinoamericani, cruciale per dare vita a una sorta di OPEC e quindi per il futuro energetico della della regione, in cui è in discussione il fatto che ne facciano parte gli USA, e in particolare le loro imprese energetiche private, e gli altri Stati loro satelliti dell'America Centrale. Arrivato alla massima carica come "uomo comune", già sindaco di Santa Rosa, capitale della Provincia di La Pampa, una realtà piuttosto marginale nel Paese, giocando anche sul suo cognome (Blanco: un uomo pulito), è in realtà uno sconosciuto nei palazzi del potere di Buenos Aires e ancora di più al cospetto dei suoi più navigati colleghi stranieri, tra cui giganteggia il presidente brasiliano. Già prima della trasferta in un comprensorio sciistico sulle Ande, poco oltre il confine tra Argentina e Cile (si tratta di Valle Nevado, a Sud della più famosa Portillo, a una sessantina di chilometri da Santiago), alla Casa Rosada, ha le sue rogne: il genero, un ricco imprenditore, da cui la figlia Marina vive separata, è sotto inchiesta e minaccia rivelazioni imbarazzanti sui fondi della sua campagna elettorale. Blanco, piuttosto taciturno, quasi imbarazzato, inizialmente appare abbastanza un pesce fuor d'acqua manovrato da consiglieri e, in particolare, dalla sua solerte segretaria e factotum (la bravissima Erica Rivas) ma è solo apparenza, perché in realtà ha le idee chiare e lo dimostrerà in maniera crescente nel corso del vertice, dove chi lo ha sottovalutato, a cominciare dal suo omologo messicano e dagli arroganti alti funzionari USA di cui fa il ventriloquo (il colloquio privato con un alto consigliere statunitense, svolto in inglese, è esemplare e andrebbe rivisto e fatto girare come estratto). Che non sia un burattino cominciano ad accorgersene i sui collaboratori, la giornalista spagnola che lo intervista, e l'uomo acquisisce sicurezza nonostante i suoi problemi privati lo seguano e raggiungano  fino al lussuoso complesso dove è ospitato il summit: oltre ad avere lui stesso lati oscuri come una relazione segreta con la moglie dell'ambasciatore che ha appena nominato, da Buenos Aires giunge anche Marina, afflitta da problemi psichici non indifferenti, dalla cui memoria affiorano fatti che comprometterebbero l'immagine di Blanco se fossero veri e non solo frutto di una mente malata: per capire l'entità del malessere e tenerlo sotto controllo, giunge perfino un famoso psichiatra che sottopone Marina ad ipnosi. Il film, dunque, scorre su un doppio binario: i retroscena del potere, che Mitre rende anche in questa occasione con grande precisione e credibilità, e la sottile linea tra verità e menzogna, sincerità e manipolazione, realtà e immaginazione che domina sia le vicende private dei protagonisti, sia la loro dimensione pubblica e le relazioni tra i massimi esponenti dei rispettivi Stati. Un film a tratti cupo, con tratti noir, in cui la tensione è palpabile e vibra sotto traccia, pronta a esplodere: aiuta in questo anche l'ambientazione in un luogo isolato e in una location che ha un che di inquietante (qualcuno ha ricordato Shining), a tremila metri d'altezza sulla Ande, in un'atmosfera rarefatta ma al contempo densa, minacciosa; cose dette a metà, accenni ambigui o per sottintesi, come del resto tipico nelle alte sfere del potere. Un film efficace e molto argentino, nella miglior tradizione di una cinematografia troppo poco conosciuta rispetto a quello che meriterebbe. 

venerdì 4 novembre 2022

Il mio vicino Adolf

"Il mio vicino Adolf" (My Neighbor Adolf) di Leon Prudovsky. Con David Hayman, Udo, Kier, Olivia Silhavy, Kineret Peled, Jaime Correa, Danharry Colorado e altri. Polonia, Israele 2022 1/2

