mercoledì 31 gennaio 2024

Il cielo brucia

"Il cielo brucia" (Roter Himmel) di Christian Petzold. Con Thomas Schubert, Paula Beer, Langstom Uibel, Enno Trebs, Matthias Brandt e altri. Germania 2023 ★★★★1/2

Sempre emotivamente coinvolgente, il cinema di Christian Petzold, che riporta a superficie sensazioni profonde toccando corde che hanno a che fare con il lato più autentico di noi, per quanto lo so voglia tenere nascosto: non si fa fatica a identificarsi con almeno uno dei personaggi dei suoi film e nelle situazioni in cui vengono a trovarsi nella vita quotidiana dove, per un motivo o per l'altro, compiono scelte decisive in base a eventi imprevedibili o a un qualcosa che incombe dall'esterno. In questo caso abbiamo due amici berlinesi, Leon (il viennese Thomas Schubert, bravissimo) e Felix (Uibel), che vanno a trascorrere alcuni giorni nella casa di vacanze della famiglia di quest'ultimo: Leon per finire di lavorare al suo secondo romanzo, Felix al portfolio da allestire per essere ammesso all'Accademia di belle arti; un edificio circondato mezzo da un bosco sulla costa del Mar Baltico, quasi al confine con la Polonia, e il programma è una sorta di villeggiatura operosa per entrambi. La prima sorpresa è che la loro auto va in panne e si blocca obbligandoli a raggiungerla a piedi, lungo un percorso disagevole, di cui solo Felix conosce le scorciatoie, e quando arrivano, trovano tracce evidenti della presenza di qualcun altro nell'alloggio, benché non ci sia nessuno: si tratta Nadja, un'amica della madre di Felix, che si è dimenticata di avvertirlo. Una presenza che restringe gli spazi vitali, già angusti, di cui si accorgeranno di notte per i movimenti e i gemiti provenienti dalla stanza accanto alla loro, quando la ragazza e il suo occasionale amico (Devid, un tipico Ossi, ovvero ex DDR, come si evince anche dal nome, opportunamente teutonizzato) si danno da fare. Il disagio in Leon cresce, assieme alla curiosità nei confronti dalla fantasmatica fanciulla, per cui prova un misto di avversione, gelosia e attrazione prima ancora di incontrarla di persona, mentre Felix si adegua, la prende alla leggera, fa conoscenza anche con Devid e ne finisce attratto, pensa più a rilassarsi, andare in spiaggia, occuparsi della cena, condividerla coi nuovi amici, mentre Leon si isola via via sempre si più, diventa scontroso, sgradevole. La motivazione apparente è l'impegno lavorativo, in realtà non fa nulla, cincischia, va in spiaggia, vi si addormenta vestito e non fa nemmeno un bagno, il tutto perché è in crisi e si avvita su sé stesso, refrattario a chi e a cosa lo circonda perché in fondo sa di avere scritto una merda e che Club Sandwich, il suo secondo lavoro, non funziona. A certificarlo sarà proprio Nadja, che man mano si "materializza" e la conosciamo meglio (la interpreta la splendida Paula Beer, già protagonista di Undine), a cui fa leggere il manoscritto, e il suo giudizio lo manda in crisi definitivamente, proprio alla vigilia della visita di Helmut, il suo editore, per una revisione del romanzo. E glielo conferma quest'ultimo, che trova molto più interessante il lavoro fotografico di Felix, fatto nei ritagli di tempo, seguendo un'idea, e parlare con Nadja della sua tesi di dottorato: Leon, finora, l'aveva ritenuta una semplice gelataia avventizia, stagionale in un albergo, mentre invece studia letteratura, e memorabile sarà la recitazione della Beer, ripetuta due volte, di Der Asra, una delle Historien di Heinrich Heine. Nel frattempo gli incendi boschivi nei dintorni si fanno incombenti, l'aria si arroventa, il cielo si arrosa e i passaggi del Canadair diventano sempre più frequenti, ma Leon pare non accorgersene, finché non lo toccherà una doppia tragedia che, forse, lo riporterà alla realtà e in contatto col prossimo, e troverà l'ispirazione per scrivere qualcosa di autentico e non in preda a solipsismo parossistico. Il tutto sulle note dell'ipnotica In My Mind dei Wallners, gruppo Indie/Pop viennese come l'attore protagonista. Nonostante l'atemporalità, un vago senso di straniamento e sfasamento che però invece di annoiare tiene viva l'attenzione, il film ha qualcosa di ipnotico che agisce sottotraccia, e funziona. Encomiabili gli interpreti, Beer e Schubert su tutti, d'altronde li aveva scelti Simone Bär, scomparsa un anno fa, che del casting dei film di Petzold si era occupata fin dal 2000 (e, tra gli altri, anche di quello Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino). Con Il cielo brucia Petzold ha conquistato l'Orso d'Argento, gran premio della giuria, all'ultima Berlinale; inizialmente pareva che fosse la seconda parte di una trilogia dedicata agli elementi: dopo l'acqua di Ondine, il fuoco. Congetture onanistiche del criticume prezzolato, che il regista ha ridicolizzato in un'intervista rilasciata quando questo suo ultimo lavoro era stato presentato al recente Torino Film Festival osservando che sulle spiagge baltiche del suo film, che evocano alcune altre di Rohmer o di Truffaut, oltre al fuoco troviamo già gli altri tre elementi, acqua-aria-terra (perché in tutto sono quattro e non tre), e così il cerchio risulta chiuso e potrà dedicarsi ad altro. Sicuramente la cosa giusta, conoscendolo. 

