mercoledì 7 febbraio 2024

Upon Entry - L'arrivo

"Upon Entry - L'arrivo" (La llegada) di Alejandro Rojas (III) e Juan Sebastián Vásquez. Con Alberto Ammann, Bruna Cusí, Laura Gómez, Ben Temple, Nuris Blu, David Comrie, Colin Morgan (II), Gerard Orms e altri. Spagna 2022 ★★★★+

Dedicato ironicamente a Donald Trump per la sua fissazione di erigere un muro al confine tra USA e Messico per impedire l'entrata di immigrati illegali nel Paese (che senza di essi chiuderebbe bottega nell'arco di pochi mesi), in un'ora e un quarto questo film d'esordio alla regìa della coppia ispano-venezuelana Rojas-Vázquez illustra in maniera esemplare cosa sono gli Stati Uniti e cosa sta diventando anche l'Europa, che ne segue pedestremente il preclaro esempio, nei confronti di chi arriva da fuori. In questo caso una coppia ispano-venezuelana (come gli autori): Elena, ballerina catalana e Diego, urbanista nato a Caracas con passaporto spagnolo che, uniti un unione civile e avendo convissuto alcuni anni a Barcellona, intendono stabilirsi a Miami dopo che lei ha vinto la Green Card Lottery (una trovata che già definisce chi l'ha ideata). Durante uno scalo a Newark, nel New Jersey, vengono bloccati dagli agenti dell'immigrazione per un controllo, pur essendo in possesso di tutta la regolare documentazione richiesta, e fermati per ulteriori "approfondimenti". Inizia un calvario, perché vengono isolati, non viene inizialmente data loro alcuna spiegazione, perdono ovviamente il volo in coincidenza ma capiscono presto che non è il caso di protestare davanti all'atteggiamento arrogante dell'uomo in divisa che hanno davanti e dei suoi colleghi in borghese più alti in grado e addetti agli interrogatori. Viene loro impedito ogni contatto con l'esterno, fatti spegnere i cellulari, sequestrati notebook e tablet (richiesta anche la password per sbloccarli e accedervi), vengono isolati in uno stanzino e sottoposti a una vera e propria inquisizione, una sorta di tortura psicologica con sui si dedicano con evidente sadismo una funzionaria di origine ispanica (ancora più incarognita perché si ritiene al corrente di tutti i "trucchi" usati per ottenere l'agognato visto di ingresso e soggiorno nella "Terra delle opportunità") e il suo socio, interrogati separatamente e poi di nuovo assieme nel tentativo, riuscito, di seminare dubbi anche sul loro rapporto. Perché sanno già tutto, sono al corrente di dettagli della loro vita privata e famigliare, usano ogni appiglio per metterli in difficoltà: un'autentica tortura psicologica. Alla fine di questo incubo, li faranno entrare: Welcome in The United States. Ma a che prezzo? Una pellicola claustrofobica, girata in soli 17 giorni e con poche prove, di cui sono interpreti straordinari Alberto Ammann e Bruna Cusí, che meritano entrambi un encomio così come i due registi: la sceneggiatura si basa sul racconto di  fatti veri accaduti a conoscenti e amici degli autori, così come degli attori, e a loro stessi, e chiunque abbia avuto la sventura di mettere piede in quel Paese incivile, sa per esperienza cosa lo aspetta quando arriva al controllo passaporti anche da semplice turista, con regolare visto d'ingresso: personale che ti guarda con aria schifata e con disprezzo, comportamento tracotante e spesso insolente, cavillosità, supponenza, rischio concreto di perdere coincidenze, figurarsi cosa deve affrontare chi ha l'ardire ci volersi stabilire in uno schifo di Paese del genere. Personalmente non li capisco proprio questa smania di andarci a viver e tendo a non solidarizzare con chi si fa abbagliare dal "mito americano" che poi si traduce solo in una cosa: il dollaro. Io ci sono stato due volte, due stop-over prolungati diretto a Sud, l'ultima 20 anni fa, e ho giurato a me stesso di non rimetterci piede per nessun motivo, nemmeno per uno scalo intermedio. Spero soltanto che gli USA vadano a fondo, possibilmente senza tirarsi dietro anche noi. 

