lunedì 30 gennaio 2023

Io vivo altrove!

"Io vivo altrove!" di Giuseppe Battiston. Con Giuseppe Battiston, Rolando Ravello, Teco Celio, Diane Fleri, Ariella Reggio, Alfonso Santagata e altri. Italia, Slovenia 2023 ★★★=

Un altro attore, dopo Louis Garrel con l'ottimo L'innocente, che si cimenta dietro (oltre che davanti) alla macchina da presa, e questa volta si tratta dell'esordio come regista per Giuseppe Battiston, qui pure sceneggiatore, assieme a Marco Pettenello, oltre che interprete nonché produttore di un film meno riuscito di quello del collega francese ma comunque dignitoso. Liberamente tratto da Bouvard e Pécuchet, romanzo incompiuto di Gustave Flaubert, Io vivo altrove è sostanzialmente un inno all'amicizia tra due uomini di mezza età, gentili, ingenui e piuttosto imbranati, conosciutisi per caso a un raduno di fotoamatori, che in comune hanno il nome, Fausto, e il fatto di risultare un po' fuori dal mondo, uno un bibliotecario rimasto vedovo che vive di ricordi (Battiston), l'altro (Rolando Ravello) un perito elettronico che vive ancora con la madre (la grande Ida Marinelli, in alcuni camei preziosi) i quali, per via di un'improvvisa eredità del primo Fausto, il rustico con del terreno appartenuto alla nonna in quel di Valvana, immaginario paesino del Friuli profondo e sconosciuto ai più, lasciano Roma, dove abitano, per inventarsi una nuova esistenza, da autosufficienti. Nonostante l'entusiasmo da neofiti, nonché la presunzione e il velleitarismo tipici degli inurbati, convinti al massimo di poter imparare qualcosa da manuali per il fai-da-te quando non da quelli "motivazionali", si ritroveranno presto a fare i conti con la realtà: tra i burberi locali che, quando non li ignorano, li trattano da mona, quali in effetti sono, e il sistematico fallimento di tutte le loro iniziative più o meno imprenditoriali, comprese quelle per rendere vivibile e vagamente funzionale la casa in cui abitano. Ne succedono di tutti i colori ma i due non deflettono perché, in sostanza, come recita il titolo, i due Fausto, una "strana coppia" sui generis (e, per una volta, non sospetta di omofilia) "vivono altrove", in una dimensione diversa da quella quotidiana, dove tutto è possibile, anche dialogare con chi non c'è più, oppure, se si preferisce, vedere il bicchiere sempre mezzo pieno e un futuro possibile. Una fiaba, insomma, di tipo "morale", se vogliamo, ma non moralista, che racconta di come sia preferibile un'esistenza fuori dagli schemi pur di rendere sopportabile un'esistenza colpita da disgrazie (per il primo Fausto) o mai completamente sbocciata perché vissuta nell'ombra altrui: in sostanza, c'è salvezza nella fantasia o, detto altrimenti, nella capacità di sognare. Battiston nel suo Friuli si muove a proprio agio, giocando in casa, come già era successo a suo tempo con Zoran, di cui Io vivo altrove! ricorda diversi aspetti, e la fiaba ha una sua dolcezza malinconica, senza tempo e quel tanto stralunata da renderla gradevole: nonostante ciò mancano quel brio, quella spontaneità e, forse, quel po' di cattiveria (pur non essendo il film eccessivamente sdolcinato) per centrare il bersaglio. Sono certo che il buon Beppe possa fare di meglio e di più.

venerdì 27 gennaio 2023

L'innocente

"L'innocente" (L'innocent) di Louis Garrel. Con Louis Garrel, Noémie Merlant, Roschdy Zem, Anouk Grinberg, Jean-Claude Pautot, Manda Touret, Léa Wiazemsky, Jean-Claude Bolle-Reddat e altri. Francia 2022 ★★★★1/2

