giovedì 28 novembre 2013

Avanti il prossimo

La mia, più che una sensazione, è pressoché una certezza: i trionfalismi di ieri, la celebrazione della decadenza di Berlusconi da parlamentare come una sorta di 25 aprile, la Liberazione dal fascismo, non fanno i conti con l'oste, ossia con la storia: cioè con la maggioranza del popolo italiano che, come del resto quello russo e tanti altri su questa Terra, non riesce a fare a meno di identificarsi con un capobranco, una figura salvifica o, per altri, malefica, un feticcio a cui addossare tutto ciò che non funziona. Già si dimentica che il ventennio berlusconiano, dichiarato chiuso con una certa precipitosa avventatezza e, naturalmente, senza alcuna analisi seria da parte dei media più diffusi, è stato preceduto da un quindicennio di Craxismo e da quarant'anni di sostanziale Andreottismo, che dispiegano del resto i loro effetti perniciosi ancora oggi, mentre dall'altra parte (della medaglia, non della sostanza) fanno ancora i conti con il miserabile cinismo, l'inarrivabile arroganza a nascondere la sostanziale piccineria, la doppiezza e lo sfacciato opportunismo di una figura morta ormai da cinquant'anni come Togliatti. Il suo successore nel PD ex DS ex PDS ex PCI Gugliemlo Epifani sostiene che col voto al Senato di ieri non si sia fatto altro che applicare la legge (e in effetti è stato nulla più che un atto dovuto, peraltro procrastinato di quasi quattro mesi) tralasciando di ricordare che i suoi predecessori si sono ben guardati, fin dal 1994, di applicare quella del 30 marzo 1957 numero 361 sull'ineleggibilità dei beneficiari di concessioni pubbliche; i parlamentari del M5S festeggiano a spumante; tutti quanti insieme incorrono nel consueto errore di scambiare la causa con gli effetti: in altri termini Berlusconi non è la malattia, ma il sintomo; così come la crisi dei subprime e ciò che ne è seguito è la conseguenza logica di un sistema che non non può funzionare, e completamente impazzito. Come diceva Giorgio Gaber, "non temo il Berlusconi in sé, ma il Berlusconi in me". Conoscendo questo Paese, i tempi sono maturi per il suo successore nell'eterna commedia all'italiana.

martedì 26 novembre 2013

La cuoca presa per la gola: non sanno più che "strozzate" inventarsi



Dal Corriere della Serva on line: "Nigella Lawson presa per il collo dal marito Charles Saatchi: le foto, pubblicate per prime dal Sunday People in copertina, hanno fatto il giro del mondo".

lunedì 25 novembre 2013

Grazia ar cazzo!


Grazia, Graziella e grazie al...
Al capo dello stato va riconosciuta la coerenza. Se il malfattore si fosse fatto da parte, lasciando la vita politica, come nella richiamata nota del 13 agosto, la grazia sarebbe arrivata. Adesso è chiaro e confessato. “Non si sono create via via le condizioni, e nulla è risultato più lontano del discorso tenuto sabato dal senatore Berlusconi dalle indicazioni e dagli intenti che in quella dichiarazione erano stati formulati”. Dunque il cavaliere disarcionato rimproveri solo sé stesso. Il Colle la strada per evitare l’umiliazione di pulire i cessi da un qualche reverendo gliela aveva davvero aperta. Alla faccia dell’eguaglianza di tutti di fronte alla legge, Napolitano era pronto a recitare la parte di Gerald Ford con Richard Nixon, a fare quel gesto di pacificazione nazionale che avrebbe garantito la continuazione del berlusconismo senza il suo fondatore. Il solito calcolo di sinistra nei confronti del Caimano. Se mollo un po’, sul conflitto di interessi, sulle leggi vergogna, sulla bicamerale, sulle riforme lo riconduco alla ragione, quella mentale e quella di stato. Vent’anni dopo la lezione di Scalfaro, l’uomo che aveva annullato il berlusconismo in meno di un anno a colpi di par condicio e schiena dritta!
"Il contropelo" di Massimo Rocca, Radio Capital
In una breve sintesi, il motivo per cui sarebbe ora che Re Giorgio venisse detronizzato e mandato a marcire in galera assieme al delinquente abituale in questione: altro che pulire i cessi ai servizi sociali!

domenica 24 novembre 2013

L'ultima ruota del carro

"L'ultima ruota del carro" di Giovanni Veronesi. Con Elio Germano, Alessandra Mastronardi, Ricky Memphis, Virginia Raffaele, Ubaldo Pantani, Alessandro Haber, Massimo Wertmüller, Francesca D'Aloja, Dalila Di Lazzaro e altri. Italia 2013 ★★-
Ennesima dimostrazione che non bastano le buone intenzioni né un mattatore assoluto come Elio Germano per fare un buon film. La storia italiana degli ultimi cinquant'anni, più o meno, vista "dal basso", dalla parte dei più umili, se buona come idea, dà l'impressione di visto e rivisto in mille salse e, ancora una volta, sembra che ultimamente in Italia non si sia in grado di sfuggire allo schema del format televisivo: come serial di prima serata poteva anche funzionare, un decennio per puntata sulle reti nazionali e il successo era assicurato. Invece siamo alla solita pellicola romanocentrica, con i triti e ritriti luoghi comuni del caso: l'arroganza coniugata alla stupidità dello straricco; la furbizia dell'arrivista; la bontà della "brava gente", di cui è simbolo Ernesto, il protagonista, segnato fin dalla gioventù dalla "maledizione" del padre tappezziere, di cui è aiutante, che gli predice un avvenire da "ultima ruota del carro", per l'appunto. E' da un auto-carro da spedizioniere-traslocatore che il buon Ernesto, resosi indipendente, vede scorrere quattro decenni di storia italiana trovandosi, immancabilmente presente di persona e testimone, per quanto involontario, di tutte le svolte via via "epocali" nelle vicende del Paese: dal ritrovamento del cadavere di Moro in Via Caetani nel 1978 al "Mundial" del 1982, alle monetine gettate a Craxi davanti all'Hotel Raphaël in piena epoca tangentopolizia all'ascesa di Berlusconi nel 1994, alla crisi attuale; parallelamente scorre la sua vita privata, scandita dai passaggi comuni alla stragrande maggioranza dei baby boomers italiani: l'adolescenza tra il beatnik e il protestatario; il matrimonio; i figli; e poi i nipoti (la famigghia); le simpatie politiche a sinistra e il portafogli a destra; le amicizie di infanzia che segnano l'intera esistenza, accompagnandola; le disavventure sanitarie e l'eterna lotta contro la burocrazia, aggirabile con la "spintarella" e l'altrettanto eterna e celebrata arte di arrangiarsi; la fiducia, malriposta, nello "Stellone". Manca solo la mamma, stranamente: forse Veronesi e Chiti si sono dimenticati di specificare nella sceneggiatura che Ernesto ne era orfano, oppure il riferimento è saltato in fase di montaggio, perché altrimenti sarebbe davvero un caso unico nelle vicende di italiane. Se la ricostruzione d'epoca è efficace e il cast dignitoso (insieme a Germano spiccano la Raffaele e Haber, mentre Alessandra Mastronardi ha l'espressività di una scamorza), incredibile è la sciatteria del trucco: i personaggi invecchiati sembrano degli zombie usciti dai film di Romero,  sebbene questo sia il Paese che ha dato i natali a Rambaldi e a costumisti, parrucchieri e truccatori d'eccezione. Alla fine film non pessimo, ma molto al di sotto delle ambizioni: in confronto il tanto disprezzato Anni Felici o anche Una piccola impresa meridionale sono autentici capolavori.