lunedì 5 febbraio 2024

Una isla


"Una isla" / Agrupación Señor Serrano. Regia e drammaturgia di Àlex Serrano e Pau Palacios; assistente Carlota Grau. Con Lia Coelho Vohlgemuth, Sara Montalvão, Bartosz Ostrowski, Carlota Grau; scenografia e costumi Xesca Salvà; disegno luci Cube.bz; musiche Nico Roig; coreografia Núria Guiu; creazione video olografico David Negrão; programmazione video David Muñiz. Produzione 
GREC Festival de Barcelona, Câmara Municipal de Setúbal, Rota Clandestina, Festival Internacional de Teatro de Expressão Iberica (FITEI), Centro Cultural CondeDuque, Laboratorio de las Artes de Valladolid (LAVA), CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia, Festival delle Colline Torinesi, Feikes Huis, SPRING Festival, Departament de Cultura de la Generalitat. Al Teatro Palamostre di Udine per CSS Teatro Contatto sabato 3 febbraio 2024

La prima sorpresa entrando in sala è il palcoscenico completamente deserto: Agrupación Señor Serrano sono vecchie conoscenze del CSS Teatro Contatto, che coproduce gli spettacoli del gruppo catalano, la sala è colma e il pubblico è abituato a vedere la scena occupata da video, modellini in scala, telecamere, membri del gruppo che si danno da fare con le varie apparecchiature elettroniche o semplicemente cazzeggiano in attesa di dare inizio alla performance. Invece, il vuoto: un fondale nero. Si rivelerà uno schermo, dopo che è entrata in azione Lia Coelho Vohlgemuth che, non cambiando mai espressione per tutta la durata della rappresentazione, si esibirà, instancabile, in esercizi ginnici che che si risolvono in un fluido stretching con movenze che ricordano lo yoga e il tai chi mentre sullo schermo si svolge la conversazione, per iscritto, fra la compagnia (Joel) e l'Intelligenza Artificiale (Aisha). Perché la Agrupación, come spiegherà dopo lo spettacolo Pau Palacios, storico sodale di Àlex Serrano, nell'intento di intraprendere strade diverse da quelle già percorse, ha voluto provare a interagire con essa per verificare se fosse possibile creare uno spettacolo assieme. Spettacolo che ruota, per l'appunto, sull'incontro tra realtà diverse: come si reagisce quando si entra in un territorio che non si conosce, un'isola, per esempio, in contatto con l'altro, completamene diverso da noi? Magari un gruppo coeso, e si è in minoranza? Fino a che punto si può arrivare nella ricerca di un terreno comune? Questo vale anche per l'interlocuzione con l'IA, che sarà pure il "raccoglitore" di tutta la conoscenza elaborata dall'uomo nel corso dei millenni, ma non ne ha l'esperienza sensoriale, che è fondamentale non solo per intendersi ma per lavorare a uno scopo "condiviso", per quanto la rappresentazione teatrale che di questa forma di “cooperazione” è il frutto, alla fine ne sia il risultato tangibile, lasciando ovviamente senza risposta tutte le domande che il pubblico, come gli autori, si pongono a proposito di questa "collaborazione". Quando sul palco si forma una bolla in cui si agitano, a ritmo completamente diverso dal suo, altri tre performer, la “ginnasta” apparsa per prima inizialmente vi gira attorno perplessa, poi decide di entrarvi ma i suoi movimenti risultano inevitabilmente fuori sincrono con quelli degli altri; quando alla fine a questo gruppo già eterogeneo si aggiunge  una moltitudine di colorati "fanatici" del rugby che circonda le due realtà già presenti sul palco, quindi con modalità e dinamiche proprie e completamente estrane, la confusione diventa totale e si dovrà trovare un sistema di convenienza nello stesso spazio in cui ora si trovano a coesistere tre mondi (o modi di essere) completamente differenti. Ci si riuscirà? Domanda senza risposta. 65 minuti tirati, ipnotici, che ti inchiodano sulla sedia e ti coinvolgono; cambiamenti improvvisi, ologrammi che compaiono, trasformano volti e li fanno diventare altro; spuntano immagini di isole tropicali (dove secondo l'IA potrebbe pure nevicare) ma anche di alcune opere d'arte significative; la musica, intesa soprattutto come ritmo, spesso forsennato, è sempre una componente fondamentale nelle sperimentazioni del gruppo teatrale catalano a rappresentare il quale, come accennato sopra, si è presentato dopo lo spettacolo (applaudito calorosamente ma che ha forse lasciato tra il sorpreso e il perplesso una parte del pubblico) Pau Palacios, che si è intrattenuto coi presenti per un'ora abbondante, con una disponibilità rara ed esprimendosi in un italiano esemplare. Hasta pronto!