Un poliziesco senza poliziotti, com'era nelle intenzioni del poliedrico Loius Garrel, qui regista e sceneggiatore oltre che interprete, declinato nel genere della commedia, ispirata a quella italiana degli anni d'oro più che a quella francese, come da dichiarazioni dello stesso autore, romantica, inter-generazionale, mai zuccherosa, decisamente brillante e imprevedibile: i colpi di scena e i cambi di prospettiva, fino al capovolgimento dei ruoli, si susseguono a tamburo battente nei 99' minuti di questo film decisamente divertente. Non manca lo spunto autobiografico: la madre di Garrel, l'attrice Brigitte Sy, aveva per anni lavorato in un carcere così come quella di Abel (un oceanografo che opera nell'acquario dl Lione), Sylvie, una frizzante Anouk Grinberg, fa scuola di teatro in un carcere ed è la terza volta che si innamora e si sposa con un suo allievo, un galeotto già rapinatore. Abel, consapevole delle inclinazioni folli della madre, è poco convinto della bontà dell'idea della e diffida di Michel (Roschdy Zem), specie quando questi, rimesso in libertà vigilata, trova chissà come i finanziamenti necessari per aprire un negozio di fiori in pieno centro assieme a Sylvie e si mette a spiarlo, seguendone i movimenti assieme alla collega a sodale Clémence, una solare e spumeggiante Noémie Merlant già molto apprezzata ne La giovane in fiamme), la sua migliore amica nonché quella della moglie di cui è rimasto prematuramente vedovo. Quando, scoperto nei suoi maldestri pedinamenti, conosce meglio Michel e le sue intenzioni, nel tentativo di proteggere ulteriormente l'ignara Sylvie e di non rovinarle l'ennesimo sogno d'amore col ritorno in galera del recidivo, Abel decide con Cémence di dargli una mano il film, che già era sulla buona strada diventa esilarante. Non tanto e non solo per gli ulteriori sviluppi della vicenda, solo apparentemente intricata ma che segue un filo logico perfettamente lineare fin dall'inizio e, soprattutto, ha un suo perché, ma per l'assoluta bravura degli interpreti nella parte di chi deve recitare una parte: e a istruire Abel e Clémence, che devono inscenare una lite tra innamorati ad uso e consumo di uno ignaro spettatore, è Michel, l'ex allievo nonché marito di Sylvie, nella parte di insegnante e regista: siamo al meta-cinema o meta-teatro, e in un trionfo della mimica che vale più di mille parole. Ho detto fin troppo della trama, quindi non vado oltre per non rovinare la festa a chi seguirà il mio consiglio di non perdersi questa rara folata di aria fresca: una pellicola dove tutto quanto funziona a meraviglia, compresa una colonna sonora scelta con accuratezza, che cade a proposito. Bravi tutti.

martedì 24 gennaio 2023

Le vele scarlatte

"Le vele scarlatte" (L'Envol) di Pietro Marcello. Con Raphaël Thierry, Juliette Jouan, Noémie Lvovsky, Louis Garrel, Yolande Moreau, Ernst Umhauer, Natasha Wiese, François Negret e altri. Francia, Italia, Germania 2022 ★★★★★

Sempre di alto livello e originali, le escursioni dell'autore campano nel lungometraggio, il terzo in carriera dopo una serie di significativi documentari e lavori di altro genere, ma sempre di eccellente livello, a conferma delle qualità già dimostrate in Bella e perduta ma, soprattutto, nel più noto Martin Eden, apparso nel 2019. Con Le vele scarlatte, produzione franco-italo-tedesca di alta caratura, ripropone una convincente e suggestiva favola realistica, se questa definizione può inquadrare il film, capace di rendere l'idea di un'autentica libertà di scelta, che è soprattutto morale e interiore, collocandola in una situazione contingente particolare, la fine della Prima Guerra Mondiale, con il difficile rientro in una temporanea normalità dei reduci di quella folle carneficina che ha segnato la via del declino per un intero Continente, il nostro (di cui stiamo vivendo effetti che non saranno, temo, gli ultimi). Questo senza dogmatismi, dimostrazione di teoremi precostituiti, ma raccontando una storia attendibile inserendola in un contesto storico ben preciso e che si può visivamente "toccare con mano" (se mi si concede il paradosso) con l'utilizzo di riprese d'epoca rese particolarmente efficaci perché virate a colori e inserite nel contesto della pellicola. La storia racconta del ritorno nel suo villaggio normanno del soldato Raphaël, lo stesso nome dell'interprete, di cui ignoro se sia un attore professionista o meno, ma so che è bravissimo a rendere la figura di questo falegname dalle mani enormi e "vissute" ma d'oro che cerca di rientrare nella normalità della vita civile accettando con umiltà qualsiasi lavoro: non ritrova Marie, la donna amata morta in sua assenza, ma la figlia Juliette, una bimba sui cinque anni, tirata su da Adeline, titolare di una fattoria in decadenza dopo che il marito è sparito, e che ospita anche un fabbro immigrato dalle colonie: una specie di "corte dei miracoli", come la chiamano in paese, che cerca di tirare avanti modestamente ma con dignità, di cui entra a fare parte anche il reduce artigiano. Raphäel non capisce perché in paese tutti lo trattino con circospezione finché Adeline non gli spiega che Marie era stata violentata e non era voluta sopravvissuta al trauma, e l'uomo saprà regolarsi quando il responsabile gli chiederà aiuto. Gli anni passano e la bimba cresce in questo ambiente pieno di affetto e di libertà, a contatto con la natura e lontano dai pettegolezzi e dalle miserie paesane, fino a diventare una ragazza autonoma, intelligente, dotata di un poliedrico senso artistico ereditato dal padre, con il quale ha un rapporto bellissimo, intenso e per niente sdolcinato, fatto di poche parole e di vere attenzioni, mentre i coetanei quando non la evitano la prendono in giro attribuendole poteri stregoneschi perché frequenta una sorta di donna ninfa che vive nei boschi e prendono per pazza: sarà questa a fare la profezia cui dà un senso al titolo del film, dicendo alla fanciulla che, quando sul mare appariranno tre vele scarlatte, lei potrà prenderà il volo. Anche Juliette è interpretata da un'omonima del personaggio, una studentessa universitaria normanna, a tempo perso pianista e cantante anche nella realtà, che ha mandato al regista un provino per caso: una scelta felicissima da parte di Marcello, che da ancora più freschezza e autenticità alla vicenda, per che per quanto fiabesca possa essere racconta situazioni più che plausibili, anzi: vere, a cominciare dal mostrare come proprio nell'epoca tra le due guerre si siano fatti i primi decisivi passi avanti dell'emancipazione femminile nella coscienza sociale, anche a causa delle conseguenze del conflitto, che aveva portato le donne a prendere in mano la vita e le attività di tutti i giorni, nei campi come nelle botteghe o nelle officine; Juliette, in particolare, cresciuta in un ambiente modesto ma non gretto e malsano, diventa una donna consapevole e libera nelle sue scelte, anche quelle affettive. Una bella storia, dei bravissimi interpreti, un film girato con estrema cura, con delicatezza, direi con amore: e si nota. Davvero grazie a Pietro Marcello e a chi gli ha dato fiducia e la possibilità di realizzarlo: io sono uscito dalla sala di proiezione leggero e in pace col mondo.