domenica 28 gennaio 2024

Il punto di rugiada

"Il punto di rugiada" di Marco Risi. Con Massimo De Francovich, Alessandro Fella, Eros Pagni, Luigi Diberti, Lucia Rossi, Roberto Gudese, Erika Blanc, Elena Cotta, Valerio Binasco, Ariella Reggio, Maurizio Micheli e altri. Italia 2023 ★★=

Mi dispiace proprio ma non ci siamo. Non metto in dubbio la sincerità delle intenzioni di Marco Risi, che probabilmente ha avuto in mente il rapporto avuto col suo celebre e forse ingombrante padre, di mettere a confronto due mondi diversi come quello appartenente a un passato ormai remoto e velato dalla fragile memoria degli ospiti di Villa Bianca, una casa di riposo di lusso, e due ragazzi poco più che ventenni, Carlo e Manuel, che vi si ritrovano a fare gli inservienti perché devono scontare rispettivamente un anno e un anno e mezzo ai servizi sociali. Il primo, un ragazzo ricco e viziato (Alessandro Fella: un brombolo del tutto inespressivo), condannato perché guidando ubriaco ha causato un incidente in cui è rimasta sfregiata la ex fidanzata, con cui non ha avuto più il coraggio di farsi vivo; l'altro, un simpatico "ganassa", è stato beccato con le mani nel sacco per spaccio: lo interpreta Roberto Gaudese, che a differenza del suo collega di stoffa ne ha un bel po', peccato che il suo personaggio abbia un ruolo del tutto secondario, e questo già è un difetto imperdonabile. Ci sono anche il direttore, che mal li sopporta, la bella e misteriosa infermiera Luisa (Lucia Rossi), e naturalmente gli ospiti (non bisogna chiamarli anziani: strano che la direzione non li onori del titolo di clienti, ché questo siamo ormai tutti, oltre che dei numeri), interpretati da vecchie glorie del cinema e del teatro nostrano, tra cui spiccano Eros Pagni (nei panni di un ex colonnello mai divenuto generale), Luigi Diberti (un poeta che non si ricorda quel che ha scritto) e il suo ex rivale in amore Dino, il più lucido di tutta la brigata, imopersonato da Massimo De Francovic: è lui che instaura un rapporto particolare con Carlo che col passare del tempo (il film si articola sulle quattro stagioni dell'anno, da estate a estate) diventa di confidenza e fiducia reciproca, e servirà, forse, a quest'ultimo, a guardarsi un minimo dentro e darsi una regolata. Non a caso Dino, un ex fotografo fissato coi leoni ma che non è mai stato in Africa (e che in qualche maniera, attraverso uno smartphone basico, mantiene in esercizio le sue attitudini professionali), porta il nome del padre del regista e ricorda fisicamente come anche nella dizione, ma soprattutto per il suo rapporto con la vecchiaia estrema, Mario Monicelli, che si era suicidato a 95 anni, nel 2015. Insomma il film si basa sul gioco degli opposti che in qualche modo si completano e si accettano, un po' per necessità e un po' per curiosità e umana simpatia (ne è sicuramente più dotato Manuel), si basa un una sceneggiatura flebile e al contempo grossolana, che da un lato indulge su luoghi comuni ritriti e dall'altro perde per strada i personaggi, non approfondendoli minimamente e limitandosi spesso a delle mere caricature; non bastano un paio di scene azzeccate (quella della nevicata, da cui il titolo, che è l'occasione per gli anziani di "trasgredire", per una volta, con la complicità dei due giovani inservienti) a salvare la baracca perché vengono più che compensate da altre francamente penose: ancora una volta mi chiedo se esista un film italiano degli ultimi 30 anni in cui ci venga risparmiata una scena di ballo, come se fosse l'attività precipua di un popolo di macachi tarantolati. Non bastasse, scene di incontinenza a parte, per la festa di Capodanno il film ci propina pure il trenino con tanto di lingue di suocera e cappellino di carta a cono, roba da cinepanettone che mi ha fatto sentire in imbarazzo per chi ha dovuto interpretare la scena e a fatica ho represso la tentazione di abbandonare la sala. Nonostante il tema (aleggia la morte, in arrivo per tutti, per alcuni prima e per altri poi) e l'ambientazione (tra l'altro falsa: perché dalla parlata prevalente Villa Bianca dovrebbe trovarsi in riva a un lago tra Brianza e Varesotto, mentre palesemente nessun lago lombardo vi assomigli neanche lontanamente, tant'è vero che il film ha avuto il contributo della Lazio Film Commission, e questa a un milanese come Risi non gliela perdono) e la si butti un po' in farsa, siamo lontani anni luce non solo dal celebre Cocoon, uno dei capostipiti del genere "ospizio", e da Amici miei - Atto 3°, l'ultimo della gloriosa trilogia, quello girato da Nanni Loy, ma perfino da Villa Arzilla, storica serie TV di oltre trent'anni fa che sicuramente era più ispirata di questo Punto di rugiada. Concludendo: luoghi comuni a profusione; uno degli interpreti principali improponibile; pare che nessuno degli autori abbia mai frequentato una casa di riposo, nemmeno una per ricchi, né abbia realmente avuto contatto con qualcuno che abbia meno di trent'anni; la sensazione di qualcosa senza capo né coda, palesemente posticcio. Marco Risi ha mestiere, una solida carriera alle spalle, alcuni film, specie di impegno civile e basati su fatti reali gli sono riusciti molto bene: non capisco perché si ostini con la commedia "fu" italiana, forse per confrontarsi col padre. Rassegnati, te set minga bun...