sabato 3 febbraio 2024

Povere creature - Poor Things

"Povere creature - Poor Things" (Poor Things) di Yorgos Lanthimos. Con Emma Stone. Willem Dafoe, Mark Ruffalo, Ramy Youssef, Christopher Abbott, Hannah Schygulla, Jerrod Carmichael, Suzy Bemba, Margaret Qualley, Cathrin Hunter II, Damien Bonnard e altri. USA 2023 ★★★★★

Eh sì, qui siamo proprio a livelli altissimi, e per una volta il Leone d'Oro dell'ultima Biennale Cinema di Venezia è stato assegnato al film che lo meritava: Yorgos Lanthimos si conferma ancora una volta un regista geniale quanto fuori dagli schemi, che sa scegliersi gli interpreti più adatti per i suoi personaggi particolarmente ostici e a cui lascia, con tutta evidenza, lo spazio che serve loro per ritagliarseli addosso. E' il caso, innanzitutto, di una strepitosa Emma Stone (già sodale dell'autore greco ne La Favorita e qui anche nella veste di co-produttrice), che ritengo la più intelligente e talentuosa attrice della sua generazione, e poi di un grandioso Willem Defoe, la cui bravura conosciamo da decenni, alle prese con due versioni di Frankenstein: padre e figlia, con le relative "deformazioni", fisiche e mentali; ma anche Mark Ruffalo è all'altezza, nei panni di una sorta di gagà dell'Epoca Vittoriana. Siamo a cavallo tra XIX e XX Secolo a Londra e God(win) Baxter, scienziato positivista, chirurgo di perizia ineguagliabile, nonché eccentrico e anticonformista, si dedica alla sperimentazione più audace essendone lui stesso stato "vittima" da parte di suo padre, da cui ha ereditato mestiere, competenze, tare di ogni genere ma soprattutto la spregiudicatezza intellettuale. Il suo capolavoro è Bella, trovata cadavere dopo essersi suicidata gettandosi nel fiume da un ponte, e riportata in vita innestandole il cervello del feto, ancora vivente, che portava in grembo. Il risultato è l'organo di una bimba che si sta sviluppando nel corpo di una donna, senza subirne le limitazioni di ruolo: particolarmente "stringenti" ai tempi, ma che Lanthimos ci fa capire essere una costante nella storia dell'umanità, almeno quella "occidentale", fino ai nostri giorni compresi. Come la Stone sia capace di esprimerne corporalità disarticolata, senza filtri, infantile entusiasmo e amoralità, anche nelle movenze, è prodigioso, in questa fase di "formazione accelerata" da parte di Bella e di presa di coscienza del proprio corpo e delle sue pulsioni. Il suo è un percorso di graduale "crescita", che la porterà a sperimentare qualsiasi cosa senza filtri morali con una razionalità lucida e una logica impeccabile ereditate dagli insegnamenti di "God" che, considerandola del tutto umana e dotata di Libero Arbitrio, non le impedirà di "conoscere il mondo" e di cimentarvisi a sua volta e, benché a malincuore, le consentirà di prendere la sua strada. Perché Bella, pur promessa sposa a un fidanzato a cui vuole bene (Max, l'allievo prediletto e assistente di Godwin, a cui dà il volto Ramy Youssef) vuole provare a sua volta qualsiasi aspetto della vita "là fuori". Godwin la lascerà andare, a costo di lasciarla tra le braccia di una sorta di Dongiovanni da strapazzo (l'avvocato Duncan Wedderbrun), bellimbusto col quale attraverserà il Mediterraneo a bordo di una nave da crociera, conoscerà persone che le apriranno gli occhi, per esempio facendole conoscere la povertà e lo sfruttamento del prossimo (delizioso il Cameo della mitica Hanna Schygulla nei panni di una anziana e saggia crocierista che la introduce all filosofia). Vedrà Alessandria, Atene, Marsiglia, dove faranno sbarcare lei e Duncan perché lei ha donato tutti i suoi averi ai poveri mentre lui ha perso i suoi al gioco) e da lì andrà a Parigi, dove atterrerà in un bordello in cui eserciterà pure, in modo sperimentale e "illuminato", il mestiere della meretrice. Lì conoscerà Toinette, e con lei sia i piaceri dell'amore saffico sia il socialismo. Su invito di God(win), ormai malato terminale, e Max tornerà a Londra, riconciliandosi col suo mentore e decide di diventare anche lei medico. Mentre sta per sposarsi con Max, che la ama e l'accetta per quello che è, compresa una vita sessuale variata oltre che vivace, riappare anche il marito di quando era la donna suicidatasi per sfuggire proprio al matrimonio e a una gravidanza indesiderata, il generale Alfie Blessington, imbecille come soltanto un militare di carriera può essere, che per tenerla sotto controllo pretende di imporle la clitoridectomia, ma sarà il suo cervello a fare una brutta fine, scambiato con quello di una capra, così non potrà andare alla polizia per accusarla di averlo ferito. Quando God(win) morirà, sarà lei a sostituirlo, novella Dottoressa Frankenstein, e vivranno tutti felici e contenti, Bella, Max  e Toinette, nella magione dei Baxter. Fantasiosa l'ambientazione, un fumetto a colori elaborato come in un romanzo grafico (latro che Wes Anderson...), che riflette luoghi e situazioni visti con gli occhi di un bambino, mentre altre parti sono girate in un bianco e nero molto suggestivo; la fotografia, va da sé, è eccellente come in ogni lavoro di Lanthimos, e adeguata è la colonna sonora. Un gran bel film, femminista, libertario e liberatorio, e pure divertente: da non perdere. 