venerdì 22 novembre 2013

Le voci di dentro

"Le voci di dentro" di Eduardo De Filippo. Regia di Toni Servillo. Con Toni e Peppe Servillo, Chiara Baffi, Betti Pedrazzi, Marcello Romolo, Gigio Morra, Lucia Mandarini, Vincenzo Nemolato, Marianna Robustelli, Antonio Cossia, Daghi Rondanini, Rocco Giordano, Maria Angela Robustelli, Francesco Paglino. Scene di Lino Fiorito; costumi di Ortensia di Francesco; luci di Cesare Accetta; suono di Daghi Rondanini; aiuto regia Costanza Boccardi. Produzione Teatri Uniti/Piccolo Teatro di Milano-Teatro d'Europa/Teatro di Roma. Al teatro Nuovo Giovanni da Udine. Prossime date italiane: dal 3 all'8 dicembre al Teatro Donizetti di Bergamo, dal 10 al 20 dicembre alla "Pergola" di Firenze, il 21 e 22 dicembre al Teatro Mancinelli di Orvieto e dal 2 al 14 gennaio 2014 al Teatro San Ferdinando di Napoli.
Ci sono voluti Toni Servillo, suo fratello Peppe e una compagnia intergenerazionale di valore per riconciliarmi, a un anno di distanza, con un testo di Eduardo De Filippo, a dimostrazione che non basta essere figli del grande autore partenopeo per renderlo al meglio: occorre entusiasmo, talento, rigore e al contempo leggerezza. Missione compiuta, come dimostra il tutto esaurito nelle quattro tappe friulane de "Le voci di dentro", tra Pordenone e Udine, e questo recitando in napoletano, reso però comprensibile a chiunque dalla bravura ed espressività di tutti gli interpreti. In questa commedia del 1948 De Filippo, "il più straordinario e forse ultimo rappresentante di una drammaturgia contemporanea popolare", secondo le parole dello stesso Toni Servillo, scava nella cattiva coscienza dei personaggi, e del pubblico stesso, mettendo a nudo, nelle macerie fisiche e morali della Napoli del Dopoguerra, le loro miserie opportuniste, la delazione in nome del "si salvi chi può", l'incapacità di ascolto reciproco anche all'interno della stessa famiglia. In un'atmosfera "nera", in bilico tra grottesco e tragico, la vicenda prende il via da un sogno scambiato per realtà da Alberto Saporito, un "allestitore" di spettacoli, convinto che il suo migliore amico sia stato assassinato dal vicino di casa e di averne le prove. Così convinto da denunciarlo alla polizia, salvo accorgersi dell'autoinganno quando non è in grado di trovare i presunti documenti a sostegno dell'accusa, ma che tutti abbiano degli scheletri nascosti nell'armadio risulta sempre più chiaro quando tutti i membri della famiglia dei vicini di casa vengono singolarmente a trovarlo incolpandosi l'un l'altro di un omicidio in realtà mai compiuto, in un'orgia di sospetti e accuse reciproche, e il suo stesso fratello, Carlo, un baciapile ipocrita, gli trama alle spalle contando sul fatto che finisca in galera per la falsa accusa, portando Alberto alla conclusione che i veri assassini, ma della fiducia e della stima reciproca, sono loro stessi, pronti a ritenere plausibile un omicidio compiuto per bieco interesse da un proprio famigliare, e accusarlo per sviare l'attenzione dalle proprie piccole nefandezze, e che è quindi preferibile tornare a parlare con i morti, come zi' Nicola, da poco dipartito, e che si esprimeva sparando petardi e bengala e non verbalmente, perché "cosa parlamm' a' fa'"... Grande spettacolo, da non perdere. 