Dopo un poker di film sorprendenti e di alto livello, era inevitabile la caduta: non mi aspettavo però che la delusione, puntuale, venisse proprio da una coproduzione polacco-israeliana, trattandosi di cinematografie di spessore a cui qualità e talento non fanno difetto; sapevo anche che il film affrontava, coi mezzi della commedia, la tragedia dei sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti, in particolare gli ebrei dell'Europa Orientale, e che il tono leggero servisse a mettere in luce alcuni aspetti del disagio psicologico di chi l'ha scampata che non vengono solitamente messi in luce quando il tema è quello dell'olocausto. Però o si è all'altezza del Benigni in stato di grazia de La vita è bella (al di là dei suoi falsi storici) oppure bisogna avere una sceneggiatura valida da tradurre in immagini sullo schermo, e questo non certo è il caso de Il mio vicino Adolf. Una trama esilissima è quella di questo filmetto, che racconta la strana avventura capitata al signor Polsky, un anziano ex giocatore di scacchi ebreo polacco, che ha perso l'intera famiglia nei lager, e che si è rifugiato nella Colombia rurale dove vive da eremita in una casetta isolata occupandosi della coltivazione delle sue amate rose nere e dei problemi di scacchi pubblicati sulle riviste specializzate che gli vengono consegnate a domicilio, e che un bel giorno, all'alba del 1960, si trova ad avere come confinante nella villetta accanto, un uomo che vive in segretezza come lui, si fa rappresentare da un'avvocatessa per curare i suoi interessi e le stesse relazioni col vicino da un'avvocatessa: parla tedesco, si fa chiamare Herzog, ha un cane pastore di nome Wolfie che sconfina nel suo giardino defecando sulle sue rose e il cui sguardo, benché camuffato da occhiali da sole che porta anche di notte, oltre a nascondere i lineamenti dietro a una folta barba che in effetti lo fa sembrare più Karl Marx, gli ricordano Hitler. Tra uno screzio e l'altro tra vicini di casa litigiosi, gag viste e riviste in migliaia di pellicole fin dai tempi dei fratelli Lumière, da un lato Polski si convince vieppiù che si tratti del Führer sotto mentite spoglie e passa il tempo a raccogliere le prove per cercare di convincere la residente del Mossad, che all'epoca aveva appena sequestrato e trafugato in Israele Eichmann, a entrare in azione; dall'altro proprio per questo inizia a frequentarlo e, tra una partita a scacchi e un sorso di vodka, comincia ad avere con lui un rapporto ambiguo, ed entrarci in un certo qual modo in confidenza. Ovviamente gli agenti del Mossad non gli danno retta ma, e qui rivelo la "sorpresa", il buon Polski non aveva tutti i torti nei suoi sospetti, perché Herzog, che in realtà era un attore, era uno dei sei sosia di Hitler, costretto a rischiare la pelle in vece sua e che, una volta specializzatosi nella parte, l'aveva messa a frutto, sotto la guida della scaltra avvocatessa che gli fa da "agente" e manager, per manipolare i creduloni sudamericani e i vari nazisti che si erano rifugiati e nascosti nel Continente dopo il 1945 e trarne vantaggio. Insomma un disgraziato pure lui, in balìa di eventi che non può controllare e di una donna più forte di lui. Anche se gli interpreti ci mettono tutta l'impegno e la buona volontà il film non sta in piedi, incongruenze a parte, è raffazzonato e puerile: una favola per bambini un po' scemi, in altri termini. No, dire, che non ci siamo proprio. 

mercoledì 2 novembre 2022

Argentina, 1985

"Argentina, 1985" di Santiago Mitre. Con Ricardo Darín, Juan Pedro Lanzani, Alejandra Flechner, Norman Briski, Santiago Armas Estevarena, Gina Mastronicola, Antonia Bengoechea, Carlos Portaluppi, Alejo García Pintos, Claudio Da Passano, Laura Paredes, Susana Pampín, Héctor Díaz, Gabriel Fernández, Paula Ransenberg e altri. Argentina 2022 ★★★★★