mercoledì 31 gennaio 2024

Il cielo brucia

"Il cielo brucia" (Roter Himmel) di Christian Petzold. Con Thomas Schubert, Paula Beer, Langstom Uibel, Enno Trebs, Matthias Brandt e altri. Germania 2023 ★★★★1/2

Sempre emotivamente coinvolgente, il cinema di Christian Petzold, che riporta a superficie sensazioni profonde toccando corde che hanno a che fare con il lato più autentico di noi, per quanto lo so voglia tenere nascosto: non si fa fatica a identificarsi con almeno uno dei personaggi dei suoi film e nelle situazioni in cui vengono a trovarsi nella vita quotidiana dove, per un motivo o per l'altro, compiono scelte decisive in base a eventi imprevedibili o a un qualcosa che incombe dall'esterno. In questo caso abbiamo due amici berlinesi, Leon (il viennese Thomas Schubert, bravissimo) e Felix (Uibel), che vanno a trascorrere alcuni giorni nella casa di vacanze della famiglia di quest'ultimo: Leon per finire di lavorare al suo secondo romanzo, Felix al portfolio da allestire per essere ammesso all'Accademia di belle arti; un edificio circondato mezzo da un bosco sulla costa del Mar Baltico, quasi al confine con la Polonia, e il programma è una sorta di villeggiatura operosa per entrambi. La prima sorpresa è che la loro auto va in panne e si blocca obbligandoli a raggiungerla a piedi, lungo un percorso disagevole, di cui solo Felix conosce le scorciatoie, e quando arrivano, trovano tracce evidenti della presenza di qualcun altro nell'alloggio, benché non ci sia nessuno: si tratta Nadja, un'amica della madre di Felix, che si è dimenticata di avvertirlo. Una presenza che restringe gli spazi vitali, già angusti, di cui si accorgeranno di notte per i movimenti e i gemiti provenienti dalla stanza accanto alla loro, quando la ragazza e il suo occasionale amico (Devid, un tipico Ossi, ovvero ex DDR, come si evince anche dal nome, opportunamente teutonizzato) si danno da fare. Il disagio in Leon cresce, assieme alla curiosità nei confronti dalla fantasmatica fanciulla, per cui prova un misto di avversione, gelosia e attrazione prima ancora di incontrarla di persona, mentre Felix si adegua, la prende alla leggera, fa conoscenza anche con Devid e ne finisce attratto, pensa più a rilassarsi, andare in spiaggia, occuparsi della cena, condividerla coi nuovi amici, mentre Leon si isola via via sempre si più, diventa scontroso, sgradevole. La motivazione apparente è l'impegno lavorativo, in realtà non fa nulla, cincischia, va in spiaggia, vi si addormenta vestito e non fa nemmeno un bagno, il tutto perché è in crisi e si avvita su sé stesso, refrattario a chi e a cosa lo circonda perché in fondo sa di avere scritto una merda e che Club Sandwich, il suo secondo lavoro, non funziona. A certificarlo sarà proprio Nadja, che man mano si "materializza" e la conosciamo meglio (la interpreta la splendida Paula Beer, già protagonista di Undine), a cui fa leggere il manoscritto, e il suo giudizio lo manda in crisi definitivamente, proprio alla vigilia della visita di Helmut, il suo editore, per una revisione del romanzo. E glielo conferma quest'ultimo, che trova molto più interessante il lavoro fotografico di Felix, fatto nei ritagli di tempo, seguendo un'idea, e parlare con Nadja della sua tesi di dottorato: Leon, finora, l'aveva ritenuta una semplice gelataia avventizia, stagionale in un albergo, mentre invece studia letteratura, e memorabile sarà la recitazione della Beer, ripetuta due volte, di Der Asra, una delle Historien di Heinrich Heine. Nel frattempo gli incendi boschivi nei dintorni si fanno incombenti, l'aria si arroventa, il cielo si arrosa e i passaggi del Canadair diventano sempre più frequenti, ma Leon pare non accorgersene, finché non lo toccherà una doppia tragedia che, forse, lo riporterà alla realtà e in contatto col prossimo, e troverà l'ispirazione per scrivere qualcosa di autentico e non in preda a solipsismo parossistico. Il tutto sulle note dell'ipnotica In My Mind dei Wallners, gruppo Indie/Pop viennese come l'attore protagonista. Nonostante l'atemporalità, un vago senso di straniamento e sfasamento che però invece di annoiare tiene viva l'attenzione, il film ha qualcosa di ipnotico che agisce sottotraccia, e funziona. Encomiabili gli interpreti, Beer e Schubert su tutti, d'altronde li aveva scelti Simone Bär, scomparsa un anno fa, che del casting dei film di Petzold si era occupata fin dal 2000 (e, tra gli altri, anche di quello Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino). Con Il cielo brucia Petzold ha conquistato l'Orso d'Argento, gran premio della giuria, all'ultima Berlinale; inizialmente pareva che fosse la seconda parte di una trilogia dedicata agli elementi: dopo l'acqua di Ondine, il fuoco. Congetture onanistiche del criticume prezzolato, che il regista ha ridicolizzato in un'intervista rilasciata quando questo suo ultimo lavoro era stato presentato al recente Torino Film Festival osservando che sulle spiagge baltiche del suo film, che evocano alcune altre di Rohmer o di Truffaut, oltre al fuoco troviamo già gli altri tre elementi, acqua-aria-terra (perché in tutto sono quattro e non tre), e così il cerchio risulta chiuso e potrà dedicarsi ad altro. Sicuramente la cosa giusta, conoscendolo. 