giovedì 19 gennaio 2023

Grazie ragazzi

"Grazie ragazzi" di Riccardo Milani. Con Antonio Albanese, Fabrizio Bentivoglio, Sonia Bergamasco, Gerhard Coloneci, Giacomo Ferrara, Bogdan Ioardachiu, Andrea Lattanzi, Vinicio MarchioniGiorgio Montanini, Nicola Rignanese e altri. Italia 2022 ★★★1/2

Una commedia ben girata e ben interpretata, cui non nuoce il fatto di essere l'adattamento del francese Un Triomphe di Emmanuel Courcol del 2020, a sua vota ispirato a una storia vera, accaduta una quindicina di anni fa a un attore svedese in disgrazia, a cui era venuta l'idea di far recitare Aspettando Godot a un gruppo di carcerati, "perché nessuno meglio di chi sta dietro le sbarre sa cosa significhi aspettare". E' la stessa che viene ad Antonio Cerami (ma potrebbe anche chiamarsi Albanese come l'interprete, tanto sarebbe plausibile, conoscendo il personaggio), un attore che da tre anni non calca il palcoscenico e che sbarca il lunario doppiando film porno, il quale grazie al più fortunato (e anche stronzo) amico e collega con cui aveva iniziato la carriera, Michele (Fabrizio Bentivoglio), attualmente titolare di un piccolo e raffinato teatro a Roma, ha trovato un incarico precario presso il carcere di Velletri: una serie di lezioni di recitazione a cui partecipano soltanto 5 detenuti su alcune centinaia, un'iniziativa lanciata dal Ministero della Giustizia a cui la direttrice dell'istituto aderisce senza molta convinzione; meno ancora ne hanno i secondini, per i quali qualsiasi speranza di "redenzione" di quelli che rimangono comunque dei delinquenti è campata per aria. L'incontro col gruppo di galeotti però riempie d'entusiasmo Antonio, che si impunta di far mettere in scena alla sua estemporanea compagnia nientemeno che il capolavoro del teatro dell'assurdo di Samuel Becket, lo stesso che aveva decretato il successo suo e di Michele venticinque anni prima. Ci vorranno due mesi di prove, tra alti e bassi e mille peripezie, che non mancano di far cogliere alcune dinamiche tipiche della vita in galera, coronate da un successo inaspettato, tanto che la direttrice cambierà idea e il composito gruppo di attori, caratterizzato con grande capacità di immedesimazione dall'ottimo cast (lascia soltanto perplesso la dizione quasi robotica di Sonia Bergamasco, che pur essendo milanese, pare più slava di quella della Bobulova), andrà in tournée a rappresentare lo spettacolo prima nelle carceri di mezza Italia e infine proprio nel teatro-gioiellino di Michele, con tanto di presenza delle Alte Autorità: ci scapperà la sorpresa, il colpo di scena, per niente buonista e consolatoria, in linea con la scelta di Milani di girare sì una commedia, divertente ma al contempo profondamente umana e, direi, umanista, senza concedere nulla al piagnisteo e al moralismo ipocrita, e già solo per questo gli va reso merito. Un buon film, senza dubbio. 