venerdì 26 gennaio 2024

The Holdovers - Lezioni di vita

"The Holdovers - Lezioni di vita" (The Holdovers) di Alexander Payne. Con Paul Giamatti, Dominic Sessa, Da'Vine Joy Randolph, Carrie Preston, Tate Donovan, Brady Hepner, Gillian Vigman, Michael Provost e altri. USA 2023 ★★1/2

Sì, va beh, però che palle... Non so quante volte il cinema USA ci ha riproposto, in salse e sotto angolature diverse, L'attimo fuggente: questa è l'ennesima occasione e, quando si parla di scuola e del rapporto tra insegnanti geniali ma strani e studenti alle prese con gli ormoni adolescenziali e con la propria situazione famigliare disastrata, sempre fra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta si va a parare, con la guerra del Vietnam sullo sfondo e la discesa sulla Luna nei paraggi (questa volta anche dal punto di vista stilistico: la fotografia è di grana grossa e il film sembra girato in pellicola e non in digitale). E, guarda caso, la vicenda si svolge in un un college o in una scuola superiore per ricchi. Come in The Holdovers, ossia "i rimanenti": un improbabile terzetto che, durante le vacanze di Natale, rimane confinato alla Barton Academy, blasonata scuola privata del New England, ovviamente, mica del South Dakota, che sforna diplomi per rampolli di famiglie danarose per avviarli alle università più prestigiose. Anche i più immeritevoli: basta che paghino. Come ogni anno tocca a Paul Hunham (Giamatti), professore di storia di civiltà antiche (leggi greca-latina), rimanere a guardia degli studenti che, per un motivo o per l'altro, non possono rientrare in famiglia per le ferie: inizialmente sono 5 studenti più la cuoca e un guardiano, poi dei ragazzi rimane il solo Angus Tully (Dominic Sessa, che pare il sosia di Steve Winwood da giovane), intelligente, ribelle, falso, in una parola problematico, "abbandonato" dalla madre che durante le festività natalizie ha preferito piantarlo in asso per trascorrere la luna di miele col nuovo marito miliardiario, difficile da contenere e che si sente in gabbia mentre, al contrario, l'insegnante, sostanzialmente una sorta di orso asociale, in gabbia ci si è messo da solo, rintanandosi nel collegio che aveva frequentato da ragazzo e costretto a subire le angherie e le opportunistiche pressioni di un suo ex studente, diventato preside, che considerava e ritiene tuttora un perfetto imbecille. Insomma l'incontro tra due disadattati, cui si aggiunge la terza, la corpulenta cuoca di colore Mary Lamb (Da'Vine Joy Randolph), che ha da poco perso il figlio, a sua volta ex studente del collegio, nel Sud Est Asiatico. Mentre la prima parte del film si svolge per così dire "in clausura", nell'ambito scolastico, la seconda, per motivi che non sto a rivelare, è "on the road", spingendosi fino a Boston, dove il rapporto tra Paul e Angus prende una svolta, perché l'insegnante scopre il motivo per cui l'allievo ha voluto andarci a tutti i costi e che è anche quello delle balle che è abituato a raccontare e della sua personalità contorta, ma "sveglia". Quando si scoprirà la trasgressione alle regole del convitto, e i genitori di Angus sono sul punto di ritirare il ragazzo dalla scuola per spedirlo all'accademia militare, perché si "raddrizzi" una volta per tutte, sarà Paul a prenderne le difese e a impedire che Angus venga quindi destinato alla carneficina che quel meraviglio Paese faro della civiltà stava perpetrando dall'altra parte del Mondo, assumendosi la responsabilità di tutte le trasgressioni che hanno avuto luogo nel suo periodo di "reggenza": verrà licenziato in tronco e forse sarà lui a prendere finalmente il volo verso un altrove meno claustrofobico. Insomma una pellicola edificante, con non poche battute godibili e situazioni divertenti, politicamente "scorretto" quel tanto che basta per renderlo digeribile (i personaggi bevono e fumano di tutto, ma non vengono approfonditi più di tanto mentre altri filoni della trama vengono abbandonati all'improvviso, per cui non si capisce perché siano stati iniziati), ma tremendamente "già visto": nonostante la bravura di Giamatti e Sessa, la sceneggiatura è tirata via così come viene, viene, col risultato che il film va bene per una visione in TV in una serata di stanca, ma spostarsi in sala apposta per vederlo sul grande schermo francamente è chiedere troppo.

martedì 23 gennaio 2024

Palazzina LAF

"Palazzina LAF" di Michele Riondino. Con Michele Riondino, Elio Germano, Vanessa Scalera, Gianni D'Addario, Domenico Fortunato, Michele Sinisi, Fulvio Pepe, Marina Limosani, Paolo Pierobon, Anna Ferruzzo e altri. Italia 2023 ★★★★1/2