domenica 28 gennaio 2024

Il punto di rugiada

"Il punto di rugiada" di Marco Risi. Con Massimo De Francovich, Alessandro Fella, Eros Pagni, Luigi Diberti, Lucia Rossi, Roberto Gudese, Erika Blanc, Elena Cotta, Valerio Binasco, Ariella Reggio, Maurizio Micheli e altri. Italia 2023 ★★=

Mi dispiace proprio ma non ci siamo. Non metto in dubbio la sincerità delle intenzioni di Marco Risi, che probabilmente ha avuto in mente il rapporto avuto col suo celebre e forse ingombrante padre, di mettere a confronto due mondi diversi come quello appartenente a un passato ormai remoto e velato dalla fragile memoria degli ospiti di Villa Bianca, una casa di riposo di lusso, e due ragazzi poco più che ventenni, Carlo e Manuel, che vi si ritrovano a fare gli inservienti perché devono scontare rispettivamente un anno e un anno e mezzo ai servizi sociali. Il primo, un ragazzo ricco e viziato (Alessandro Fella: un brombolo del tutto inespressivo), condannato perché guidando ubriaco ha causato un incidente in cui è rimasta sfregiata la ex fidanzata, con cui non ha avuto più il coraggio di farsi vivo; l'altro, un simpatico "ganassa", è stato beccato con le mani nel sacco per spaccio: lo interpreta Roberto Gaudese, che a differenza del suo collega di stoffa ne ha un bel po', peccato che il suo personaggio abbia un ruolo del tutto secondario, e questo già è un difetto imperdonabile. Ci sono anche il direttore, che mal li sopporta, la bella e misteriosa infermiera Luisa (Lucia Rossi), e naturalmente gli ospiti (non bisogna chiamarli anziani: strano che la direzione non li onori del titolo di clienti, ché questo siamo ormai tutti, oltre che dei numeri), interpretati da vecchie glorie del cinema e del teatro nostrano, tra cui spiccano Eros Pagni (nei panni di un ex colonnello mai divenuto generale), Luigi Diberti (un poeta che non si ricorda quel che ha scritto) e il suo ex rivale in amore Dino, il più lucido di tutta la brigata, imopersonato da Massimo De Francovic: è lui che instaura un rapporto particolare con Carlo che col passare del tempo (il film si articola sulle quattro stagioni dell'anno, da estate a estate) diventa di confidenza e fiducia reciproca, e servirà, forse, a quest'ultimo, a guardarsi un minimo dentro e darsi una regolata. Non a caso Dino, un ex fotografo fissato coi leoni ma che non è mai stato in Africa (e che in qualche maniera, attraverso uno smartphone basico, mantiene in esercizio le sue attitudini professionali), porta il nome del padre del regista e ricorda fisicamente come anche nella dizione, ma soprattutto per il suo rapporto con la vecchiaia estrema, Mario Monicelli, che si era suicidato a 95 anni, nel 2015. Insomma il film si basa sul gioco degli opposti che in qualche modo si completano e si accettano, un po' per necessità e