sabato 31 dicembre 2022

venerdì 30 dicembre 2022

The Fabelmans

“The Fabelmans” di Steven Spielberg. Con Michelle Williams, Paul Dano, Gabriel LaBelle, Seth Rogen, Judd Hirsch, Julia Butters, Keeley Karsten, Cole Est, Oakes Fegley, Sam Rechner, Jeannie Berlin, Tina Schildkraut, David Lynch e altri. USA 2022 1/2

Peggio di quel che temessi: mi aspettavo la consueta celebrazione nostalgica dei Mitici Fifties Made in USA e mi sono ritrovato con l’autocelebrazione solipsistica di Steven Spielberg. Palesemente autobiografico, nelle intenzioni dell’autore il sottotitolo implicito suona come “Vocazione e formazione dell’Artista”, il risultato per lo spettatore più scettico si traduce in “Come sono diventato un cinematografaro”. Di ottimo livello e grandi capacità tecniche e commerciali (fin dagli esordi i suoi film sono stati campioni di incassi), ma dove di spontaneo e di autentico c’è poco o niente. C’è una sola scena, peraltro rivelatrice, verso la fine, quella di una pellicola girata in occasione della conclusione dell’ultimo anno di scuola superiore, il 1964, che sembra (involontariamente) sincera: quella in cui il giovane Sam Fabelman (l'alter ego di Spielberg nel film) dipinge Logan, il rivale che l’ha sempre “bullizzato” fin da quando era approdato in quell’istituto californiano, come una sorta di eroe ariano, oltre che il bello della High School, e il protagonista non si capacita di ciò, chiedendogli perché l’abbia descritto per quello che non è e non potrà mai essere nonostante tutti i torti che ha subito da lui, e l’aspirante artista, a diciotto anni già così pieno di sé e convinto di essere stato toccato dalla Grazia, gli risponde, in sostanza, che è questa la magia del cinema, il potere del regista: compiacere e manipolare lo spettatore, puntando sul suo lato debole, ossia l’impressionabilità, i buoni sentimenti e il senso di colpa, capacità che Spielberg senza dubbio possiede e avrebbe sistematicamente sfruttato per tutta la sua carriera, giocando, come si suol dire, sporco. Per come l’ho percepito io, controluce emerge il ritratto di una persona meschina, che non lascia mai trasparire come la pensa davvero e non prende mai una posizione decisa; pavida, opportunista, in fondo, cattiva e vendicativa: l’esatto contrario del buonismo melenso che permea tutta la sua filmografia. In poche parole, The Fabelmans ripercorre l'infanzia, l'adolescenza e la prima giovinezza del Prodigio, dal primo film che ha visto, a 6 anni, ai primi che ha girato, da dilettante (i fondi non gli sono mai mancati, grazie alla generosità del padre, ingegnere di successo che non mancava certo di mezzi), all'incontro niente meno che con John Ford (il cameo di David Lynch, a differenza di Spielberg un artista a tutto tondo, che lo interpreta è una delle cose migliori di una pellicola insopportabilmente prolissa e noiosa), insomma la formazione del Giovane Genio, e le vicende della sua famiglia, coi suoi spostamenti dal New Jersey all'Arizona alla California, e ai traumi inenarrabili che avrebbe subito a causa della separazione dei suoi genitori (il padre un informatico di valore, la madre una pianista e ballerina che ha rinunciato alla carriera per tirare su il viziatissimo Sam e le tre sorelle), con l'inevitabile contorno, trattandosi di una famiglia ebraica, di festività come Hanukkah, nonne invadenti, zii pazzi e folkloristici, fiducia messianica nella psichiatria, una buona dose di vittimismo e, al contempo, un'esibizione di superiorità e diversità fastidiosa; in compenso, e stranamente, senso dell'umorismo, insomma del witz, quasi inesistente. Insomma un mondo a parte, quello della benpensante e conformista borghesia ebrea-americana, dove tutto è correttezza e deve svolgersi secondo binari prefissati, la rottura dell'armonia (la relazione della madre con l'amico di famiglia Benny scoperta, guarda caso, dal giovane Sammy montando un filmino di una vacanza al campeggio) una tragedia, come se non fossero cose che capitano a centinaia di milioni di persone, ma se succedono a Lui, Spielberg, allora diventano montagne insuperabili ed Eventi spaventosi che-segnano-una vita. Ovviamente in tutto il film e attraversando tre Stati nell'arco di 20 anni non si incontra nemmeno una persona di colore e a malapena si intravvede un italiano e un ispanico: miracolo. Insomma, il Paese reale, come qualsiasi cosa non riguardi l'Autore e il suo ego ipertrofico, non esiste o non ha importanza. Aggiungiamo lo schematismo, il moralismo pervasivo, la pedanteria delle descrizioni, veri e propri "spiegoni" su ogni quisquilia, la puerilità del tutto, a metà della proiezione ero stato tentato di lasciare la sala per andare a bermi un paio di birre, ma alla fine ho resistito fino alla fine per vedere dove andava a parare e a qualcosa è servito: dopo anni ho capito perché i film di Spielberg non mi abbiano mai convinto, per quanto spettacolari e ben fatti (e non tutti) e perché l'uomo mi sia sempre stato sui coglioni. 