Un fulminante e salutare cazzottone nello stomaco, ecco cos'è in sintesi Palazzina LAF, uscito inopinatamente (o meglio: proprio per questo) troppo presto dal circuito delle sale principali e recuperato per caso qualche giorno fa a San Daniele del Friuli. Considerata la riottosità con cui il cinema italiano affronta il tema del lavoro nella sua cruda realtà, a dispetto di quello d'impegno civile, da Rosi a Petri a Montaldo, che risale ormai a mezzo secolo fa (una rara eccezione, a mia memoria, era stato 7 minuti di Michele Placido uscito nel 2016), è già un miracolo che a Michele Riondino abbiano concesso di girare questo suo meritorio film d'esordio alla regìa, tratto dal libro Fumo sulla città di Alessandro Leogrande, che avrebbe dovuto esserne anche lo sceneggiatore se non fosse prematuramente scomparso, a soli 40 anni, nel frattempo. Era tarantino anche lui e, come Riondino, l'ILVA la conosceva bene per esperienza diretta, e così il regista non ha avuto problemi a indossare anche i panni, o meglio la tuta, di Caterino Lamanna, operaio "senza coscienza di classe" addetto ai pesanti lavori di manutenzione, un qualunquista che ce l'ha coi sindacati parolai e con chi, a suo dire, non ha voglia di lavorare. In realtà desidera condividere i "privilegi" di alcuni suoi colleghi superiori di rango, tanto che dopo essere stato ingaggiato come informatore sui "movimenti" e gli umori nella base da parte di Giancarlo Basile (il sempre efficacissimo Elio Germano), un viscido dirigente che si occupa delle "risorse umane" per il Gruppo Riva che da poco ha preso il controllo della colosso siderurgico (siamo nel 1997), e avere perfino ottenuto come prestigioso benefit una scassatissima auto aziendale, gli chiede di essere spostato, anzi "promosso", alla Palazzina LAF, a suo modo di vedere una sorte di paradiso per nullafacenti, in realtà un vero e proprio reparto punitivo dove venivano confinati i reprobi, soprattutto impiegati e tecnici qualificati, che non avevano accettato il demansionamento che aveva prospettato loro la nuova dirigenza, una "novazione contrattuale" che faceva pagare, come sempre, ai lavoratori i costi delle fantomatiche e mai avvenute "ristrutturazioni", sia in termini salariali sia di condizioni d'impiego, nonché alle casse dello Stato, attraverso sovvenzioni di vario genere oltre alla cassa integrazione (elargita, come se fosse una regalìa, in definitiva, con le tasse dei contribuenti, quindi ancora prevalentemente i lavoratori e pensionati dipendenti). Retribuiti per non fare niente, relegati in un reparto fantasma, in attesa del nulla; una sorta di manicomio, altro che "paradiso" per privilegiati, come riteneva Caterino Lamanna, che comunque teneva d'occhio l'attività del sindacalista che lo frequentava e ne riferiva al Basile. Pratiche simili per indurre i "rompiscatole" al silenzio e possibilmente a licenziarsi, erano utilizzate in altri grandi gruppi industriali, spesso foraggiati dallo Stato, specie quando versavano in cattive acque a causa di gestioni e scelte produttive demenziali, secondo il vecchio adagio caro al capitalismo: "provatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite"; nel caso dell'ILVA si giunse, nel 2006, alla condanna del suo presidente: il primo caso di mobbing, termine in uso da allora, che si sia concluso a sentenza. Nel film di Riondino ce n'è per tutti, perché il vergognoso Caso ILVA, che si trascina da decenni e ancora è in corso, è esemplare perché evidenzia la commistione di interessi, connivenze, silenzi, ignavia di tutte le parti in causa, compresa la "sinistra" che, in cambio di posti di lavoro (insalubre e a condizioni via vie peggiori), ha sacrificato non solo la sicurezza ma anche la salute degli operai e delle loro famiglie, specie quelle che sono andate ad abitare a Tamburi, a ridosso della fabbrica (come Caterino, che ha abbandonato la cadente masseria in cui viveva, dove gli animali morivano per gli effluvi provenienti dalla cokeria e dagli altiforni, in un'illusione di modernità e benessere, non rendendosi conto che le probabilità di avvelenarsi sarebbero aumentate ulteriormente). Palazzina LAF, pur aderendo alla realtà, non è una pellicola documentaristica: sviluppa una storia con dei personaggi esemplari che interagiscono rendendo plastiche situazioni che si creano negli ambienti di lavoro e, in particolare, in strutture complesse e di grandi dimensioni come la ILVA di Taranto, e tutti gli interpreti sono funzionali alla causa e scelti con cura esemplare: oltre ai due protagonisti principali, Fulvio Pepe nella parte del sindacalista Renato Morra, Vanessa Scalera, Gianni D'Addario, Domenico Fortunato, Michele Sinisi e Marina Limosani in quelle di alcuni "confinati"; Anna Ferruzzo in quella della sostituta PM; le musiche originali sono di Theo Terado (una garanzia) e la canzone finale di Diodato, originario della Città dei due mari pure lui. Da vedere e pubblicizzare. 

venerdì 19 gennaio 2024

Viaggio in Giappone

"Viaggio in Giappone" (Sidonie au Japon) di Élise Girad. Con Isabelle Huppert, Tsuyoshi Hirara, August Diehl e altri. Francia, Germania, Giappone, Svizzera 2023 ★★★+