domenica 15 gennaio 2023

Quando dio imparò a scrivere

"Quando Dio imparò a scrivere" (Los renglones torcidos de Diós) di Oriol Paulo. Con Bárbara Lennie, Eduard Fernández, Loreto Mauleón, Pablo Derqui, Samuel Soler, Javier Beltrán, David Selvas, Juan Crosas, Fede Aguado e altri. Spagna 2022 💩

Mi sono convinto di affrontare due ore e mezzo di questa pizza perché il regista, il catalano Oriol Paulo, è lo stesso di Contratiempo, del 2016, fruibile su Netflix, di cui Stefano Mordini aveva girato, e bene, la versione italiana, Il testimone invisibile, un noir piuttosto contorto ma ben risolto, cosa che non si può dire di quest'altro thriller psicologico, o forse sarebbe più preciso dire psicopatico, dato che si svolge all'interno di una prestigiosa clinica psichiatrica provata immersa nei Pirenei. Siamo nel 1979 ed è lì che si fa ricoverare, volontariamente e accompagnata dal suo medico curante, Alicia Gould de Almenara, una ricca ereditiera che per hobby è una detective privata di successo, incaricata di indagare sulla morte di un ragazzo avvenuta all'interno dell'istituto da parte del padre, che non crede alla versione ufficiale del suicidio, o almeno così asserisce durante il colloquio con il medico che l'accoglie per un primo colloquio, che le dà credito pur essendo stato messo in guardia dalla lettera di prescrizione che parlava di una donna estremamente intelligente e dotata, con una ottima formazione scientifica, costituzionalmente falsa, abilissima nel manipolare il prossimo, infine sospettata di aver tentato di avvelenare il marito. Cosa che alla fine si dimostrerà vera. Forse, perché il finale è sostanzialmente lasciato alla libera interpretazione dello spettatore, ammesso che, giunto stremato alla fine della storia, abbia la forza di cercare una spiegazione al guazzabuglio messo in piedi da una sceneggiatura senza capo né coda che mette, come si suol dire, troppa carne al fuoco. E' il classico ed abusato gioco di specchi, dove ciò che sembra non è mai vero del tutto e spesso perfino l'esatto contrario: l'unica cosa certa è che una morte sospetta, quella del ragazzo, è avvenuta, ma ce ne sono anche altre in ballo, compresa quella potenziale di Heliodoro, il marito di Alicia: sarà vera la versione della donna, che si dichiara vittima di una truffa da parte del coniuge che vuole farla passare per pazza per impossessarsi dei sui beni e fuggire con l'amante, tesi avvalorata da buona parte dei medici della struttura, oppure quella opposta del primario, convinto che la donna sia una potenziale omicida e comunque una pericolosa paranoica? Seguiamo così il crearsi di due fazioni nel corpo medico, pro e contro Alicia, e le avventure di quest'ultima, poco credibili peraltro, all'interno del manicomio (non pochi i velleitari richiami a un capolavoro come Qualcuno volò sul nido del cuculo, e per questo ancor più irritanti), alla ricerca dei responsabili della morte del ragazzo, il tutto incasinato, come se non bastasse l'assurdità del tutto, da un eccessivo e confusionario ricorso ai flash back: c'è sì un vago accenno alle condizioni dei manicomi di cinquant'anni fa e alle prime discussioni sul superamento dei tradizionali sistemi di trattamento (letti di contenimento, camice di forza, elettroshock e dosi massicce di psicofarmaci micidiali) e a una relativa "apertura", ma che lasciano il tempo che trovano. In più siamo in Spagna nel primo periodo del post franchismo, in un momento di ulteriore passaggio, ma anche in questo caso l'approfondimento è a zero, e poi, in fondo, si tratta pur sempre di una clinica di lusso dove agli ospiti dietro le cospicue rette versate dalle facoltose famiglie d'origine, è riservato un trattamento privilegiato rispetto ai manicomi pubblici. Insomma credibilità zero, confusione, interpretazioni che lasciano il tempo che trovano: non c'è quasi niente che si salvi e che comunque giustifichi 160' di girato: la metà sarebbero stati comunque troppi. Sconclusionato e deludente.