giovedì 21 novembre 2013

Sole a catinelle

"Sole a catinelle" di Gennaro Nunziante. Con Checco Zalone, Aurore Erguy, Miriam Dalmazio, Robert Dancs, Ruben Aprea, Valeria Cavalli, Marco Paolini e altri. Italia 2013 ★★+
Ero in dubbio se contribuire al record di incasso di questa terza pellicola targata "Checcozalone", ma un buco di tre ore in una Milano piovosa in attesa di un treno ieri l'altro mi hanno portato a sciogliere gli indugi e a chiudermi in una sala cinematografica, al buio. E cominciamo da quello che non va già all'apparire sullo schermo della sigla Merdusa  Film: un volume audio assordante, marchio di fabbrica Fininvest-MerdaSet e, di conseguenza, l'impianto prettamente televisivo della pellicola. Come plot, taglio (raffazzonato) delle riprese, accozzaglia di luoghi comuni: la vicenda narra di un padre pugliese che vive e lavora al Nord, precisamente a Padova (e non a Vicenza dove più di un "critico" ha collocato la location, facendosi ingannare dalla targa dell'auto usata dal protagonista), pressappochista, inaffidabile, "imprenditore di sé stesso" (fa il rappresentante di scope elettriche), che fa sfoggio della sua ignoranza senza ritegno, ottimista allo spasimo, tipico prodotto del ventennio berlusconiano, in via di separazione dalla moglie a causa della sua inguaribile cialtronaggine (si indebita fino al collo contando sul suo presunto talento per permettersi un livello di vita incongruo e insostenibile, votato all'inseguimento del gadget e del prodotto di tendenza), fedele però alla parola data: aveva promesso al figlio di dieci anni, Nicolò, una vacanza da favola se fosse stato promosso a pieni voti e la manterrà dopo che è andato a ritirarne la pagella di tutti dieci. Manterrà involontariamente, perché all'inizio lo porterà in Molise, mendicando ospitalità presso una vecchia zia bigotta e spilorcia che non vede da trent'anni, ma una serie di vicissitudini lo porterà a frequentare Zoe, ricca rampolla di una stirpe di industriali (guarda caso proprietari della fabbrica dove la moglie di Zalone è stata messa in cassa integrazione), nella sua villa-agriturismo alternativo in Toscana, che gli serberà eterna gratitudine per avere "sbloccato" il figlio, coetaneo di Nicolò, affetto da "mutismo selettivo" (causato da padre cinematografaro e stronzo). Insomma, inevitabile lo Happy End, ma la trama è ovviamente il pretesto per dare sfogo all'indubbio talento di Luca Medici, in arte Checco Zalone, il quale, non ci sono santi, è l'unico in Italia, a parte forse Antonio Albanese, in grado di andare oltre alla dimensione dello sketch e reggere da solo un intero film: a mio parere è, in tutto e per tutto, l'Alberto Sordi del 2000 (capace come lui anche di cantare e di scrivere testi demenziali e all'altezza), perfetto interprete dell'italiano medio dei suoi tempi, con la differenza che Sordi in buona parte lo era lui stesso e Zalone è più cattivo e, secondo me, più acuto, intelligente e meno banale: mette consapevolmente il dito nella piaga, anche se fa finta di no. Alla fine mi sono abbastanza divertito, e il giudizio non del tutto negativo è dovuto esclusivamente a lui e, in misura minore, a due comprimari come Valeria Cavalli e Marco Paolini, mentre mi auguro che l'esordio cinematografico di Aurore Erguy rimanga tale e che torni a occuparsi di cinema dall'altra parte dello schermo. 

mercoledì 20 novembre 2013

La gabbia dorata - La jaula de oro

"La gabbia dorata" (La jaula de oro) di Diego Quemada-Díez. Con Brandon Lopez, Rodolfo Dominguez, Karen Martinez, Carlos Chajon, Ramón Medína e altri. Messico 2013 ★★★★½
Eccellente esordio alla regia dello spagnolo Diego Quemada-Díez, già collaboratore, non a caso, di Ken Loach, Spike Lee, Oliver Stone, Meirelles e Gionzález-Iñarritu, che per raccontare la piccola grande epopea migratoria di tre ragazzini dal Guatemala agli USA attraversando tutto il Messico (dove il regista risiede), ha impiegato dieci anni, di cui la metà dedicati a interviste e a percorrere lui stesso per tre volte il tragitto, via treno, compiuto abitualmente dai migranti centroamericani. Un'opera viva, dunque, che trae spunto da diverse storie vere raccolte di persona e che racconta la vicenda di Juan, Sara e Samuel che, partendo da una vila miseria guatemalteca ai margini di una discarica abusiva, vogliono raggiungere gli USA, superando due confini. Acciuffati dalla polizia messicana, derubati e rispediti indietro al primo tentativo, ci riprovano con maggiore successo al secondo, quando al gruppo si aggrega Chauk, un maya del Chiapas che non parla una parola di spagnolo, prima respinto da Juan (c'è sempre qualcuno più "negro", o "terrone", o "indio" di un altro) e poi accettato dopo avergli salvato la vita: da qui nasce un'intesa basata sulla solidarietà che non necessita di parole (quelle che invece Chauk e Sara provano a usare insieme per comprendersi anche verbalmente). Il quartetto man mano si assottiglia: Samuel deciderà di rimanere in Guatemala; il resto del terzetto verrà vessato, insieme ad altre decine di migranti, da una serie di sfruttatori che, come gabellieri medievali, li deruberanno o costringeranno a delle corvé lavorative per poter procedere, finché all'ennesimo posto di blocco (quando non è la polizia sono dei banditi, ma non cambia la sostanza) viene scoperto il sesso di Sara, nonostante la fasciatura del seno e il taglio dei capelli, e la ragazza rapita per essere avviata alla prostituzione; Chauk e Chauk riusciranno a raggiungere i tanto agognati USA, non senza essere stati usati per trasportare droga e venire abbandonati a sé stessi, oltre la vergognosa muraglia innalzata da Bush e soci, oltrepassata la quale, e in sua prossimità, è ammesso il "tiro libero" da parte della famigerata migra e il povero indio ci rimarrà secco al primo colpo. Juan sarà l'unico a raggiungere la meta, che si rivela fin da subito una "gabbia dorata": oltrepassato il muro il panorama cambia immediatamente, e da agreste che era diventa un deserto cementizio e industriale che si annuncia con ciminiere da cui escono miasmi non meno pestilenziali di quelli delle discariche del Guatemala. Un mondo che si rivela di plastica. Juan finisce pur sempre ad avere a che fare con la putrefazione i rifiuti, questa volta alimentari, in un macello industriale, ultimo degli addetti alle pulizie: una scena agghiacciante. Film che parla sostanzialmente di confini, non solo geografici ma anche mentali, entrambi di per sé insensati quanto difficili da superare; fedele alle vicende reali e che dà voce a un fenomeno mai abbastanza affrontato come quel delle migrazioni, sempre esistito ma oggetto, come tutto il resto, a una minuziosa opera di sfruttamento minuziosamente organizzata sotto ogni aspetto, secondo una logica "globalizzata"; visto dalla parte e con gli occhi dei più indifesi, e illusi. Da non perdere. 

lunedì 18 novembre 2013

Il "caso" e le (pari) opportunità

E' la terza settimana di fila che la giornata inizia invariabilmente con disamine, commenti, disquisizioni, ipotesi, retroscena e quant'altro sul "Caso Cancellieri", ultimo argomento di distrazione di massa, come se si trattasse di una notizia. Ma dove? La vera notizia sarebbe costituita dalle sue dimissioni, o dalla sua immediata destituzione, non dal fatto che rimanga con le sue possenti natiche avvitata alla poltrona. Non esiste alcun caso. Non è per "caso" che l'energumena sia diventata responsabile del dicastero della Giustizia, nominata da un golpista su proposta di un imbecille (per quanto fornito di palle d'acciaio), indicazione della marionetta robotizzata con cui aveva esordito nel precedente governo e il placet di un delinquente abituale pluricondannato che non si riesce nemmeno ad espellere dal Parlamento in cui siede abusivamente da quasi un ventennio. Nella Terra dei Cachi è giusto che anche una rappresentante del sesso femminile abbia la sua seconda opportunità, così come l'ha avuta il suo collega agli Interni, rimasto al suo posto nonostante il sequestro e il rimpatrio forzoso in Kazakistan di Alma Shalabayeva, moglie del dissidente Mukhtar Ablyazov e della loro figlioletta di sei anni da parte di diplomatici kazaki in combutta con funzionari del Viminale. E diamogliela anche a un esponente di un sesso non definibile, per correttezza politica, come l'esimio governatore delle Puglie. Nulla è un "caso", meno che mai fare parte di un governo espressione perfettamente adeguata di una classe politica ributtante nel suo complesso, senza distinzioni. Per quanto mi riguarda, chi partecipa a qualsiasi titolo a questo disgustoso e truffaldino gioco delle parti è un complice, e perfino di più  chi continua a parlarne conferendo a questa gentaglia una qualsivoglia credibilità: altro che "caso". Poi questi Soloni del nulla cadono dal pero e blaterano di deriva autoritaria, trionfo dell'antipolitica, eversione strisciante. Come se non ne fossero loro i protagonisti, oltre che corresponsabili. 

