"L'ultima ruota del carro" di Giovanni Veronesi. Con Elio Germano, Alessandra Mastronardi, Ricky Memphis, Virginia Raffaele, Ubaldo Pantani, Alessandro Haber, Massimo Wertmüller, Francesca D'Aloja, Dalila Di Lazzaro e altri. Italia 2013 ★★-
Ennesima dimostrazione che non bastano le buone intenzioni né un mattatore assoluto come Elio Germano per fare un buon film. La storia italiana degli ultimi cinquant'anni, più o meno, vista "dal basso", dalla parte dei più umili, se buona come idea, dà l'impressione di visto e rivisto in mille salse e, ancora una volta, sembra che ultimamente in Italia non si sia in grado di sfuggire allo schema del format televisivo: come serial di prima serata poteva anche funzionare, un decennio per puntata sulle reti nazionali e il successo era assicurato. Invece siamo alla solita pellicola romanocentrica, con i triti e ritriti luoghi comuni del caso: l'arroganza coniugata alla stupidità dello straricco; la furbizia dell'arrivista; la bontà della "brava gente", di cui è simbolo Ernesto, il protagonista, segnato fin dalla gioventù dalla "maledizione" del padre tappezziere, di cui è aiutante, che gli predice un avvenire da "ultima ruota del carro", per l'appunto. E' da un auto-carro da spedizioniere-traslocatore che il buon Ernesto, resosi indipendente, vede scorrere quattro decenni di storia italiana trovandosi, immancabilmente presente di persona e testimone, per quanto involontario, di tutte le svolte via via "epocali" nelle vicende del Paese: dal ritrovamento del cadavere di Moro in Via Caetani nel 1978 al "Mundial" del 1982, alle monetine gettate a Craxi davanti all'Hotel Raphaël in piena epoca tangentopolizia all'ascesa di Berlusconi nel 1994, alla crisi attuale; parallelamente scorre la sua vita privata, scandita dai passaggi comuni alla stragrande maggioranza dei baby boomers italiani: l'adolescenza tra il beatnik e il protestatario; il matrimonio; i figli; e poi i nipoti (la famigghia); le simpatie politiche a sinistra e il portafogli a destra; le amicizie di infanzia che segnano l'intera esistenza, accompagnandola; le disavventure sanitarie e l'eterna lotta contro la burocrazia, aggirabile con la "spintarella" e l'altrettanto eterna e celebrata arte di arrangiarsi; la fiducia, malriposta, nello "Stellone". Manca solo la mamma, stranamente: forse Veronesi e Chiti si sono dimenticati di specificare nella sceneggiatura che Ernesto ne era orfano, oppure il riferimento è saltato in fase di montaggio, perché altrimenti sarebbe davvero un caso unico nelle vicende di italiane. Se la ricostruzione d'epoca è efficace e il cast dignitoso (insieme a Germano spiccano la Raffaele e Haber, mentre Alessandra Mastronardi ha l'espressività di una scamorza), incredibile è la sciatteria del trucco: i personaggi invecchiati sembrano degli zombie usciti dai film di Romero, sebbene questo sia il Paese che ha dato i natali a Rambaldi e a costumisti, parrucchieri e truccatori d'eccezione. Alla fine film non pessimo, ma molto al di sotto delle ambizioni: in confronto il tanto disprezzato Anni Felici o anche Una piccola impresa meridionale sono autentici capolavori.
Ennesima dimostrazione che non bastano le buone intenzioni né un mattatore assoluto come Elio Germano per fare un buon film. La storia italiana degli ultimi cinquant'anni, più o meno, vista "dal basso", dalla parte dei più umili, se buona come idea, dà l'impressione di visto e rivisto in mille salse e, ancora una volta, sembra che ultimamente in Italia non si sia in grado di sfuggire allo schema del format televisivo: come serial di prima serata poteva anche funzionare, un decennio per puntata sulle reti nazionali e il successo era assicurato. Invece siamo alla solita pellicola romanocentrica, con i triti e ritriti luoghi comuni del caso: l'arroganza coniugata alla stupidità dello straricco; la furbizia dell'arrivista; la bontà della "brava gente", di cui è simbolo Ernesto, il protagonista, segnato fin dalla gioventù dalla "maledizione" del padre tappezziere, di cui è aiutante, che gli predice un avvenire da "ultima ruota del carro", per l'appunto. E' da un auto-carro da spedizioniere-traslocatore che il buon Ernesto, resosi indipendente, vede scorrere quattro decenni di storia italiana trovandosi, immancabilmente presente di persona e testimone, per quanto involontario, di tutte le svolte via via "epocali" nelle vicende del Paese: dal ritrovamento del cadavere di Moro in Via Caetani nel 1978 al "Mundial" del 1982, alle monetine gettate a Craxi davanti all'Hotel Raphaël in piena epoca tangentopolizia all'ascesa di Berlusconi nel 1994, alla crisi attuale; parallelamente scorre la sua vita privata, scandita dai passaggi comuni alla stragrande maggioranza dei baby boomers italiani: l'adolescenza tra il beatnik e il protestatario; il matrimonio; i figli; e poi i nipoti (la famigghia); le simpatie politiche a sinistra e il portafogli a destra; le amicizie di infanzia che segnano l'intera esistenza, accompagnandola; le disavventure sanitarie e l'eterna lotta contro la burocrazia, aggirabile con la "spintarella" e l'altrettanto eterna e celebrata arte di arrangiarsi; la fiducia, malriposta, nello "Stellone". Manca solo la mamma, stranamente: forse Veronesi e Chiti si sono dimenticati di specificare nella sceneggiatura che Ernesto ne era orfano, oppure il riferimento è saltato in fase di montaggio, perché altrimenti sarebbe davvero un caso unico nelle vicende di italiane. Se la ricostruzione d'epoca è efficace e il cast dignitoso (insieme a Germano spiccano la Raffaele e Haber, mentre Alessandra Mastronardi ha l'espressività di una scamorza), incredibile è la sciatteria del trucco: i personaggi invecchiati sembrano degli zombie usciti dai film di Romero, sebbene questo sia il Paese che ha dato i natali a Rambaldi e a costumisti, parrucchieri e truccatori d'eccezione. Alla fine film non pessimo, ma molto al di sotto delle ambizioni: in confronto il tanto disprezzato Anni Felici o anche Una piccola impresa meridionale sono autentici capolavori.
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