giovedì 12 gennaio 2023

Oggi le comiche


Dopo una campagna elettorale balneare oscena quanto truffaldina, tra gli starnazzamenti dell'attuale capo/a di governo e la riproposizione di una fantomatica Agenda Draghi nel penoso tentativo di contrastarla da parte del sedicente secondo e terzo polo (in realtà il sesto), ossia il PD e i suoi derivati (il duo Renzi&Calenda), ecco sulla scena del teatrino politico italiano il più appassionante degli avanspettacoli: il congresso pidiota. In un Paese vagamente serio un partito nelle condizioni di quello di Enrico Letta lo avrebbe già convocato il giorno dopo le elezioni e tenuto a stretto giro di posta o si sarebbe sciolto in seguito all'ennesima sconfitta elettorale che però questa volta, a differenza di quelle dei dieci anni precedenti, non ha consentito ai centrosinistrati di rimanere al governo, facendo affidamento sul ricorso a un nuovo miracoloso intervento dall'alto in nome di una qualche emergenza da affrontare con un governo, possibilmente "tecnico", di unita nazionale. E invece no: eccoli ad azzuffarsi sulle date delle cosiddette primarie, disquisire sulle interpretazioni dello statuto, sull'opportunità di "allargare la platea", già estesa ai non iscritti, basta che sgancino un paio di euro per poter votare, e consentire o meno la partecipazione on line. Di tutto si parla tranne che di idee (inesistenti), progetti, programmi. Come sempre, del resto. E poi i quattro autocandidati alla sua guida: espressione del nulla, se non del potere della cadrega, di cui tre, provenienti dalla stessa regione, l'Emilia Romagna, un tempo feudo del fu PCI. Il gran favorito è Stefano Bonaccini, già renziano e sponsor dell'autonomia più spinta in concorrenza coi leghisti, che ne è presidente, cui segue a ruota quella che ne è la vice, da lui scelta, Elly Schlein, la quale dovrebbe essere la sua principale avversaria e la cui grande novità consisterebbe nel non avere avuto la tessera del PD fino al momento di presentarsi come candidata alla segreteria, il che non le ha impedito di entrare in parlamento nelle sue liste. Nel momento in cui l'ha presa, ha votato a favore dell'ennesimo invio di armi all'Ucraina in barba alle posizioni pseudopacifiste nonché ecologiste sciorinate in precedenza: l'ennesimo caso di figurina, à la Suomahoro, messa lì per dare una riverniciatina alle insegne ormai scrostate della "ditta" e adeguarla alle esigenze di un "mercato più giovane e informato", coi risultati che sono sotto gli occhi. La terza concorrente di questa ridicola farsa è la piacentina Paola De Micheli, già ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti nel governo Conte II, quello detto giallorosa, celebre per le sue innumerevoli gaffe e per la dedizione alle Grandi Opere a cominciare dal TAV; quarto e buon ultimo, e anche l'unico ad avere un minimo di caratura e credibilità politica e quindi perdente in partenza, come del resto durante tutta la sua carriera, Gianni Cuperlo. Ho sempre tifato ardentemente perché il PD si dissolva definitivamente, perfino auspicato allo scopo la vittoria di Renzi, ma nemmeno lui è riuscito nell'intento. Su coraggio: vediamo all'opera quest'altra compagnia di giro e chissà che questa volta non sia quella buona e ce la facciano a sparire finalmente dalla circolazione.

lunedì 9 gennaio 2023

Godland - Nella terra di Dio

"Godland - Nella terra di Dio" (Vanskabte Land) di Hlynur Palmason. Con Elliott Crosset Hove, Ingvar Eggert Sigurosson, Victoria Carmen Sonne, Jacon Lohmann, Ida Mekkin Hlynsdóttir, Waage Sandø Hilmar Gudjónsson, Ingvar Pórdarson e altri. Danimarca, Islanda, Francia Svezia 2022 ★★1/2