domenica 17 novembre 2013

Aspettando Godot

Aspettando Godot di Samuel Beckett. Regia di Jurij Ferrini, traduzione di Carlo Fruttero. Con Natalino Balasso, Jurij Ferrini, Angelo Tronca, Michele Schiano di Cola. Scenografia di Samuel Beckett; costumi di Michela Pagano. Produzione U.R.T.-Teatria. Ultimo spettacolo al Teatro Elfo/Puccini di Milano oggi pomeriggio alle 16, prossimamente alcune date nel Triveneto e tra fine gennaio e inizio febbraio a Torino, tournée in via di definizione
Che la coppia Balasso-Ferrini funzionasse perfettamente lo si era visto nell'allestimento de "I rusteghi" di Gabriele Vacis per il CRT di Torino portato un tournée con grande successo due stagioni fa, tanto da indurre i due attori a continuare la loro collaborazione sul registro comico-assurdo che li vede sempre più affiatati portando in scena il capolavoro di Beckett, per la regia dello stesso Jurij Ferrini. Scenografia senza fronzoli, secondo le indicazioni dello stesso drammaturgo irlandese, con un solo, scarno albero lungo un sentiero di campagna sotto il quale si ritrovano ogni giorno, verso il tramonto, Didi e Gogo, ossia Vladimiro ed Estragone, i due clochard-clown in perenne attesa dell'arrivo del fantomatico Godot, con cui hanno preso un appuntamento delle cui cause hanno ormai perso memoria, come pure dell'identità stessa del personaggio, e per ammazzare il tempo intrecciano un duello dialettico fatto di dialoghi tanto surreali quanto esilaranti. Uniche variazioni sul tema, le apparizioni, altrettanto puntuali, di Pozzo e Lucky, un padrone che tiene a guinzaglio il suo servo tiranneggiandolo  senza pietà, diretti a una meta altrettanto imprecisata, e un ragazzo che, al termine di ogni giornata, viene ad annunciare che, per questa volta, Godot non potrà venire ma che l'indomani, senz'altro, giungerà all'appuntamento. Allestimento fedele all'originale, due attori bene assortiti ed entusiasti supportati da altri due all'altezza per un classico moderno sulla circolarità e l'insensatezza dell'esistenza umana, e sulla perseverante coltivazione dell'arte dell'attesa di un futuro che si ritiene, chissà perché, migliore del presente: si esce dallo spettacolo più leggeri e con la confortante consapevolezza di non essere soli in questa gabbia di matti che è il mondo. 

sabato 16 novembre 2013

Miss Violence

"Miss Violence" di Alexandros Avranas. Con Themis Panou, Eleni Roussinou, Rena Pittaki, Sissi Toumasi, Kalliopi Zontanou, Constantinos Athanasiades, Chloe Bolota e altri. Grecia 2013 ★★★★
E' fuori di dubbio che una giuria meno accomodante con il familismo italiota di quella presieduta da Sua Eminenza Bernardo Bertolucci, altra icona sbiadita del progressismo e "laicismo" cinematografato nazionale, avrebbe assegnato il Leone d'Oro all'ultima rassegna veneziana a questo film o, ancora meglio, a Via Castellana Bandiera di Emma Dante, e invece quest'ottima seconda pellicola del giovane greco Alexandros Avranas ha dovuto accontentarsi del Leone d'Argento e l'eccellente Themis Panou del premio come migliore attore: a entrambi il film, gli unici che avesser qualcosa da dire del decaduto festival lagunare, è stato preferito l'insulso e pretenzioso finto documentario Sacro GRA. Atene, interno giorno in un appartamento piccolo borghese decoroso, asettico, adornato di agghiaccianti quadri tratti da puzzle che rappresentano paesaggi alpini: in salotto, con tanti di cappellini, cotillons e torta, la famiglia sta festeggiando il genetliaco della undicenne Angeliki che, mentre i parenti sono distratti, con fredda determinazione, scavalca il parapetto e si precipita nel vuoto. Il tutto senza motivazioni apparenti, le quelli emergono però man mano col procedere della pellicola. La famiglia ha infatti delle reazioni sconcertanti e, sotto a direzione del "capo", il nonno, un personaggio all'apparenza mite e irreprensibile, improntate alla rimozione dell'accaduto, a cominciare dai vestiti e dagli oggetti appartenuti ad Angeliki, in nome della normalità. Sono perplessi gli insegnanti della scuola, e ancora di più i funzionari dei servizi sociali che affiancano la polizia nelle indagini di rito, i quali tengono d'occhio la situazione e cercano di capire cosa c'è sotto. La normalità, appunto, di una famiglia malata dove dietro a un'apparenza di pulizia, perbenismo, ordine si nascondono vicende inconfessabili, violenze, forse incesti, comportamenti aberranti e colpevole complicità delle vittime, i cui ruoli si riescono a capire solo col procedere della pellicola, e nemmeno del tutto perché in fondo è di secondaria importanza definirli, in un universo chiuso fatto di squallore, morbosità, reticenza: Angeliki si uccide quando Myrto, la quattordicenne figlia del nonno e sua zia, le rivela le consuetudini di famiglia e dunque l'avvenire che l'aspetta. Tutto questo verminaio viene fatto emergere senza che occorrano spiegazioni, e alcuna scena truculenta, solo attraverso le immagini, le espressioni e soprattutto i silenzi (la figlia maggiore Heleni, madre di Angeliki e di due suoi fratelli e nuovamente incinta di ignoto padre - forse il nonno - è emblematica): per questo servono un regista di alto livello, e Avranas, sulla scie di Heineke e Seidl lo è; e degli interpreti in gamba e tutto il cast, adolescenti bravissimi a parte, di estrazione teatrale, lo è anch'esso. Themis Panou, poi, è un mostro di bravura, almeno quanto mostruoso è il personaggio che interpreta nel film: scomodo, e per questo fastidioso e perturbante in un Paese fondato sul mammismo. 