Isabelle Huppert è una garanzia per qualsiasi film interpreti, a maggior ragione quando ne è la protagonista, come in questo caso, in cui i personaggi sono soltanto tre: Sidonie (lei), Kenzo (Tsuyoshi Hirara) e il fantasma del marito (August Diehl). La morte in un incidente automobilistico di quest'ultimo, mentre lei era rimasta illesa, ha lasciato un vuoto incolmabile in Sidonie, che vediamo aggirarsi per casa, col bagaglio già pronto, indecisa fino all'ultimo se partire o no per Osaka dove il suo editore giapponese l'ha invitata in occasione della riedizione del suo primo e fin qui unico romanzo, tant'è vero che arriverà in aeroporto convinta di aver perso il volo, ma il caso vuole che la partenza sia stata ritardata di tre ore. Ad attenderla, Kenzo in persona, che l'accompagnerà nelle varie tappe della presentazione del suo libro, agli incontri con la stampa, ma soprattutto sarà la sua guida attraverso le principali attrazioni del Paese che attraversano, in particolare templi e parchi, il tutto a inizio primavera, il periodo della spettacolare fioritura dei ciliegi. Racconto di un viaggio, dunque, in tutte le possibili accezioni del termine: in senso proprio e figurato, dunque anche all'interno di sé stessa, proprio grazie all'estraneità di un mondo che non conosce. Guida in questo caso sarà Kenzo: i loro colloqui, inizialmente ridotti all'essenziale e professionali, man mano, pur rimanendo molto formali, affrontano anche temi personali, e scoprirà che Kenzo ha avuto un rapporto rivelatosi inesistente con la moglie e soprattutto ha i suoi fantasmi, con cui dice di convivere (come tutti in Giappone), e che nel suo caso sono la famiglia d'origine, colpita dalla tragedia di Hiroshima: sarà lui a farle capire che per coesisterci, bisogna "lasciarli andare", e lo chiede anche Antoine, l'adorato marito scomparso, che le compare davanti, visibile ma inconsistente, stanco della "parte" che lei gli ha assegnato (mi ha ricordato il Vadinho di Dona Flor e i suoi due mariti). Quando Sidonie lo farà, si lascerà aperta la porta per eventuali nuove relazioni e, forse, le tornerà l'ispirazione per riprendere a scrivere. Insomma, vivere. Film dalla trama esilissima, quindi, un bozzetto più che una storia, trattata con pennellate lievi, un tocco di ironia, dialoghi essenziali (cosa rara nel cinema d'oltralpe, spesso compiaciutamente verboso),perlopiù in forma di brevi battute che, avvenendo in francese tra una nativa e un giapponese che, pur parlandolo bene, non si esprime a mitraglia, per questa caratteristica si godono ancora di più in lingua originale. Bella la fotografia e gradevoli i paesaggi e le ambientazioni, che ci fanno intuire qualcosa di un Paese che ci è lontano da tutti i punti di vista, si trascorre un'ora e mezza piacevole in compagnia di un'attrice straordinaria e di un coprotagonista anch'esso perfettamente in ruolo. 

domenica 14 gennaio 2024

Perfect Days

"Perfect Days" di Wim Wenders. Con Kôji Yakusho, Tokio Emoto, Arisa Nakano, Aoi Yamada, Arisa Nakano, Yumi Asô, Sayuri Ishikawa, Tomokazu Miura, Min Tanaka e altri. Giappone, Germania 2023 ★★★★★

Nato come un documentario appositamente commissionato a Wenders nell'ambito di The Tokio Toilets, progetto di riqualificazione urbana del municipio di Shibuya, uno dei 23 che formano l'area metropolitana della capitale nipponica, anche in virtù delle precedenti frequentazioni cinematografiche in Giappone del regista tedesco, durante la fase di lavorazione si è fortunatamente trasformato in un'opera autonoma e il risultato è stato, nelle sue mani, un Perfect Movie, parafrasando il titolo, che a sua volta rimanda a uno dei pezzi più famosi scritti e interpretati da Lou Reed. Un film memorabile, definitivo, che riesce a inchiodarti davanti allo schermo per due ore raccontando il susseguirsi sempre secondo lo stesso schema delle giornate di Hirayama, un uomo di mezza età che pulisce i cessi (d'autore, però) di Shibuya, e lo fa con la dedizione, la solerzia, la metodicità e, soprattutto l'amore che dedica a tutte le cose che fa nella sua apparentemente monotona esistenza: la cura delle piantine che "salva" dalla disattenzione dei giardinieri aspergendole quotidianamente, all'alba, di vapore acqueo; al tatami che ripone sempre nel medesimo modo e nello stesso angolo; la rasatura; il tragitto sempre uguale tra un gabinetto e l'altro; il panino per pranzo nel parco; la cena sempre nello stesso ristorantino che propone cibo da strada; lavacri personali dopo il lavoro al bagno pubblico, ché la sua modesta abitazione non me possiede uno; una volta a settimana la distrazione in un locale, gestito da Mama, dove gli avventori sono sulla sua stessa onda: analogici in un mondo ormai digitalizzato (e disumanizzato). Infatti durante i suoi spostamenti ascolta musica anni Settanta rigorosamente su musicassetta (la colonna sonora, in stile Wenders, spazia dagli Animals di The House of the Rising Sun, proposta anche in versione giapponese a Otis Redding, da Patti Smith ai Velvet Underground, dai Kinks a Van Morrison, da Nina Simone al già citato Lou Reed), scatta fotografie alle fronde degli alberi con una Olympus utilizzando rigorosamente pellicole in bianco e nero per afferrare il komorebi, espressione che in giapponese significa "il riflesso del sole tra le foglie degli alberi", e già questo è rivelatore di tutta una filosofia e di un'estetica, foto che poi seleziona e archivia scrupolosamente in cartelline ordinatissime. La sera, prima di dormire, legge libri (che vengono conservati come gioielli in una libreria essenziale): quelli che gli vediamo tra le mani sono di Faulkner, Patricia Highsmith ma anche uno di racconti brevi della sottovalutata autrice locale Aya Kōda. In tutto il film Hirayama pronuncerà al massimo in centinaio di parole, sempre con gentilezza e quando viene richiesto o ha qualcosa da dire; preferisce esprimersi con le azioni, anche quelle sempre precise, attente e adeguate alla situazione. Succede che interloquisca col suo giovane collega Takashi, con la ragazza di quest'ultimo Aya, con "Mama", soprattutto con Niko, la nipote adolescente, figlia della sorella, che non vedeva da quando era piccola e che si rifugia da lui durante una fuga da casa: con lei sarà più loquace, e molto misurato però puntuale quando la "riaffiderà" alla madre, così come quando parlerà con l'ex marito di Mama, che pensava fosse il suo nuovo compagno, in un'altra scena memorabile e di rara umanità. Nulla viene detto del passato di Hirayama: l'unica cosa certa è che la sua scelta di vita solitaria ed essenziale è stata voluta, convinta, anche se non sappiamo, perché in fondo non importa, quale ne sia stata la causa, e comunque ha a che fare con l'armonia, che è cosa diversa dalla felicità, e con l'accontentarsi di quello che si ha, ché a farlo accuratamente e con coscienza c'è sempre da riempire la giornata e concluderla serenamente e senza rimpianti, e nulla ha a che vedere con la rassegnazione e l'accettazione supina dello stato delle cose, anzi: piuttosto con la resistenza a un'esistenza "digitale", a tratti se non del tutto virtuale, dalla visione binaria e però a senso unico. Insomma un film che procura un senso di pace e serenità, profondamente umanista e da cui traspare il fondo buddhista dell'animo nipponico. Alla fotografia, eccellente, ci pensa Franz Lustig, che con Wenders aveva già lavorato in precedenza, e il formato scelto è 4:3, ideale per "inquadrare", seguendolo passo passo nel corso delle sue giornate, il protagonista, a cui dà corpo e anima e, soprattutto, uno sguardo che parla da solo il fenomenale Kôji Yakusho, giustamente premiato come miglior attore protagonista all'ultimo Festival di Cannes. Per la Palma d'Oro a Perfect Days gli è stato preferito Anatomia di una caduta, che è senz'altro un buon film, però qui si è a livelli di eccellenza: forse il motivo è che si entra nell'ambito della poesia pura, e non più in quello cinematgrafico e dello spettacolo tout court.