Per quanto possa farmi egoisticamente piacere distinguermi dalle masse plaudenti, non è che goda a fare l'eterno bastian contrario, ma mi è difficile unirmi ai peana che hanno accolto questo terzo film di Hlynur Palmason, che ho affrontato senza alcuna prevenzione come testimonia il gradimento del precedente A White, White Day, rispetto al questo Godland mi pare meno riuscito, anche se i propositi del regista islandese erano probabilmente più ambizioni. Si tratta del viaggio immaginario di Lucas, un giovane prete luterano danese inviato nella seconda metà dell'Ottocento dai suoi superiori a documentare fotograficamente la "terra malformata", termine con cui veniva definita l'Islanda, questa la traduzione del titolo originale Vanskabte Land, che non viene reso dal più banale Godland adottato per la versione internazionale, nonché a costruire la chiesa, ma soprattutto, secondo l'intento dei suoi capi, di adattarsi alla popolazione locale, così diversa da quella "metropolitana". Cosa quest'ultima, premessa per una vera evangelizzazione, che per l'appunto Lucas non fa, anzi: tutto il contrario. Trascinato dalla sua ossessione documentaristica, sbarca in un luogo selvaggio e lontano dalla sua vera meta mettendo a rischio la vita dei suoi accompagnatori (il paziente interprete che invano prova a insegnargli l'idioma locale ci lascia le penne) che tratta né più né meno come degli sherpa a suo servizio, mettendosi, e non si capisce perché, da subito in contrasto con Ragnar, la guida (nonché proprietario dei cavalli con cui il convoglio viaggia portandosi appresso l'ingombrante bagaglio del prete) interpretato dal grande Ingvar Eggert Sigurosson, già protagonista di A White, White Day: un uomo duro ma schietto, che capisce il danese ma mette in chiaro che non è la sua lingua ma quella che viene parlata solo la domenica, nelle occasioni ufficiali. E', insomma, l'idioma della lontana madrepatria, che considera l'isola una colonia, senza nulla sapere delle condizioni di vita dell'esigua popolazione locale, peraltro non facili considerata la natura selvaggia che domina pressoché incontrastata e a cui tocca adeguarsi. Cosa che Lucas si incaponisce a non fare, precipitando in un vortice di egocentrismo velleitario che lo porta lontano dalla missione e dai suoi propositi anche solo teorici: benché Ragnar lo porti, più morto che vivo, alla destinazione finale, ricoverandolo nella magione di Carl, padre di due figlie, proprietario terriero dove verrà costruita la chiesa, e dove verrà amorevolmente curato e assistito, non gli sarà grato, si rifiuterà perfino di sposare una coppia regolare finché la chiesa non sarà completamente terminata, non proverà mai a parlare ma nemmeno a capire la lingua, in compenso comincerà una tresca con la maggiore delle figlie di Carl e affronterà definitivamente Ragnar, diventato per lui una vera e propria ossessione, infine scapperà vigliaccamente durante la celebrazione della messa d'inaugurazione. Finirà, giustamente, male per lui. Ora, dopo quasi due ore e mezzo di proiezione e di sottofondo musicale piuttosto angosciante, il pieno di immagini suggestive ma tutto sommato non così spettacolari come mi sarei aspettato, la domanda che mi sono posto assieme a chi era con me a vedere il film è stata: e con ciò? Dove ha voluto andare a parare il buon Palmason? Cos'è, un film sullo spirito colonialista della Danimarca? E va bene. Sulla natura umana divisa tra istinti animali e fede? Se sì, quale fede poteva avere un personaggio così odioso e scostante come Lucas? Cosa credevano, lui e la chiesa che lo ha mandato, di poter divulgare e dare al prossimo? Cosa voleva significare la storia, l'ennesima riproposizione del "cuore di tenebra"? E poi l'abuso di simbolismi, la pesantezza: difficile non rimanere perplessi, a tratti infastiditi, anche di fronte a un'ottima fotografia e delle interpretazioni decisamente convincenti ma non basta. Vero che un film non deve essere per forza divertente o spettacolare, ci mancherebbe; bene stimolare la riflessione, ma una traccia per arrivare da qualche parte bisogna pur darla. Io non l'ho vista e non sono stato il solo. In compenso ero in buona compagnia. 

venerdì 6 gennaio 2023

Bardo - La cronaca falsa di alcune verità

"Bardo - La cronaca falsa di alcune verità" (Bardo, falsa crónica de unas cuantas verdades) di Alejandro G. Iñarritu. Con Daniel Giménez Cacho, Griselda Siciliani, Ximena lamadrid, Iker Sánchez Solano, Andrés Almeida, Francisco Rubio, Grantham Coleman, Omar Leyva, Grace Shen, Jorge Gidi, Mar Carrera e altri. Messico 2022 ★★★★1/2