mercoledì 13 novembre 2013

Giovane e bella

"Giovane e bella" (Jeune et jolie) di François Ozon. Con Marine Vacth, Géraldine Pailhas, Frédéric Pierrot, Fantin Ravat, Johan Leysen, Charlotte Rampling, Nathalie Richard, Diédjé Apali. Francia, 2013 ★★★★
Spiazzante, provocatorio, mai banale, François Ozon ha colpito ancora indagando sul suo tema preferito: i misteri e le ambiguità dell'adolescenza e il passaggio nel mondo degli adulti con sullo sfondo il rapporto ipocrita e ambivalente con la sessualità di questi ultimi. Isabelle è la giovane e bella liceale parigina di buona (e progressista) famiglia che il regista segue durante l'arco di quattro stagioni con la colonna sonora, sempre graditissima, della grande Françoise Hardy. In estate, in vacanza al mare con la famiglia e una coppia di amici altrettanto "moderni" e"democratici", perde la verginità di sua iniziativa, in modo chirurgico, come per levarsi un dente del giudizio, con un ragazzo bello, scemo e pure tedesco di cui non le importa nulla; in autunno, rientrata a Parigi, comincia a prostituirsi con uomini anche molto più anziani mettendo annunci su un sito internet: con uno, George, sulla settantina, il rapporto si fa più profondo, finché questo non ci rimane secco durante un amplesso, per cui viene scoperta dalla polizia, da cui la famiglia viene a sapere della faccenda mentre nessuno, e meno che mai la madre, tanto disinvolta, giovanilista, comprensiva e persino "complice", ci capisce qualcosa, senza neanche lontanamente immaginare (anche perché Isabelle quello che guadagna non lo spende) le attività della ragazza, che finisce per picchiare nel colmo di un delirio solipsista (pentendosene subito, perché non sarebbe "politicamente corretto") non per il "male" che avrebbe fatto a sé stessa ma per avere ferito lei, sua madre. In famiglia Isabelle diventa un'osservata speciale e si moltiplicano le attenzioni nei suoi confronti e naturalmente viene mandata anche da uno pisichiatra, ma lei, che possiede la dote naturale di mandare tutti quanti in cortocircuito e in contraddizione con sé stessi, non fatica a mettere in seria difficoltà anche quest'ultimo. Giunge la primavera e sembra tornata la normalità quando Isabelle inizia una relazione con un coetaneo del suo stesso ambiente, immediatamente accolto come un membro dalla progredita famiglia tipicamente intellettuale sinistrorsa, ma è una normalità in cui Isabelle non si ritrova, preferendo alla fine che alla sua bellezza, gioventù e talento sia almeno riconosciuto un valore, piuttosto che la sbadata attenzione del mondo "normale" che la circonda, e la vicenda si chiude con l'incontro, sollecitato dalla moglie di George, interpretata da una intensa e sempre bravissima Charlotte Rampling, nella stanza d'albergo in cui il marito era morto tra le braccia di Isabelle, e tra le due donne si instaura un breve ma intenso rapporto di interesse reciproco e senza giudizi preconcetti, quello che a Isabelle, al di là delle apparenze, manca completamente nelle sue relazioni famigliari o d'amicizia. Ozon si conferma un maestro nel mostrare i meccanismi delle relazioni famigliari che studia con attenzione da entomologo, e questo grazie anche alle scelta puntuale degli interpreti, magistrale anche in questo caso. Caso vuole che in Italia il film sia uscito nelle sale in coincidenza con l'ennesimo "scandalo" di prostituzione minorile d'alto bordo, fenomeno non nuovo che suscita un'attenzione pruriginosa alimentata dai media da un lato, e da pseudo analisi di una superficialità e banalità disarmanti dall'altro: tra gli altri meriti  della pellicola, primeggia quello di sbattere in faccia, senza violenza, una realtà che non si vuol vedere quando tocca da vicino o si dribbla sentenziando a vuoto ma non prendendola per quello che è.

lunedì 11 novembre 2013

Something Good (ma non questo film)

"Something Good" di Luca Barbareschi. Con Luca Barbareschi, Zhang Jingchu, Gary Lewis, Kenneth Tsang, Michael Wong, Carl Long Ng, Frank Crudele e altri. Italia 2013 
A dispetto dei suoi trascorsi da parlamentare del PDL, reputo Barbareschi, qui al suo terzo lavoro come regista, un uomo intelligente e un buon attore, così mi sono fatto irretire da una critica letta non so dove e dall'argomento del film, il traffico internazionale di cibi adulterati, e sono andato a vedermi "Something Good". Girato professionalmente, non c'è che dire, con un cast all'altezza del genere noir a cavallo tra quello di stile francese e quello asiatico (grazie anche all'ambientazione ad Hong Kong, forse la cosa migliore della pellicola, insieme alle buone intenzioni), fotografia patinata, colonna sonora adeguata, ma è e rimane un polpettone televisivo troppo rabborracciato e compresso nei tempi per poter funzionare come film. Compressione che rende poco credibile la vicenda che vede al centro Matteo Mercury, un italiano abilissimo nel piazzare alimenti contraffatti o scaduti non solo a mense di vario tipo ma anche, e qui sta un colpo veramente grosso, derrate come il latte in polvere, oltretutto adulterato, alle organizzazioni, internazionali o non governative, che si occupano dei bambini affamati nel mondo, e in Africa in particolare. Un vero figlio di puttana, insomma, tanto bravo da meritarsi il posto di amministratore delegato di una ditta cinese specializzata nella produzione e nello smercio di simili prodotti. Ben conoscendo il mondo dei prodotti alimentari lui si guarda bene dal consumare quelli di uso comune e così, portato una sera a cena da un amico in un ristorante alla mano ma rinomato per la freschezza dei suoi prodotti, non fidandosi va a ispezionare la cucina dove fa il suo incontro con Xiwen, la cuoca e proprietaria, giovane, bella e affascinante, che ha fatto della qualità degli ingredienti la sua missione dopo che suo figlio di 4 anni, come si vede nella scena d'apertura del film, muore fulminato a causa di un'intossicazione alimentare. Da qui un tracciato scritto: diffidenza reciproca iniziale, poi lui si innamora di lei ed entra in crisi di coscienza; lei si innamora di lui; lui salva lei, o meglio il suo ristorante, dal rischio di chiusura (colpa delle banche ciniche e bare, e giù un'altra frecciata buonista e luogocomunista); lei salva lui, dalla galera, fornendogli un alibi (fasullo) per un omicidio che non ha commesso: tutto questo nell'arco di un paio di giornate, mentre  l'intrigo monta e la vicenda si complica di conseguenza in maniera sempre più inverosimile, la polizia è (in parte) corrotta, i cadaveri si moltiplicano e la storia d'amore, appena cominciata, è già finita, perché il nostro eroe alla fine tira le cuoia: svelo il finale cosicché chi ha avuto la pazienza e la bontà di leggermi fin qui eviti di andare a vedere questa brodaglia che, adeguatamente dilatata, poteva funzionare come serial TV in due puntate da 90-100' ciascuna, il format ideale per il pubblico di bocca buona di RaiSet, ma non sul grande schermo. Non ci siamo proprio. 