mercoledì 10 gennaio 2024

Saltburn

"Saltburn" di Emerald Fennel. Con Barry Keoghan, Jacob Elordi, Rosamund Pike, Richard  E. Grant, Alison Oliver, Archie Medekwe, Carey Mulligan, Sadie Soverall, Richie Cotterell, Millie Kent, Ewan Mitchell, Reece Shearsmith e altri. GB, USA 2023 ★★★+

Uscito in Gran Bretagna a fine estate e negli USA in novembre in seguito al successo ottenuto in patria, Saltburn (che è il nome della tenuta nobiliare che nella realtà si chiama Drayton House e si trova nel Northamptonshire, non molto distante da Cambridge) è stato distribuito in Italia direttamente su Amazon Prime, dove è uno dei film più visti. Film strano, a tratti disturbante, decisamente molto "british", racconta la storia di un'amicizia morbosa tra due ragazzi di estrazione sociale diversa che si trovano a studiare a Oxford, non tanto per il lato omosessuale da parte di Oliver, il personaggio principale, che si vergogna del proprio stato di medio-piccolo borghese tanto da farsi passare per figlio di un drogato e di un'alcolizzata che è capitato lì grazie a una borsa di studio, ma per la sua mefistofelica capacità di manipolazione: un tarlo che si insinuerà nella eccentrica e a tratti disfunzionale famiglia di Felix Catton, il ragazzo bello, nobile, ricco e volubile che ha preso di mira fin dal primo momento in cui lo ha incrociato facendo in modo di diventarne il "protetto". La prima parte, quindi, si svolge nelle stanze, nelle biblioteche, nelle aule e, soprattutto, nei pub della celebre città universitaria, che vede la nascita dell'inconsueta relazione tra i due, che più diversi non potrebbero essere, per poi spostarsi a Saltburn, nella sontuosa tenuta dei Catton, dove Felix invita Oliver a trascorrere l'estate e "sentirsi come a casa sua". Detto e fatto, perché coi suoi modi subdoli e suadenti, spinto da un odio/amore che è un propellente di una potenza inaudita, alla fine di una vicenda a suo modo lineare e credibile ovviamente solo nell'ambito della plausibilità creata dal portare all'estremo la stravaganza dei vari personaggi dell'entourage dei Catton, il caro Ollie finirà anni dopo, di ereditare la sontuosa magione. Il come, lo racconterà sul letto dove giace in coma farmacologico, a Espeth, la madre di Felix, prima di staccarle la spina. Sì, perché, dopo che in quell'estate ha seminato morte uccidendo (non scoperto) Felix, poi la sorella Venetia, infine facendo schiattare dal dolore perfino James, il padre di Felix, che lo aveva allontanato da Saltburn, individuando in lui la causa delle disgrazie piovute sulla famiglia dopo la sua apparizione, dietro nutrito compenso, lui aveva continuato la sua opera aggirando Espeth, che non ne aveva intuito la pericolosità, la quale gli aveva chiesto di assisterla e prendersi cura di Saltburn. E lui ha mantenuto la promessa, a modo suo. Film "gotico", se vogliamo, con aspetti grotteschi e uno sfondo di humour nero nonché qualche scena abbastanza disgustosa, deve molto del suo successo a come sono stati imbroccati gli interpreti principali, in particolare Barry Keoghan/Oliver, già repulsivo di suo con quell'aspetto da pitbull e quindi perfettamente in ruolo; così Rosamund Pike, sempre a suo agio nella parte di donne ambigue e inquietanti, e Richard E. Grant nei panni di James Catton, e Alison Oliver in quelli di Venetia, la sorella di Felix, a cui dà il volto, e poco altro, il bellone di turno, Jacob Elordi. Alla fine, un film che vale la pena vedere proprio per la prestazione degli attori oltre che per le ambientazioni, e che per alcuni aspetti mi ha ricordato il magnifico Parasite, peraltro anch'esso disponibile sulla stessa piattaforma. 