un po' per curiosità e umana simpatia (ne è sicuramente più dotato Manuel), si basa un una sceneggiatura flebile e al contempo grossolana, che da un lato indulge su luoghi comuni ritriti e dall'altro perde per strada i personaggi, non approfondendoli minimamente e limitandosi spesso a delle mere caricature; non bastano un paio di scene azzeccate (quella della nevicata, da cui il titolo, che è l'occasione per gli anziani di "trasgredire", per una volta, con la complicità dei due giovani inservienti) a salvare la baracca perché vengono più che compensate da altre francamente penose: ancora una volta mi chiedo se esista un film italiano degli ultimi 30 anni in cui ci venga risparmiata una scena di ballo, come se fosse l'attività precipua di un popolo di macachi tarantolati. Non bastasse, scene di incontinenza a parte, per la festa di Capodanno il film ci propina pure il trenino con tanto di lingue di suocera e cappellino di carta a cono, roba da cinepanettone che mi ha fatto sentire in imbarazzo per chi ha dovuto interpretare la scena e a fatica ho represso la tentazione di abbandonare la sala. Nonostante il tema (aleggia la morte, in arrivo per tutti, per alcuni prima e per altri poi) e l'ambientazione (tra l'altro falsa: perché dalla parlata prevalente Villa Bianca dovrebbe trovarsi in riva a un lago tra Brianza e Varesotto, mentre palesemente nessun lago lombardo vi assomigli neanche lontanamente, tant'è vero che il film ha avuto il contributo della Lazio Film Commission, e questa a un milanese come Risi non gliela perdono) e la si butti un po' in farsa, siamo lontani anni luce non solo dal celebre Cocoon, uno dei capostipiti del genere "ospizio", e da Amici miei - Atto 3°, l'ultimo della gloriosa trilogia, quello girato da Nanni Loy, ma perfino da Villa Arzilla, storica serie TV di oltre trent'anni fa che sicuramente era più ispirata di questo Punto di rugiada. Concludendo: luoghi comuni a profusione; uno degli interpreti principali improponibile; pare che nessuno degli autori abbia mai frequentato una casa di riposo, nemmeno una per ricchi, né abbia realmente avuto contatto con qualcuno che abbia meno di trent'anni; la sensazione di qualcosa senza capo né coda, palesemente posticcio. Marco Risi ha mestiere, una solida carriera alle spalle, alcuni film, specie di impegno civile e basati su fatti reali gli sono riusciti molto bene: non capisco perché si ostini con la commedia "fu" italiana, forse per confrontarsi col padre. Rassegnati, te set minga bun...

venerdì 26 gennaio 2024

The Holdovers - Lezioni di vita

"The Holdovers - Lezioni di vita" (The Holdovers) di Alexander Payne. Con Paul Giamatti, Dominic Sessa, Da'Vine Joy Randolph, Carrie Preston, Tate Donovan, Brady Hepner, Gillian Vigman, Michael Provost e altri. USA 2023 ★★1/2