sabato 9 novembre 2013

Prisoners

"Prisoners" di Denis Villeneuve. Con Hugh Jackman, Jake Gyllenhaal, Maria Bello, Viola Davis, Terrence Howard, Melissa Leo, Paul Dano, David Dastmalchian. USA 2013 ★★★+
Film a due facce questo noir girato dal regista franco-canadese nella provincia USA, in una cittadina piuttosto squallida e apparentemente tranquilla della Pennsylvania, in un clima cupo, autunnale, dominato da colori scialbi e da una pioggia incessante, che prende le mosse dalla sparizione da casa di due bambine di sei anni uscite a giocare mentre i genitori di entrambe stavano festeggiando il Giorno del Tacchino, ossia del Ringraziamento. I sospetti cadono inizialmente su un ragazzo subnormale che era stato visto aggirarsi nella zona a bordo di un camper, ma la mancanza di prove costringe Loki, uno strano poliziotto tatuato e con un'espressione scimmiesca (Gyllenhaal: che non finisce di convincermi), a rilasciarlo, suscitando l'ira di Keller, il padre (bianco e devoto) di una delle due bimbe che, da bravo yankee affetto dalla paranoia di essere accerchiato da un mondo ostile, pensa di sostituirsi alla polizia (peraltro bloccata da inettitudine, menefreghismo e burocrazia) per condurre le indagini per conto suo. Così finisce per sequestrare il primo sospettato cercando di estorcergli una confessione mediante pestaggi e sevizie varie che vedono coinvolti a diversi gradi anche i genitori dell'altra bimba, mentre la moglie di Keller opta per la soluzione "Mother's Little Helper", ossia gli psicofarmaci; nel frattempo Loki, che ha finora risolto tutti i casi assegnatogli e, nonostante l'aspetto, l'eloquio e le movenze non è del tutto idiota, segue altre piste e man mano scopre che la cittadina nasconde più di uno scheletro nell'armadio, anzi: in sacrestia e perfino, letteralmente, in cantina. Alla fine di una serie di svolte a sorpresa sempre più improbabili nell'indagine, riesce a recuperare le due bimbe e a identificare il colpevole (con una sensazione di dejà vu dal sapore vagamente hitchcockiano), già scoperto poco prima da Keller, il padre "faso tutto mi", ma suo malgrado. Film a due facce, dicevo: perché se come thriller "Prisoners" è alquanto improbabile, con una sceneggiatura a tratti lacunosa per cui, come spesso succede in pellicole del genere, si finisce per perdere il filo, Villeneuve usa in realtà il genere nella sua versione tipicamente hollywoodiana per descrivere metaforicamente lo stato di smarrimento di cui sono preda gli USA in generale, con personaggi che sono tutti quanti prigionieri di qualcosa, a cominciare dai propri stessi dubbi, impauriti dalla perdita di una fede che fa da sottofondo a tutta la vicenda e che li lascia senza bussola, incapaci di decidere cosa sia giusto e cosa sbagliato, cosa bene e cosa male, perfino riguardo all'uso della tortura per ottenere informazioni: cosa che del resto riguarda la Grande Nazione sedicente paladina dei diritti umani ed esportatrice di democrazia sulla canna dei fucili, o meglio a mezzo drone, nella sua stessa essenza. Ed è nel senso di inquietudine che permane uscendo dalla sala, chiedendosi se si ha a che fare con gente alienata oppure riconducibile alla ragione, che sta l'aspetto meritevole del film. 

giovedì 7 novembre 2013

Squallore infinito / Lo scoop col morto

Abbiamo scoperto la tomba segreta di Priebke
nel cimitero di un carcere, senza nome né date

Il reportage di Ezio Mauro su Repubblica in edicola 

Ecco il cimitero dove lo Stato italiano ha sepolto in gran segreto il boia delle Ardeatine. Si trova in un carcere. E sulla croce c'è solo un numero. Così la famiglia potrà ricordarlo. E tutti gli altri dimenticarlo
NON c'è ancora l'erba sulla terra smossa dell'ultima tomba. Terra fresca, scavata col piccone e rigettata nella fossa col badile, in fretta. Erano almeno vent'anni, qualcuno dice trenta, che qui non c'era una nuova sepoltura. Cercare nomi e date sulla pietra delle vecchie tombe è difficile. Quando un cimitero è in disuso, anche se resta consacrato e il cappellano viene a benedire nel giorno dei Morti, tutto degrada in fretta. L'erba cresce selvaggia nel quadrato del piccolo camposanto, le povere lapidi scoloriscono, il legno delle croci s'incurva, la vecchia cappella in centro al recinto bianco e quadrato sembra chiusa da secoli. E quell'unico cipresso, alto e solitario a sudovest ricorda una meridiana che segna solo il tempo passato. Ma c'è un tempo che non passa e viene a compiersi proprio qui. Perché questo è il luogo misterioso della sepoltura di Erich Priebke, capitano delle SS, l'aiutante di Kappler nel massacro delle Fosse Ardeatine, dove i tedeschi hanno giustiziato 335 prigionieri italiani per rappresaglia dopo l'attentato di via Rasella.... E' il cimitero di un carcere, unico pezzo di terra italiana dove la morte di Priebke può tornare ad essere morte e non simbologia nazista, strumentalizzazione della teppaglia. E' insieme la sede di una sepoltura dignitosa, come un Paese civile deve garantire anche al suo nemico più terribile, e la prova di un conflitto irriducibile e permanente, perché la memoria non rinuncia al giudizio su ciò che è accaduto...
Alla faccia del vincolo alla segretezza assoluta. Nessuno sa niente, e chi sa deve tacere ma Ezio Mauro, nei panni di ScooperMan, scopre tutto e così li sputtana. Che meschino. Non gli è rimasto niente di meglio da fare e da scrivere. Poaréto.