sabato 6 gennaio 2024

Ferrari

"Ferrari" di Michael Mann. Con Adam Driver, Penélope Cruz, Shailene Woodley, Patrick Dempsey, Gabriel Leone, Lino Musella, Jack O'Connell, Daniela Piperno, Sarah Gadon. Michele Savoia, Giuseppe Attanasio, Alessandro Cremona, Domenico Fortunato, Valentina Bellé, Andrea Dolente e altri. USA 2023 ★★★★-

Decisamente meglio di quel che mi aspettassi, questo Ferrari, che non è propriamente un film biografico sulla vita del Drake, ovvero Commendatore, la cui sceneggiatura è stata tratta da Troy Kennedy Martin a partire dalla ponderosa biografia di Brock Yates Enzo Ferrari: The Man and the Machine, ma si concentra soltanto sul 1957, anno di crisi, sia personale sia professionale, di rottura e di svolta, "horribilis" per definizione per il nostro eroe. Controprova, 130' filati via come l'olio, senza dare nemmeno una volta uno sguardo all'orologio. Vengono in mente le polemiche sorte a Venezia quando era stato presentato all'ultima edizione della Biennale Cinema, sul fatto che a interpretare ruoli italiani sia un attore straniero. Questione di lana caprina: dipende dal film e da chi lo dirige. Che in questo caso è Michael Mann, una garanzia. E mentre qui Alan Driver interpreta in maniera eccellente un Enzo Ferrari nel pieno della maturità, nel penoso House of Gucci di un ormai completamente decotto Ridley Scott fa (sempre decorosamente) la figura di un cretino, nei panni del "cornuto e mazziato". La questione semmai è un'altra: perché a nessun autore italiano è venuto in mente di  girare una pellicola su un personaggio così poderoso, un vero e proprio emblema del Paese, con i suoi pregi e difetti. Un anno decisivo, per Ferrari, il 1957, che segue quello della scomparsa dell'adorato figlio Dino dopo una lunga e grave malattia, che vede definitivamente andare a rotoli il rapporto matrimoniale con Laura Garello, sposata più di trent'anni prima, la quale scopre che dalla la relazione di Enzo con Lina Lardi era nato un altro figlio, Piero, che finché lei fosse vissuta non avrebbe potuto assumere anche il nome del padre: questa la condizione messa dalla donna per il rilascio di una procura che avrebbe consentito di salvare l'azienda, in grave crisi finanziaria. Il fatto è che, a differenza dei grandi costruttori avversari sulle piste, come già Alfa Romeo, e in quegli anni Jaguar e Ford (ma è anche il caso della Mercedes al giorno d'oggi), le corse servivano per far vendere le auto di serie, mentre alla Ferrari accadeva il contrario: la produzione di auto di serie (troppo poche, veri e propri gioielli artigianali) era in funzione del reparto corse, l'unica vera passione "fatale" del costruttore modenese, che un formidabile rivale, benché amico, lo aveva in casa, il concittadino Adolfo Orsi, proprietario della Maserati. Il 1957 vede il Drake destreggiarsi tra mille difficoltà, e il rilancio avverrà grazie alla Mille Miglia di quell'anno, quando gli riuscì di trionfare con Piero Taruffi, che non l'aveva mai vinta in tredici partecipazioni, a bordo della 315 S. Fu anche l'ultima edizione della mitica corsa su strada, funestata dalla tragedia di Guidizzolo, a pochi chilometri dal traguardo di Brescia: per lo scoppio di uno pneumatico la vettura guidata dallo spagnolo Alfonso de Portago prese il volo e finì sul pubblico assiepato ai bordi della strada, causando la morte di 9 spettatori oltre a quella del pilota e del copilota. Ferrari fu per l'ennesima volta tacciato di essere una sorta di Saturno che divora i sui figli (tanti suoi piloti hanno trovato la morte per una passionaccia che era stata anche la sua, ex pilota pure lui) ma fu in grado di salvarsi dall'accusa di aver fatto ripartire, dopo i controlli di prammatica, una vettura dagli pneumatici usurati; lo scoppio fu invece causato da un oggetto lungo il percorso. Il film è in grado di ricostruire in maniera credibile il modo di essere e ragionare e le contraddizioni concrete e umane di un personaggio avvolto dal mito ma pure molto discreto sulla sua vita privata, ed è anche molto italiano, o almeno lo sembra, per il fatto che è doppiato nella nostra lingua, perché non voglio immaginarne la resa in inglese. Per quanto l'ambientazione sia apprezzabile per essere una produzione USA, e a parte alcuni aspetti romanzati (soprattutto riguardo al rapporto con la moglie Laura, peraltro interpretata in maniera eccellente da Penélope Cruz, ma altrettanto efficace è la californiana Shailene Woodley nel ruolo di Lina Lardi), un paio di falsi storici saltano all'occhio: ai tempi le gare non venivano trasmesse in diretta TV, semmai alcuni brevi spezzoni, e meno che mai all'ora di pranzo; e Gianni Agnelli, con cui Enzo Ferrari avrebbe "trattato" per cedere alla FIAT il ramo produttivo dell’azienda e conservare per sé quello corse,  in quel periodo non rivestiva alcun ruolo dirigenziale nel gruppo torinese ed era invece in giro a cazzeggiare e fare il dandy tra piste di sci svizzere e l’entourage dei Kennedy negli USA, ma gli americani, così solerti fact checker nel giornalisimo, non lo sono mai stati nel cinema, abituati come sono ad adattare realtà a loro totalmente estranee ai loro schemi e abitudini mentali, per non parlare delle ricostruzioni storiche raffazzonate, non avendone una propria, di storia: ma c'è chi ha fatto ben peggio di Michael Mann. Insomma, alla fine un ottimo prodotto, ben confezionato, che non annoia e ci dà una prospettiva particolare dell'uomo Ferrari. 