Sì, va beh, però che palle... Non so quante volte il cinema USA ci ha riproposto, in salse e sotto angolature diverse, L'attimo fuggente: questa è l'ennesima occasione e, quando si parla di scuola e del rapporto tra insegnanti geniali ma strani e studenti alle prese con gli ormoni adolescenziali e con la propria situazione famigliare disastrata, sempre fra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta si va a parare, con la guerra del Vietnam sullo sfondo e la discesa sulla Luna nei paraggi (questa volta anche dal punto di vista stilistico: la fotografia è di grana grossa e il film sembra girato in pellicola e non in digitale). E, guarda caso, la vicenda si svolge in un un college o in una scuola superiore per ricchi. Come in The Holdovers, ossia "i rimanenti": un improbabile terzetto che, durante le vacanze di Natale, rimane confinato alla Barton Academy, blasonata scuola privata del New England, ovviamente, mica del South Dakota, che sforna diplomi per rampolli di famiglie danarose per avviarli alle università più prestigiose. Anche i più immeritevoli: basta che paghino. Come ogni anno tocca a Paul Hunham (Giamatti), professore di storia di civiltà antiche (leggi greca-latina), rimanere a guardia degli studenti che, per un motivo o per l'altro, non possono rientrare in famiglia per le ferie: inizialmente sono 5 studenti più la cuoca e un guardiano, poi dei ragazzi rimane il solo Angus Tully (Dominic Sessa, che pare il sosia di Steve Winwood da giovane), intelligente, ribelle, falso, in una parola problematico, "abbandonato" dalla madre che durante le festività natalizie ha preferito piantarlo in asso per trascorrere la luna di miele col nuovo marito miliardiario, difficile da contenere e che si sente in gabbia mentre, al contrario, l'insegnante, sostanzialmente una sorta di orso asociale, in gabbia ci si è messo da solo, rintanandosi nel collegio che aveva frequentato da ragazzo e costretto a subire le angherie e le opportunistiche pressioni di un suo ex studente, diventato preside, che considerava e ritiene tuttora un perfetto imbecille. Insomma l'incontro tra due disadattati, cui si aggiunge la terza, la corpulenta cuoca di colore Mary Lamb (Da'Vine Joy Randolph), che ha da poco perso il figlio, a sua volta ex studente del collegio, nel Sud Est Asiatico. Mentre la prima parte del film si svolge per così dire "in clausura", nell'ambito scolastico, la seconda, per motivi che non sto a rivelare, è "on the road", spingendosi fino a Boston, dove il rapporto tra Paul e Angus prende una svolta, perché l'insegnante scopre il motivo per cui l'allievo ha voluto andarci a tutti i costi e che è anche quello delle balle che è abituato a raccontare e della sua personalità contorta, ma "sveglia". Quando si scoprirà la trasgressione alle regole del convitto, e i genitori di Angus sono sul punto di ritirare il ragazzo dalla scuola per spedirlo all'accademia militare, perché si "raddrizzi" una volta per tutte, sarà Paul a prenderne le difese e a impedire che Angus venga quindi destinato alla carneficina che quel meraviglio Paese faro della civiltà stava perpetrando dall'altra parte del Mondo, assumendosi la responsabilità di tutte le trasgressioni che hanno avuto luogo nel suo periodo di "reggenza": verrà licenziato in tronco e forse sarà lui a prendere finalmente il volo verso un altrove meno claustrofobico. Insomma una pellicola edificante, con non poche battute godibili e situazioni divertenti, politicamente "scorretto" quel tanto che basta per renderlo digeribile (i personaggi bevono e fumano di tutto, ma non vengono approfonditi più di tanto mentre altri filoni della trama vengono abbandonati all'improvviso, per cui non si capisce perché siano stati iniziati), ma tremendamente "già visto": nonostante la bravura di Giamatti e Sessa, la sceneggiatura è tirata via così come viene, viene, col risultato che il film va bene per una visione in TV in una serata di stanca, ma spostarsi in sala apposta per vederlo sul grande schermo francamente è chiedere troppo.

martedì 23 gennaio 2024

Palazzina LAF

"Palazzina LAF" di Michele Riondino. Con Michele Riondino, Elio Germano, Vanessa Scalera, Gianni D'Addario, Domenico Fortunato, Michele Sinisi, Fulvio Pepe, Marina Limosani, Paolo Pierobon, Anna Ferruzzo e altri. Italia 2023 ★★★★1/2

