"La gabbia dorata" (La jaula de oro) di Diego Quemada-Díez. Con Brandon Lopez, Rodolfo Dominguez, Karen Martinez, Carlos Chajon, Ramón Medína e altri. Messico 2013 ★★★★½
Eccellente esordio alla regia dello spagnolo Diego Quemada-Díez, già collaboratore, non a caso, di Ken Loach, Spike Lee, Oliver Stone, Meirelles e Gionzález-Iñarritu, che per raccontare la piccola grande epopea migratoria di tre ragazzini dal Guatemala agli USA attraversando tutto il Messico (dove il regista risiede), ha impiegato dieci anni, di cui la metà dedicati a interviste e a percorrere lui stesso per tre volte il tragitto, via treno, compiuto abitualmente dai migranti centroamericani. Un'opera viva, dunque, che trae spunto da diverse storie vere raccolte di persona e che racconta la vicenda di Juan, Sara e Samuel che, partendo da una vila miseria guatemalteca ai margini di una discarica abusiva, vogliono raggiungere gli USA, superando due confini. Acciuffati dalla polizia messicana, derubati e rispediti indietro al primo tentativo, ci riprovano con maggiore successo al secondo, quando al gruppo si aggrega Chauk, un maya del Chiapas che non parla una parola di spagnolo, prima respinto da Juan (c'è sempre qualcuno più "negro", o "terrone", o "indio" di un altro) e poi accettato dopo avergli salvato la vita: da qui nasce un'intesa basata sulla solidarietà che non necessita di parole (quelle che invece Chauk e Sara provano a usare insieme per comprendersi anche verbalmente). Il quartetto man mano si assottiglia: Samuel deciderà di rimanere in Guatemala; il resto del terzetto verrà vessato, insieme ad altre decine di migranti, da una serie di sfruttatori che, come gabellieri medievali, li deruberanno o costringeranno a delle corvé lavorative per poter procedere, finché all'ennesimo posto di blocco (quando non è la polizia sono dei banditi, ma non cambia la sostanza) viene scoperto il sesso di Sara, nonostante la fasciatura del seno e il taglio dei capelli, e la ragazza rapita per essere avviata alla prostituzione; Chauk e Chauk riusciranno a raggiungere i tanto agognati USA, non senza essere stati usati per trasportare droga e venire abbandonati a sé stessi, oltre la vergognosa muraglia innalzata da Bush e soci, oltrepassata la quale, e in sua prossimità, è ammesso il "tiro libero" da parte della famigerata migra e il povero indio ci rimarrà secco al primo colpo. Juan sarà l'unico a raggiungere la meta, che si rivela fin da subito una "gabbia dorata": oltrepassato il muro il panorama cambia immediatamente, e da agreste che era diventa un deserto cementizio e industriale che si annuncia con ciminiere da cui escono miasmi non meno pestilenziali di quelli delle discariche del Guatemala. Un mondo che si rivela di plastica. Juan finisce pur sempre ad avere a che fare con la putrefazione i rifiuti, questa volta alimentari, in un macello industriale, ultimo degli addetti alle pulizie: una scena agghiacciante. Film che parla sostanzialmente di confini, non solo geografici ma anche mentali, entrambi di per sé insensati quanto difficili da superare; fedele alle vicende reali e che dà voce a un fenomeno mai abbastanza affrontato come quel delle migrazioni, sempre esistito ma oggetto, come tutto il resto, a una minuziosa opera di sfruttamento minuziosamente organizzata sotto ogni aspetto, secondo una logica "globalizzata"; visto dalla parte e con gli occhi dei più indifesi, e illusi. Da non perdere.
Eccellente esordio alla regia dello spagnolo Diego Quemada-Díez, già collaboratore, non a caso, di Ken Loach, Spike Lee, Oliver Stone, Meirelles e Gionzález-Iñarritu, che per raccontare la piccola grande epopea migratoria di tre ragazzini dal Guatemala agli USA attraversando tutto il Messico (dove il regista risiede), ha impiegato dieci anni, di cui la metà dedicati a interviste e a percorrere lui stesso per tre volte il tragitto, via treno, compiuto abitualmente dai migranti centroamericani. Un'opera viva, dunque, che trae spunto da diverse storie vere raccolte di persona e che racconta la vicenda di Juan, Sara e Samuel che, partendo da una vila miseria guatemalteca ai margini di una discarica abusiva, vogliono raggiungere gli USA, superando due confini. Acciuffati dalla polizia messicana, derubati e rispediti indietro al primo tentativo, ci riprovano con maggiore successo al secondo, quando al gruppo si aggrega Chauk, un maya del Chiapas che non parla una parola di spagnolo, prima respinto da Juan (c'è sempre qualcuno più "negro", o "terrone", o "indio" di un altro) e poi accettato dopo avergli salvato la vita: da qui nasce un'intesa basata sulla solidarietà che non necessita di parole (quelle che invece Chauk e Sara provano a usare insieme per comprendersi anche verbalmente). Il quartetto man mano si assottiglia: Samuel deciderà di rimanere in Guatemala; il resto del terzetto verrà vessato, insieme ad altre decine di migranti, da una serie di sfruttatori che, come gabellieri medievali, li deruberanno o costringeranno a delle corvé lavorative per poter procedere, finché all'ennesimo posto di blocco (quando non è la polizia sono dei banditi, ma non cambia la sostanza) viene scoperto il sesso di Sara, nonostante la fasciatura del seno e il taglio dei capelli, e la ragazza rapita per essere avviata alla prostituzione; Chauk e Chauk riusciranno a raggiungere i tanto agognati USA, non senza essere stati usati per trasportare droga e venire abbandonati a sé stessi, oltre la vergognosa muraglia innalzata da Bush e soci, oltrepassata la quale, e in sua prossimità, è ammesso il "tiro libero" da parte della famigerata migra e il povero indio ci rimarrà secco al primo colpo. Juan sarà l'unico a raggiungere la meta, che si rivela fin da subito una "gabbia dorata": oltrepassato il muro il panorama cambia immediatamente, e da agreste che era diventa un deserto cementizio e industriale che si annuncia con ciminiere da cui escono miasmi non meno pestilenziali di quelli delle discariche del Guatemala. Un mondo che si rivela di plastica. Juan finisce pur sempre ad avere a che fare con la putrefazione i rifiuti, questa volta alimentari, in un macello industriale, ultimo degli addetti alle pulizie: una scena agghiacciante. Film che parla sostanzialmente di confini, non solo geografici ma anche mentali, entrambi di per sé insensati quanto difficili da superare; fedele alle vicende reali e che dà voce a un fenomeno mai abbastanza affrontato come quel delle migrazioni, sempre esistito ma oggetto, come tutto il resto, a una minuziosa opera di sfruttamento minuziosamente organizzata sotto ogni aspetto, secondo una logica "globalizzata"; visto dalla parte e con gli occhi dei più indifesi, e illusi. Da non perdere.
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