venerdì 6 gennaio 2023

Bardo - La cronaca falsa di alcune verità

"Bardo - La cronaca falsa di alcune verità" (Bardo, falsa crónica de unas cuantas verdades) di Alejandro G. Iñarritu. Con Daniel Giménez Cacho, Griselda Siciliani, Ximena lamadrid, Iker Sánchez Solano, Andrés Almeida, Francisco Rubio, Grantham Coleman, Omar Leyva, Grace Shen, Jorge Gidi, Mar Carrera e altri. Messico 2022 ★★★★1/2

Mi conforta constatare che, rispetto alla stragrande maggioranza della critica militonta e professionale, ossia quella col biglietto del cinema in nota spese e retribuita per scrivere un pezzullo sulle nuove uscite, mi ritrovo spesso sul fronte opposto: quella stessa che si è di recente sciolta in lodi sperticate del mediocre e triste The Fabelmans, un'agiogfrafica e indulgente autocelebrazione di Steven Spielberg e si è inchinata, come sempre, davanti al suo assai presunto genio, è la stessa che si è scatenata quasi senza eccezioni contro Alejandro Iñarritu per il suo Bardo, dichiaratamente autobiografico, imputandogli le peggiori nefandezze, ossia di aver fatto un film autoreferenziale e presuntuosamente "autoriale", confuso, velleitario, che dietro alla visionarietà e alla perfezione tecnica nasconde un ego smisurato e una spudorata ipocrisia menefreghista e di volersi mettere all'altezza di "autentici geni" come Fellini (a cui peraltro l'autore ha sempre detto di ispirarsi) con il suo 8 e1/2, e quindi colpevole del reato di lesa maestà, senza aver compreso, o forse nemmeno letto, il resto del titolo, che recita: La cronaca falsa di alcune verità, con cui fin dall'inizio il regista messicano, che a differenza di Spielberg è capace di fare dell'autoironia, avverte di non prenderlo troppo sul serio così come lui stesso non fa con Silverio Gama, il personaggio che è il suo alter ego nella pellicola. Presentata all'ultima Biennale Cinema di Venezia, è transitata nelle sale italiane soltanto per pochi giorni proprio mentre io ero all'estero, per rimanere fruibile su Netflix, in versione originale sottotitolata, un punto in più per chi ha una buona familiarietà con lo spagnolo latino-americano, una  perdita enorme perché il suo forte impatto visivo, frutto di riprese immaginifiche e spettacolari e di una fotografia di altissimo livello è fortemente penalizzata dallo schermo televisivo, per quanto grande possa essere in termini di pollici, perdendo così gran parte del suo lato onirico, o meglio delirante: in alcuni tratti mi è sembrato di ritrovarmi in un quadro di Salvador Dalí. Conviene precisare che bardo è un termine che non c'entra nulla con Shakespeare né con i cantori di antica memoria ma è un concetto della cultura buddhista  che descrive lo stato intermedio in cui si trova l'anima tra la morte e la rinascita, qualcosa di simile al limbo dei cattolici, ed è la condizione in cui si trova Saverio Gama, giornalista messicano di buon livello che però ha raggiunto il successo come documentarista negli USA e che vive in California, dove vive ormai da decenni e dove si è trasferito con moglie e figli: un uomo diviso tra due case e due Paesi che più diversi non potrebbero essere, soprattutto per mentalità, cultura e sensibilità. In visita nella natià Città di Messico nell'imminenza di ricevere, primo latino-americano, un prestigioso premio da parte dell'associazione dei giornalisti USA a Los Angeles, il rientro nell'amata patria è problematico e scatena una serie di riflessioni spesso fortemente autocritiche sulla sua scelta di abbandonare il Paese dove ha mosso i primi passi: lì viene considerato un traditore della patria così, come, negli USA, sostanzialmente un estraneo o un personaggio esotico; vive la contraddizione tipica dell'espatriato, che si strugge di nostalgia per il Paese di provenienza quando ne è lontano e ne vede implacabilmente le storture quando vi ritorna, e per quanto sforzi faccia, non riesce mai completamente a integrarsi, nemmeno da emigrato "di lusso", nella nuova "patria" (cosa che gli USA per uno chicano non potranno mai essere, per quanto gli ingombranti vicini ne abbiano conquistato o comprato un buon terzo del territorio a suo tempo, come testimoniano i nomi degli Stati confinanti, e nel film si ipotizzi perfino l'acquisto della Baja California da parte di Amazon...). Il film è frutto di una serie di ricordi personali rivissuti in forma spesso allucinatoria, in cui il personaggio si sdoppia, o perde la voce, oppure è il contorno, perfino in una rumorosa sala da ballo colma di gente, che perde all'improvviso il sonoro oppure la luce; Gama si trova nella sua casa messicana con moglie e figli, anche loro a chiedergli conto delle sue scelte; in uno studio televisivo intervistato dal collega che lo ha lanciato e fa scena muta; si ritrova con fratelli e sorelle e, in sogno, con i genitori; poi a camminare nel centro storico della città (bello rivedere il cuore pulsante del DF, città seducente e di grande fascino per quanto possa essere sgradevole, con gli occhi di chi ci è nato e lo conosce bene) e a sognarsi un immaginario colloquio coi Hernán Cortés che la dice lunga sul rapporto di spagnoli e yankees con i popoli soggetti alla loro conquista. Insomma, dominano metafore e simboli, le inquadrature e alcuni piani-sequenza sono di una potenza rara e quantomai suggestivi, la durata del film (due ore e 40') è probabilmente eccessiva e un indubbio vantaggio di vederlo in televisione è quello di poterlo agevolmente mettere in pausa, ma è probabilmente l'unico, perché su grande schermo sono certo che si gusterebbe ben altrimenti la capacità di Iñarritu di trasporre in immagini i suoi pensieri, le sue riflessioni e anche i suoi dubbi, come aveva già fatto in Birdman, che considero il suo capolavoro: non alla sua altezza, ma non siamo troppo distanti, a mio avviso. Si tratta anche del primo film di Iñarritu prodotto in Messico dopo Amores Perros, che risale all'anno 2000: ne è valsa la pena, così come vale la pena vederlo, anche per la fenomenale interpretazione dello spagnolo Daniel Giménez Cacho nella parte del giornalista in crisi esistenziale e dell'argentina Griselda Siciliani in quella della moglie Lucia.

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