lunedì 1 gennaio 2024

The Old Oak

"The Old Oak" di Ken Loach. Con Dave Turner, Ebla Mari, Claire Rodgerson, Trevor Fox, Chris McGlade, Col Tait, Jordan Louis, Andy Dawson, Debbie Honeywood, Chris Gotts e altri. GB, Francia 2023 ★★★★★

Il cinema della memoria di Ken Loach è una delle poche cose rimaste davvero di sinistra in Europa in un quadro intellettuale e politico di desolante povertà, asservimento, sindrome di Stoccolma nei confronti del mercato unico e globale che fa il paio col pensiero binario che genera l'assuefazione generale alla logica TINA: There Is No Alternative. A 87 anni The Old Oak, la "vecchia quercia" resiste indomita, così come resiste, in un degradato borgo già operaio nella Contea di Durham, Inghilterra Nord Orientale, appena sotto Newcastle, già fiorente zona di miniere, l'omonimo pub gestito con ostinazione e passione da TJ Ballantyne (Dave Turner, memorabile), l'unico luogo di ritrovo per quel che resta di una un tempo fiorente e combattiva comunità di minatori, ora pensionati o precarizzati, comunque sempre più immiseriti: ci manca solo il crollo del valore delle loro tipiche case operaie, comprate da speculatori che hanno solo in mente di tirarle giù per poi decuplicarne il valore costruendo zone residenziali. Chi può se ne va, chi resta se la prende, invariabilmente, con chi è messo peggio di lui ossia, come nella storia raccontata da Loach, un gruppo di siriani rifugiatisi in Gran Bretagna in seguito ai noti eventi bellici degli ultimi anni, e che vengono alloggiati nei miseri appartamenti rimasti sfitti. Tra essi Yara (interpretata dalla brava Ebla Mari, l'unica attrice professionista dell'intero cast), la quale fa da tramite e interprete, parlando un inglese pressoché perfetto perché aveva lavorato per anni con il personale britannico in un campo profughi, appassionata fotografia, a cui come prima cosa un giovane nullafacente e razzista (peraltro nemmeno inglese), danneggia quello che per la ragazza non è solo uno strumento di lavoro e documentazione ma un oggetto di grande valore affettivo: questo il primo impatto del gruppo di profughi con la nuova realtà. TJ, che assieme a Laura si occupa anche di volontariato (col welfare distrutto da Blair e i suoi successori dopo il primo scossone dato dalla Thatcher lo Stato è vieppiù assente e nemmeno la chiesa riesce più a fare molto e tutto viene lasciato all'iniziativa e all'impegno di singoli o gruppi di volonterosi), cerca di fare da cuscinetto fra le diverse istanze, nonché tra i propri interessi e la propria coscienza: nessuno meglio di lui conosce i discorsi "da bar" sempre più razzisti che prevalgono tra i suoi clienti di sempre, e va in crisi quando un gruppo di essi gli chiedono di riaprire la sala dietro al bancone, chiusa da anni e dove vengono conservati devotamente i cimeli delle lotte di un tempo (la gloriosa sconfitta dei minatori inglesi di ormai 40 anni fa) per tenere una riunione chiaramente diretta a combattere "l'invasione dei beduini", perché nel frattempo ha stretto un rapporto sempre più profondo di amicizia e collaborazione con Yara e con la sua famiglia e con tutto il nuovo "vicinato". Deciderà di sistemarla e riaprila, invece, per farne una sorta di mensa per tutti, indigeni come stranieri, perché la povertà colpisce chiunque, e in parte l'esperimento riesce, inizialmente con cadenza bisettimanale, con il contributo di esponenti di entrambe le comunità che, operando assieme e conoscendosi, finiscono col superare, come sempre accade quando le persone stanno assieme cooperando a uno scopo comune in quanto tali e non incasellate come stereotipi, finché i più idioti, rancorosi e vigliacchi non la metteranno fuori uso provocando un incidente. Ma TJ di cui nel corso del film e dalle confessioni che fa a Yara scopriremo anche altri lati della personalità e dei trascorsi, pur essendo un "perdente nato", bastonato nella vita e negli affetti anche per demeriti suoi, davanti all'ennesima sconfitta e pieno di rancore con parte della sua "affezionata clientela" riesce a trattenere la rabbia quando arriva la notizia dalla Siria del ritrovamento del cadavere del padre di Yara, che a suo tempo aveva detto che avrebbe preferito saperlo morto che prigioniero e in balia dei torturatori, ed è il momento in cui anche la comunità del paesino, tranne qualche irriducibile cretino, ritrova spontaneamente un moto di solidarietà sincera e la propria dignità. Perché quello che si dimentica sempre, è che il nemico vero sta in alto, non in basso, anche se è più facile crederlo perché più a portata di mano e più debole proprio perché bisognoso. E il potere, quello vero, lo sa benissimo ed è sempre pronto ad approfittare di questo meccanismo perverso e facile da mettere in moto. Divide et Impera, massima latina che vale dalla notte dei tempi, in quelli relativamente più recenti è stata applicata con il massimo dei risultati col minimo sforzo proprio dall'Impero Britannico, e gli effetti nefasti li stiamo vedendo all'opera tutt'ora, ultimo caso dalle parti di Gaza... Film come sempre esemplare e un doveroso e necessario calcione nello stomaco. Per ricordare com'è la realtà, "là fuori". Non in Medio Oriente: all'uscio di casa nostra, sul marciapiede di fronte, nella via a fianco di quella in cui abitiamo. Dunque lunga vita e grazie alla Vecchia Quercia e grazie ancora!