Un fulminante e salutare cazzottone nello stomaco, ecco cos'è in sintesi Palazzina LAF, uscito inopinatamente (o meglio: proprio per questo) troppo presto dal circuito delle sale principali e recuperato per caso qualche giorno fa a San Daniele del Friuli. Considerata la riottosità con cui il cinema italiano affronta il tema del lavoro nella sua cruda realtà, a dispetto di quello d'impegno civile, da Rosi a Petri a Montaldo, che risale ormai a mezzo secolo fa (una rara eccezione, a mia memoria, era stato 7 minuti di Michele Placido uscito nel 2016), è già un miracolo che a Michele Riondino abbiano concesso di girare questo suo meritorio film d'esordio alla regìa, tratto dal libro Fumo sulla città di Alessandro Leogrande, che avrebbe dovuto esserne anche lo sceneggiatore se non fosse prematuramente scomparso, a soli 40 anni, nel frattempo. Era tarantino anche lui e, come Riondino, l'ILVA la conosceva bene per esperienza diretta, e così il regista non ha avuto problemi a indossare anche i panni, o meglio la tuta, di Caterino Lamanna, operaio "senza coscienza di classe" addetto ai pesanti lavori di manutenzione, un qualunquista che ce l'ha coi sindacati parolai e con chi, a suo dire, non ha voglia di lavorare. In realtà desidera condividere i "privilegi" di alcuni suoi colleghi superiori di rango, tanto che dopo essere stato ingaggiato come informatore sui "movimenti" e gli umori nella base da parte di Giancarlo Basile (il sempre efficacissimo Elio Germano), un viscido dirigente che si occupa delle "risorse umane" per il Gruppo Riva che da poco ha preso il controllo della colosso siderurgico (siamo nel 1997), e avere perfino ottenuto come prestigioso benefit una scassatissima auto aziendale, gli chiede di essere spostato, anzi "promosso", alla Palazzina LAF, a suo modo di vedere una sorte di paradiso per nullafacenti, in realtà un vero e proprio reparto punitivo dove venivano confinati i reprobi, soprattutto impiegati e tecnici qualificati, che non avevano accettato il demansionamento che aveva prospettato loro la nuova dirigenza, una "novazione contrattuale" che faceva pagare, come sempre, ai lavoratori i costi delle fantomatiche e mai avvenute "ristrutturazioni", sia in termini salariali sia di condizioni d'impiego, nonché alle casse dello Stato, attraverso sovvenzioni di vario genere oltre alla cassa integrazione (elargita, come se fosse una regalìa, in definitiva, con le tasse dei contribuenti, quindi ancora prevalentemente i lavoratori e pensionati dipendenti). Retribuiti per non fare niente, relegati in un reparto fantasma, in attesa del nulla; una sorta di manicomio, altro che "paradiso" per privilegiati, come riteneva Caterino Lamanna, che comunque teneva d'occhio l'attività del sindacalista che lo frequentava e ne riferiva al Basile. Pratiche simili per indurre i "rompiscatole" al silenzio e possibilmente a licenziarsi, erano utilizzate in altri grandi gruppi industriali, spesso foraggiati dallo Stato, specie quando versavano in cattive acque a causa di gestioni e scelte produttive demenziali, secondo il vecchio adagio caro al capitalismo: "provatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite"; nel caso dell'ILVA si giunse, nel 2006, alla condanna del suo presidente: il primo caso di mobbing, termine in uso da allora, che si sia concluso a sentenza. Nel film di Riondino ce n'è per tutti, perché il vergognoso Caso ILVA, che si trascina da decenni e ancora è in corso, è esemplare perché evidenzia la commistione di interessi, connivenze, silenzi, ignavia di tutte le parti in causa, compresa la "sinistra" che, in cambio di posti di lavoro (insalubre e a condizioni via vie peggiori), ha sacrificato non solo la sicurezza ma anche la salute degli operai e delle loro famiglie, specie quelle che sono andate ad abitare a Tamburi, a ridosso della fabbrica (come Caterino, che ha abbandonato la cadente masseria in cui viveva, dove gli animali morivano per gli effluvi provenienti dalla cokeria e dagli altiforni, in un'illusione di modernità e benessere, non rendendosi conto che le probabilità di avvelenarsi sarebbero aumentate ulteriormente). Palazzina LAF, pur aderendo alla realtà, non è una pellicola documentaristica: sviluppa una storia con dei personaggi esemplari che interagiscono rendendo plastiche situazioni che si creano negli ambienti di lavoro e, in particolare, in strutture complesse e di grandi dimensioni come la ILVA di Taranto, e tutti gli interpreti sono funzionali alla causa e scelti con cura esemplare: oltre ai due protagonisti principali, Fulvio Pepe nella parte del sindacalista Renato Morra, Vanessa Scalera, Gianni D'Addario, Domenico Fortunato, Michele Sinisi e Marina Limosani in quelle di alcuni "confinati"; Anna Ferruzzo in quella della sostituta PM; le musiche originali sono di Theo Terado (una garanzia) e la canzone finale di Diodato, originario della Città dei due mari pure lui. Da vedere e pubblicizzare.