mercoledì 28 dicembre 2022

Il mio nome è vendetta

"Il mio nome è vendetta" di Cosimo Gomez. Con Alessandro Gassmann, Ginevra Francesconi, Remo Girone, Luca Zamperoni, Alessio Praticò, Sinjia Dikes, Gabriele Falsetta, Mauro Lamanna e altri. Italia 2022 💩

Sedicente thriller d'azione, finanziato da Netflix, che quindi può permettersi costi che un produttore italiano non si sognerebbe mai, e giustamente, di coprire per una boiata del genere, ha come oggetto il genere d'esportazione preferito e più scontato: una storia di vendetta di una delle mafie nostrane. Per la precisione, quella più efferata e impenetrabile (o così la raccontano): la ndrangheta calabrese. Assumono Alessandro Gassmann, gli fanno crescere la barba, lo mandano in un maso sulle Dolomiti Sudtirolesi, gli accollano un'identità fasulla (nessuno se ne accorge, figurarsi), una moglie locale e una figlia adolescente, Sofia, e un lavoro nella segheria del cognato: un terrone ben integrato nell'ambiente. La ragazzina gli scatta una foto di nascosto (babbo non vorrebbe, chissà perché) e la pubblica su un qualche social. Non l'avesse mai fatto: l'idillio ha fine, perché Santo Romeo Gassmann, grazie al riconoscimento facciale, viene individuato come Domenico Franzé da un altro capobastone, Don Angelo Lo Bianco (Remo Girone), attivo a Milano, come il killer di fiducia di una ndrina rivale che ha accoppato il suo figlio preferito prima di ritirarsi dal servizio attivo e sparire dalla circolazione. Vendetta 1: del boss calabro-milanese, che spedisce una squadra di picciotti sulle Alpi la quale elimina moglie e cognato ma non non raggiunge il bersaglio principale, il nostro "eroe" Gassmann che, avendo avuto contezza della strage, dismette la barba, si rade i capelli e indossa la truncia di quando gli affidano la parte del "cattivo" e ridiventa Domenico Franzé, innescando, assieme alla figlia adolescente, scampata miracolosamente alla cerneficina, la fase 2 della Vendetta di cui al titolo, facendo rotta su Milano. Nell'arco di tre giorni (questo l'arco temporale in cui si pretende di comprimere la vicenda, e ci si perita pure di ribadirlo) il Gigante e la Bambina, nel frattempo trasformatasi in un'esperta di trucchi del mestiere come manco un membro dei ROS dopo 10 anni di pratica, compiono una cerneficina con almeno una sessantina di morti che in confronto i Wagner o i Mozart attualmente in azione in Ucraina sembrano dei poaréti. Insomma, una pagliacciata e un film di cui vergognarsi che venga riproposto all'estero come prodotto nazionale. Certo, le scene d'azione sono girate bene, per quanto assolutamente improbabili: e ci mancherebbe pure altro, col budget che sorregge questa solenne cagata. Che giustamente mi ero rifiutato di andare a vedere in sala, quando era uscita, ripromettendomi di guardarla in TV in occasione delle festività natalizie, funestate da una programmazione miserevole più del solito sui grandi schermi: per fortuna dura meno di un'ora e mezzo. Il bello è che per confezionare e sceneggiare questa minchiata, ci si sono messe due teste, non dico di quale contenuto: quella del regista stesso e quella di Sandrone Dazieri, quello che aveva inventato il Gorilla, il detective schizofrenico di alcuni romanzetti di discreto successo; uno che dal Centro Sociale Leoncavallo è passato direttamente al ramo editoriale presso Mondadori, cfr. Berlusconi: un giallista, esperto del ramo. Il risultalo penoso ne è la logica conseguenza. Oltre a trattarsi dell'ennesima variazione su un tema ormai abusato: (Una vita tranquilla di Claudio Cupellini, 2010, per fare solo un esempio cinematografico), quel che salta all'occhio è che la storia è molto meno plausibile di quanto non lo sia la vicenda raccontata da Bang Bang Baby, esplosiva serie uscita su Amazon Prime quest'anno e di cui mi occuperò prossimamente, che pur essendo esplicitamente parodistica, pulp e splatter, si ispira dichiaratamente a una vera storia di ndraghenta, il libro autobiografico di Marisa Merico L'intoccabile. Con cui questo miserevole film ha parecchi tratti in comune. Non che si tratti di plagio, per carità, non mi permetterei nemmeno di sospettarlo: ma le coincidenze sono tante. Troppe per essere solo un caso. Non il risultato: squallido quello di Il mio nome è vendetta; prodigioso, e non sto scherzando, quello di Bang Bang Baby. 