mercoledì 6 novembre 2013

Manipolazioni lagunari

In un quadro di pensiero standardizzato (più che unico) e di disinformazione sistematica allo scopo preciso di narcotizzare le coscienze, i media nostrani hanno due atteggiamenti di fondo: non dare una notizia quando c'è o occultarla in mezzo a una montagna di ciarpame, il che ha sostanzialmente lo stesso effetto; oppure ampliare a dismisura e ripetere all'infinito una non notizia, quando questo serve per prendere la gente per sfinimento distraendola da quelle vere o disgustandola al punto da non volere più sapere cosa dicono TG, GR e gazzette varie. E' il caso, quest'ultimo, della comunicazione politica invalsa in Italia, ossia quella fatta di "annunci" e intenzioni, a coprire una totale inconcludenza oppure dissimulare quelle rare decisioni, puntualmente impopolari, su cui si evita qualsiasi confronto o discussione: esempi di scuola i fiumi di parole sulla decadenza da parlamentare di Berlusconi, sulle previsioni puntualmente smentite di crescita del PIL e sulla fine della recessione (la luce in fondo al tunnel di montiana memoria), sull'IMU, su casi giudiziari infiniti come quello di "Amanda e Raffaele", quando è palese a tutti che uno come Letta nipote, che in teoria sarebbe capo del governo di questo Paese dei Cachi, non è in grado di determinare, autonomamente, nemmeno il colore delle mutande che indossa. Una forma intermedia, che prevede entrambe le modalità, e si risolve comunque in una informazione distorta e quindi in una mistificazione, è quella di cui è esempio la buona novella, sparata sulle prime pagine di tutti i quotidiani e in apertura nei notiziari radiotelevisivi di oggi dello "Stop alle grandi navi a Venezia" imposto dal governo. Questo il titolo, più o meno, universalmente utilizzato che dava fiato alle trombe e lubrificante alle lingue in un profluvio di "Era ora! Finalmente! Osanna: il governo ha dimostrato mano ferma andando incontro al comune sentire del 90% degli italiani" e via di questo passo per un provvedimento che è poco più di un atto dovuto, dando finalmente concreta attuazione al Decreto "anti-inchini" Clini-Passera, finora inapplicato proprio in Laguna. Pochi secondi dopo, o una riga sotto, la precisazione: il "piano per mitigare il traffico nel Canale della Giudecca" - così, ad esempio, Repubblica - entrerà in vigore il 1° gennaio 2014 e il divieto riguarderà il passaggio dei traghetti (ai cui usufruitori interessa poco o niente se transitare o meno nel Bacino di San Marco o di eventuale "inchini") e la riduzione di un 20% rispetto al 2012 del numero delle navi da crociera di stazza superiore alle 40 mila tonnellate e solo dal novembre del 2014, ossia tra un anno, di quelle con una stazza superiore alle 96 mila, lasciando il via a libera a quelle, ad esempio, con un tonnellaggio limitato a 95 mila, non precisamente delle agili giunche di bambù, che continueranno a utilizzare la Bocca di Porto del Lido per accedere in Laguna e il Canale della Giudecca per raggiungere la Marittima. Solo proseguendo nella lettura di alcuni articoli si viene poi a scoprire che verrà realizzato il Canale Contorta-Sant'Angelo, una diramazione del Canale dei Petroli (quello che utilizzeranno le navi-condominio a partire dal novembre prossimo, entrando in Laguna dalla Bocca di Malamocco), per collegarlo alla Marittima, in ossequio ai voleri dell'onnipotente Paolo Costa, presidente dell'Autorità Portuale e già sciagurato sindaco di Venezia, invece che spostare quest'ultima a Marghera, come auspicato dall'attuale primo cittadino Giorgio Orsoni, inutile prima ancora che dannoso. Soluzioni, entrambe, che non risolvono alla radice il problema vero e di cui nessuno parla, ossia l'equilibrio del delicatissimo e particolare, se non unico, ecosistema lagunare, già compromesso con lo scavo, nei primi anni Sessanta, del Canale dei Petroli di cui sopra, in omaggio all'industrializzazione selvaggia e allo sviluppo del Petrolchimico di Porto Marghera, con gli esiti che, in un Paese meno smemorato, dovrebbero essere ben noti a chiunque (contro quel progetto criminale mi ricordo che si battè tra gli altri come un leone, ma inutilmente, Indro MontanellI sulle pagine del Corriere della Sera). Figurarsi procedere a un suo "raddoppio": significa, tra l'altro, ignorare volutamente una delle più elementari leggi della fisica, quella dei vasi comunicanti, per non citare il principio di Archimede. Non meno demenziale la costruzione di una seconda Marina a Marghera: semplicemente le grandi navi, da crociera o meno, sono incompatibili con la Laguna e con la sopravvivenza di Venezia come tale, il suo cuore abitato, una città unica al mondo. Si evidenzia ancora una volta in una vicenda particolare quello che vale in generale: confondere gli effetti con le cause, senza ragionare su queste ultime e voler capire che è il sistema in quanto tale che non funziona ed è sul punto di collassare. Lo stesso vale in medicina: si diagnosticano, e quando va bene si prevengono, i sintomi e si curano le malattie, non il malato. Che nel caso in questione sono Venezia e la sua Laguna; in quello più vasto e globale un "modello di sviluppo" compulsivo e ad libitum che per definizione porta all'autodistruzione dell'umanità, e le cui crisi sono così ricorrenti e acute da dover ormai essere definite con certezza croniche e con esito esiziale, ma si preferisce sempre pensare che si tratti solo di febbri temporanee, di sintomi che si possono tamponare con l'assunzione di un farmaco (come manovrare i tassi di interesse in funzione dello spread), in sostanza rinviando il decesso pur di non affrontare il problema di fondo. Che non si potrà mai vedere se ci si ostina a guardare il dito che, in realtà, sta indicando la luna. 