Presentato in concorso alla 79ª edizione della Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia due mesi fa, gli è stato preferito All The Beauty and the Bloodshead, documentario di Laura Poitras: niente da meravigliarsi con una giuria presieduta da una statunitense, la pur brava Julianne Moore, che omaggia una sua connazionale e che racconta una vicenda tutta americana e interna al mondo dello spettacolo di dipendenze da oppioidi causate dall'avidità di una delle Big Pharma; mentre Argentina,1985 è invece un film vero, che ricostruisce, in maniera fluida e gradevole, per quanto meticolosa, un processo di portata storica, secondo solo a quello di Norimberga per la sua risonanza, ma ancor più significativo sul piano giuridico e politico: quello alla giunta militare al potere tra il 1976 e il 1983 e che condusse la vergognosa e illegale guerra sucia in cui scomparvero nel nulla 30 mila persone vittime di sequestri, torture indicibili, un vero e proprio genocidio accuratamente pianificato e condotto in tutta segretezza. Al ritorno della democrazia, il neo presidente Raúl Alfonsín pretese che i responsabili venissero processati, ma siccome i tribunali militari si rifiutarono di  farlo, per la prima volta nella storia argentina se ne fece carico la magistratura ordinaria, e incaricato a istruire il processo, condurre le indagini e, soprattutto, trovare le prove e le persone disposte a testimoniare in aula, e questo nel tempo ristrettissimo di 5 mesi a partire dall'ottobre del 1984, fu Julio César Strassera, qui interpretato da un Ricardo Darín semplicemente strepitoso, appositamente nominato Procuratore Capo, affiancato dal suo giovane vice Luis Moreno Ocampo e coadiuvato da una squadra di ragazzi (altri volontari non se ne trovavano, fra tutti i funzionari che si defilavano) scelti con un vero e proprio casting eseguito con la collaborazione del suo amico e regista teatrale (ma anche giurista) Carlos Somigliana, e l'aiuto di altri amici avvocati, coi quali girò l'intero Paese alla ricerca di materiale probatorio. L' intelligenza del regista e sceneggiatore Santiago Mitre sta nel non essersi limitato a fare il classico film giudiziario di tipo USA ma di aver raccontato tutto il procedimento fin dal suo inizio e come si inquadrasse nelle vite personali di chi lo condusse, in particolar modo El Loco Strassera, perché solo un "pazzo" poteva accettare una sfida simile, e il suo assistente Moreno Ocampo, così diversi per carattere e ambiente famigliare, disincantato e progressista il primo, avvocato cresciuto in una antica famiglia di militari il secondo, riuscendo così a rendere efficacemente la realtà di una parte della società argentina di quei tempi e che vale, per molti aspetti, anche ora, almeno nella Capital Federal. Quanto la vicenda processuale è resa in modo versosimile ed efficace (impressionante anche la somiglianza degli interpreti con i veri criminali in divisa, e ci sono le riprese televisive dell'epoca a dimostrarlo), tanto il racconto procede in maniera fluida e piacevole, con uno sguardo non privo di ironia e leggerezza sui "lati deboli" di questi personaggi, umani prima che eroi, il che spiega perché il film non annoia nemmeno per un attimo pur durando due ore e venti; d'altra parte credo fosse anche l'unica maniera, compensando la durezza delle testimonianze delle vittime, per renderlo digeribile e comprensibile per gli spettatori più giovani e quindi lontani da fatti che quelli della mia generazione, specie coloro che avevano e hanno un forte legame con quel Paese per motivi personali e famigliari, ricordano con un'emozione che perdura fortissima anche oggi. Oltretutto il film ha avuto solo una brevissima uscita nelle sale nella stessa Argentina ed è fruibile sulla piattaforma di Amazon Prime, quindi prevede un un pubblico essenzialmente televisivo, il che spiega ancora meglio le scelte dell'autore. Come detto Darín si conferma ancora una volta di una bravura e misura eccezionali, come quando interpretò Benjamín Esposito, agente dei Tribunali Federali, personaggio però di fantasia, ne Il segreto dei suoi occhi, che nel 2010 vinse l'Oscar come miglior film straniero e che raccontava una difficilissima inchiesta per un omicidio avvenuto nei sobborghi della capitale a metà degli anni Settanta, anche in quel caso in un periodo non lontano da quello descritto in Argentina, 1985, ma anche gli altri attori sono ampiamente all'altezza. Funziona tutto, ma il merito maggiore è quello di aver rievocato oggi una storia da non dimenticare, e il coraggio di questi due procuratori che non si sono fatti intimidire da nessuno nonostante ostacoli, minacce e benché fossero consci del perdurante condizionamento dell'apparato militare sulla fragile democrazia argentina appena restaurata (ricordo ancora le ripetute sedizioni ostili alle presidenze Alfonsín e Menem dei carapintandas tra il 1987 e il 1990 al fine di impedire i processi contro i responsabili della guerra sucia) e aver fatto risuonare ancora una volta le parole Nunca Más, con cui Strassera chiuse la sua requisitoria (le richieste di condanna furono accolte solo parzialmente, ma almeno Videla e il piduista Massera si "guadagnarono" l'ergastolo e il procuratore capo si rimise subito all'opera per stendere l'appello), riprendendo quelle scelte per intitolare il rapporto della CONADEP (Comisión Nacional sobre la Desaparición de Personas) presieduta da Ernesto Sabato e consegnata il 20 settembre del 1984 al Presidente Raúl Alfonsín. Un film necessario, di cui essere grati a Santiago Mitre.