Mi conforta constatare che, rispetto alla stragrande maggioranza della critica militonta e professionale, ossia quella col biglietto del cinema in nota spese e retribuita per scrivere un pezzullo sulle nuove uscite, mi ritrovo spesso sul fronte opposto: quella stessa che si è di recente sciolta in lodi sperticate del mediocre e triste The Fabelmans, un'agiogfrafica e indulgente autocelebrazione di Steven Spielberg e si è inchinata, come sempre, davanti al suo assai presunto genio, è la stessa che si è scatenata quasi senza eccezioni contro Alejandro Iñarritu per il suo Bardo, dichiaratamente autobiografico, imputandogli le peggiori nefandezze, ossia di aver fatto un film autoreferenziale e presuntuosamente "autoriale", confuso, velleitario, che dietro alla visionarietà e alla perfezione tecnica nasconde un ego smisurato e una spudorata ipocrisia menefreghista e di volersi mettere all'altezza di "autentici geni" come Fellini (a cui peraltro l'autore ha sempre detto di ispirarsi) con il suo 8 e1/2, e quindi colpevole del reato di lesa maestà, senza aver compreso, o forse nemmeno letto, il resto del titolo, che recita: La cronaca falsa di alcune verità, con cui fin dall'inizio il regista messicano, che a differenza di Spielberg è capace di fare dell'autoironia, avverte di non prenderlo troppo sul serio così come lui stesso non fa con Silverio Gama, il personaggio che è il suo alter ego nella pellicola. Presentata all'ultima Biennale Cinema di Venezia, è transitata nelle sale italiane soltanto per pochi giorni proprio mentre io ero all'estero, per rimanere fruibile su Netflix, in versione originale sottotitolata, un punto in più per chi ha una buona familiarietà con lo spagnolo latino-americano, una  perdita enorme perché il suo forte impatto visivo, frutto di riprese immaginifiche e spettacolari e di una fotografia di altissimo livello è fortemente penalizzata dallo schermo televisivo, per quanto grande possa essere in termini di pollici, perdendo così gran parte del suo lato onirico, o meglio delirante: in alcuni tratti mi è sembrato di ritrovarmi in un quadro di Salvador Dalí. Conviene precisare che bardo è un termine che non c'entra nulla con Shakespeare né con i cantori di antica memoria ma è un concetto della cultura buddhista  che descrive lo stato intermedio in cui si trova l'anima tra la morte e la rinascita, qualcosa di simile al limbo dei cattolici, ed è la condizione in cui si trova Saverio Gama, giornalista messicano di buon livello che però ha raggiunto il successo come documentarista negli USA e che vive in California, dove vive ormai da decenni e dove si è trasferito con moglie e figli: un uomo diviso tra due case e due Paesi che più diversi non potrebbero essere, soprattutto per mentalità, cultura e sensibilità. In visita nella natià Città di Messico nell'imminenza di ricevere, primo latino-americano, un prestigioso premio da parte dell'associazione dei giornalisti USA a Los Angeles, il rientro nell'amata patria è problematico e scatena una serie di riflessioni spesso fortemente autocritiche sulla sua scelta di abbandonare il Paese dove ha mosso i primi passi: lì viene considerato un traditore della patria così, come, negli USA, sostanzialmente un estraneo o un personaggio esotico; vive la contraddizione tipica dell'espatriato, che si strugge di nostalgia per il Paese di provenienza quando ne è lontano e ne vede implacabilmente le storture quando vi ritorna, e per quanto sforzi faccia, non riesce mai completamente a integrarsi, nemmeno da emigrato "di lusso", nella nuova "patria" (cosa che gli USA per uno chicano non potranno mai essere, per quanto gli ingombranti vicini ne abbiano conquistato o comprato un buon terzo del territorio a suo tempo, come testimoniano i nomi degli Stati confinanti, e nel film si ipotizzi perfino l'acquisto della Baja California da parte di Amazon...). Il film è frutto di una serie di ricordi personali rivissuti in forma spesso allucinatoria, in cui il personaggio si sdoppia, o perde la voce, oppure è il contorno, perfino in una rumorosa sala da ballo colma di gente, che perde all'improvviso il sonoro oppure la luce; Gama si trova nella sua casa messicana con moglie e figli, anche loro a chiedergli conto delle sue scelte; in uno studio televisivo intervistato dal collega che lo ha lanciato e fa scena muta; si ritrova con fratelli e sorelle e, in sogno, con i genitori; poi a camminare nel centro storico della città (bello rivedere il cuore pulsante del DF, città seducente e di grande fascino per quanto possa essere sgradevole, con gli occhi di chi ci è nato e lo conosce bene) e a sognarsi un immaginario colloquio coi Hernán Cortés che la dice lunga sul rapporto di spagnoli e yankees con i popoli soggetti alla loro conquista. Insomma, dominano metafore e simboli, le inquadrature e alcuni piani-sequenza sono di una potenza rara e quantomai suggestivi, la durata del film (due ore e 40') è probabilmente eccessiva e un indubbio vantaggio di vederlo in televisione è quello di poterlo agevolmente mettere in pausa, ma è probabilmente l'unico, perché su grande schermo sono certo che si gusterebbe ben altrimenti la capacità di Iñarritu di trasporre in immagini i suoi pensieri, le sue riflessioni e anche i suoi dubbi, come aveva già fatto in Birdman, che considero il suo capolavoro: non alla sua altezza, ma non siamo troppo distanti, a mio avviso. Si tratta anche del primo film di Iñarritu prodotto in Messico dopo Amores Perros, che risale all'anno 2000: ne è valsa la pena, così come vale la pena vederlo, anche per la fenomenale interpretazione dello spagnolo Daniel Giménez Cacho nella parte del giornalista in crisi esistenziale e dell'argentina Griselda Siciliani in quella della moglie Lucia.