lunedì 4 novembre 2013

La vita di Adele

"La vita di Adele" (La vie de Adèle) di Abdellatif Kechiche. Con Adèle Exarchopoulos, Léa Seydoux, Salim Kechiouche, Mona Walravens, Jeremie Laheurte e altri. Francia 2013 ★★★★+
Fermo restando che tra i film presentati a Cannes la scorsa primavera preferisco "La grande bellezza", questa discussa pellicola di Kechiche, premiata con la Palma d'Oro, è notevole per due aspetti, che si integrano a vicenda: la straordinaria interpretazione della giovanissima protagonista, la diciannovenne Adèle Exarchopoulos, e la naturalezza con cui il regista racconta la vicenda del film, che non sarebbe stata possibile se tra essi, regista e attrice, non si fosse instaurato un rapporto di totale fiducia e intesa che permettesse alla macchina da presa di scandagliare ogni minima espressione, facciale o corporale di lei. Perché la Exrchopoulos parla con ogni dettaglio del suo viso e del suo corpo, con le sue reazioni, coi suoi movimenti, i suoi sguardi, oltre che con le parole che, trattandosi di un film francese, abbondano: ma non sono mai fatue in bocca ad Adele e alla ragazza di cui è profondamente innamorata, la Emma dai capelli blu interpretata da Léa Seydoux. Si tratta, di fatto di una grande storia d'amore, in particolare quella di una ragazza innamorata; seguendola nel percorso da liceale con la passione della letteratura, Marivaux in particolare, a insegnante: ciò che sempre ha desiderato diventare, per trasmettere ai bambini quel che ha imparato in lunghi anni di scuola e sui libri che ha amato. Un'adolescente in preda alle inquietudini della sua età, senza particolari grilli per la testa però mai banale, nata in una famiglia di livello medio-basso, che ha una relazione che non la soddisfa con Thomas, suo compagno di scuola: sente che le manca qualcosa ma non riesce a capire di cosa si tratta fino a quando non incontra Emma, una studentessa d'arte un po' più vecchia di lei, ed è il colpo di fulmine che le cambia l'esistenza e le dà quella dimensione, che non è solo sessuale, che non sapeva di avere. Da qui nasce un rapporto profondo, molto appassionato e sensualmente appagante che segnerà per sempre le due ragazze, pur nelle loro differenze, che sono sociali e quindi di aspirazioni, modo di rapportarsi col prossimo, con la propria famiglia d'origine, financo col cibo. Il tutto espresso attraverso sfumature, particolari, frasi, gesti mai casuali eppure perfettamente naturali, come dicevo sopra; mai in maniera morbosa, e meno che mai nelle lunghe scene di sesso esplicito: per questo il film merita di essere visto. E non ci si accorge che dura ben tre ore, cosa che non si direbbe mai di un film transalpino di cui pure ha alcuni aspetti tipici come la verbosità e il parlarsi addosso di personaggi macchiettistici come quelli di una certa gauche artistoide non dissimile del resto da quella nostrana e altrettanto insopportabile; o l'abbondare delle scene da ballo: come nella stragrande maggioranza dei film italiani, non possono mancare almeno 4 o 5 scene in discoteca o di feste in cui gli interpreti si dimenano come macachi. Perfino in queste occasioni l'unica in grado di parlare con il corpo, anche solo accennando a dei movimenti e non risultando mai "forzata", è la strepitosa Adèle Exarchopoulos. A meno che non sia sia limitata a interpretare sé stessa (cosa del resto improponibile visto che il film si sviluppa lungo un lasso temporale di almeno 4-5 anni, e alla fine la vedremo già insegnante di ruolo in una scuola elementare), cosa che avrebbe comunque fatto in maniera eccezionale e mostrando un talento fuori dal comune, di lei sentiremo ancora parlare per i prossimi decenni, e per lei sola questo film meriterebbe di essere rivisto. 

venerdì 1 novembre 2013

Zoran, il mio nipote scemo

"Zoran, il mio nipote scemo" di Matteo Oleotto. Con Giuseppe Battiston, Teco Celio, Rok Presnicar, Marjuta Slamic, Roberto Citran, Riccardo Maranzana, Jan Cvitokovic, Ariella Reggio. Italia, Slovenia 2013 ★★★★
Non potevo che celebrare a Udine la doverosa prima visione di questo film friulano come pochi altri, anche in onore del suo protagonista principale, che in città è nato, un Giuseppe Battiston ben più oversized di quanto sia in realtà (e non è un fuscello), vero mattatore della pellicola anche se non prevarica mai gli altri interpreti, anzi: per contrasto li esalta. Qui è Paolo Bressan, un burbero quarantenne senza arte né parte, attaccabrighe e dedito alla menzogna, che conduce un'esistenza sostanzialmente alcolica in un micropaese in provincia di Gorizia, a ridosso del confine sloveno (siamo dalle parti di Doberdò del Lago e delle Valli del Natisone, che mi sono assai familiari), lavorando svogliatamente alla mensa di un ospizio per anziani e trascorrendo il resto della giornata sbevazzando e facendo il gradasso all'osteria di Gustino (un Teco Celio perfetto) e facendo stalking ai danni della ex moglie Stefania, ora sposata con Alfio, un brav'uomo che lo aiuta e gli è addirittura amico (Roberto Citran). La sua vita cambia quando, alla morte di Anijeta, una zia che viveva al di là del confine, gli viene temporaneamente affidato suo malgrado Zoran, in attesa degli adempimenti burocratici per essere accolto in una casa-famiglia. Sedicenne timidissimo e impacciato che si nasconde dietro a delle lenti sproporzionate e si esprime in un italiano aulico, si rivela un vero asso delle freccette, capacità che lo zio sfrutta per vincere una serie di gare locali con in palio salami, formaggi e bottiglie, fino a intravedere la possibilità di conquistare il titolo mondiale ai campionati che si svolgono a Glasgow e intascare 50 mila sterline con cui "svoltare" e fuggire finalmente dal "buco" in cui vive, per cui si scopre improvvisamente affezionato al nipote, di cui diviene allenatore e manager. In realtà rimane il cinico cialtrone di sempre, anche se i compaesani e l'ex moglie stessa lo vedono cambiato in meglio, tanto da farlo convincere della possibilità di un ritorno di Stefania all'ovile. Resosi conto del malinteso, e reduce da una sbronza epica quanto solitaria, comincerà a fare i conti con sé stesso e a relazionarsi per davvero anche col nipote che è tutt'altro che scemo, ma soprattutto affezionato allo zio Bressan. Una pellicola molto gradevole, applaudita all'ultimo Festival di Venezia e vincitrice del pubblico della "Settimana della critica", ben girata e recitata, ambientata in un contesto per nulla conosciuto se non da chi vive da queste parti o vi è originario: ironica, garbata nonostante l'aura paesana, con una punta asprigna e ruvida come la gente e i paesaggi di qua, insomma il bouquet del teràn, il rosso tipico del Carso.