martedì 3 gennaio 2023

Eo

"Eo" (Hi-han) di Jerzy Skolimowski. Con Sandra Drzymalska, Mateusz Kosciukiewicz, Tomas Organek, Lorenzo Zurzolo, Isabelle Huppert, Lolita Chammah, Mateusz Muranski, Saverio Fabbri e altri. Polonia, Italia 2022 ★★★★

Un film breve quanto intenso, immaginifico, una favola triste che racconta, dal suo punto di vista, l'odissea di Eo, un tenero asino (Skolimowski ne ha utilizzati sei, di razza sarda, nella gestazione del suo progetto) che si esibisce in coppia con la sua addestratrice Kasandra, con la quale ha un rapporto di intesa e affetto profondi, basato sul rispetto e la comprensione reciproci, che da un giorno con l'altro si ritrova letteralmente sulla strada dopo che il circo in cui lavorano viene smantellato in seguito a fallimento e gli animali pignorati. Comincia così un viaggio, raccontata dal punto di vista dell'animale, che lo porta ad attraversare l'intero Continente, dalla Polonia fin in Italia, in contesti e situazioni via via diversi. Eo finisce dapprima come una sorta di mascotte in un allevamento di cavalli di razza, da competizione, dove vengono evidenziale le caratteristiche che differenziano l'asino, animale straordinariamente intelligente, sensibile, caparbio e dotato di una memoria prodigiosa dal suo più "nobile" e apprerzzato parente, di portamento tanto elegante quanto notoriamente stupido, instabile e pauroso; poi presso un contadino, dove non si raccapezza col lavoro nei campi; quindi in una comunità nella quale si pratica terapia di sostegno con animali per ragazzi Down; più avanti diventa l'eroe degli agitati tifosi di una strampalata squadra di calcio che lo individuano come il portafortuna e viene massacrato a bastonate da quelli avversari; sopravvissuto a questa sventura e curato amorevolmente in una clinica veterinaria da parte di um medico coscienzioso, contribuisce alla liberazione di altri sfortunati animali selvatici; infine finisce su un camion che trasporta in Italia equini destinati diventare salumi: giunto nel nostro Paese, assiste a una vicenda terminata decisamente male per l'incauto autista del mezzo e, sul piazzale della stazione di servizio, viene amorevolmente raccolto da un giovane e strano prete che si scopre essere il rampollo traviato di una ricca famiglia andata in rovina per la sua ludopatia e condotto nella sua elegante per quanto decaduta magione dove si svolge il definitivo chiarimento con la madre del giovane (interpretata da Isabelle Huppert, sempre magnifica), per terminare la sua avventura in un allevamento di bovini dove la sua sorte sarà segnata, anche se Skolimowski non ci fa assistere alla fine dei suoi giorni. Favola concepita dall'anziano ma sempre lucidissimo regista polacco durante il primo e lungo lockdown pandemico di tre anni fa, oltre a esprimere la sua profonda empatia per gli animali, vuole dare uno sguardo sulle vicende umane osservate dall'esterno e, se vogliamo, da un'ottica e sensibilità diverse, che le sono estranee: il contrario del consueto processo antropomorfizzazione del comportamento animale, e così dell'uomo viene data un'immagine obiettiva, con i suoi aspetti malvagi ma non solo, perché ne vengono altresì mostrati la generosità, lo dolcezza, la comprensione, così come l'indifferenza, l'utilitarismo, l'insensibilità. Potente è l'accompagnamento musicale, e spesso suggestive, deformate e cariche di colori inconsueti le immagini, che rendono in alcuni passaggi anche visivamente una prospettiva diversa da quella che ci è propria. Il risultato è una parabola efficace, a tratti onirica e anche ironica, non giocata sul sentimentalismo e la pietà, che induce a riflettere. Un bel vedere.