domenica 25 dicembre 2022

Glass Onion - Knives Out

"Glass Onion - Knives Out" ("Glass Onion - Knives Out Mistery") di Rian Johnson. Con Daniel Craig, Edward Norton, Janelle Monáe, Kathryn Hahn, Leslie Odom Jr., Madelyn Cline, Kate Hudson, Jessica Henwick, Dave Bautista, Ethan Hawke, Hugh Grant e altri. USA 2022 ★★★+

Perfetto film natalizio: perché è divertente e ben fatto e soprattutto perché è un'ottima alternativa rispetto alla sconfortante programmazione nelle sale del periodo e comodamente fruibile su Netflix, da vedersi in panciolle, mettendolo all'occorrenza in pausa per recuperare generi di conforto liquidi o di altro genere. Sequel del fortunato Cena con delitto, fa parte di un progetto che vede già in cantiere un terzo film, che propone una sorta di rivisitazione dei thriller alla Agatha Christie però in versione attualizzata, con protagonisti i ricchissimi del giorno d'oggi, quindi finanzieri e avventurieri di ogni genere, il loro contorno di parassiti e miracolati e l'immancabile investigatore eccentrico e dall'inarrivabile nello scoprirne gli altarini e, in particolare, i delitti: anziché un Hercules Poirot, belga e quindi esotico nell'ambientazione prettamente brit dei romanzo della Christie, qui abbiamo Benoit Blanc, interpretato in modo brillante e ironico da Daniel Craig, che col suo raffinato eloquio e l'ineccepibile pronuncia inglese è rara avis in mezzo allo sguaiato, cacofonico accento di cafoni a stelle e strisce. Per farla breve, questa volta si trova a partecipare a un'altra "cena con delitto" ideata dalla mente solipsista e megalomane del multimiliardario Miles Bron, gran capo della Alpha Industries, multinazionale che si occupa di tutto, a cui l'ottimo Edward Norton dona le fattezze e le espressioni della perfetta faccia da cazzo alla Elon Musk, il quale convoca, in piena pandemia, il gruppo di amici storici nella sua lussuosissima villa in un'isola greca di sua proprietà per risolvere l'enigma messo in scena (c'è pure la Mona Lisa di Leonardo originale, prestatagli in cambio di una più che generosa donazione...). Che però si traduce in realtà quando viene ucciso uno dei partecipanti, Duke, di professione influencer trumpiano pluritatuato, e viene a galla che si trattava di omicidio e non di suicidio nel caso di Andi, l'ex socia della socia estromessa dalla Alpha Industries perché non  condivideva pericolose scelte di Miles e ne era la vera ideatrice, a cui si sostituisce, per scoprirne l'autore, la gemella Helen: è stata lei a invitare Blanc per sciogliere il mistero. Gli altri invitati, per mezzo di una scatola contenente enigmi ideati da Miles, sono Claire, governatrice del Connecticut; Lionel uno scienziato capo della sezione ricerca e sviluppo della compagnia di Miles; Birdie, una stilista suonata e la sua assistente Peg e Whiskey, la fidanzata di Duke, portata da quest'ultimo per tentare di sedurre il grande capo: tutti sono legati a Miles per interesse e a lui devono le rispettive fortune, ma tutti hanno sia un movente sia avuto la possibilità di uccidere... Non svelo altro, ovviamente, per non guastare la sorpresa finale di questo film scoppiettante, un epilogo propriamente esplosivo, che però non ritengo all'altezza del precedente. Di cui conserva alcuni aspetti che apprezzo molto: l'autoironia, il mettere alla berlina e ridicolizzare certi personaggi e certi ambienti. un bel po' di sana "scorrettezza"; ma l'ordito, appesantito da un flash back piuttosto laborioso, risulta un po' troppo intricato, per quanto il congegno funzioni alla perfezione e tutto alla fine si incastri. Quel qualcosa che manca, a mio parere, sono gli interpreti, a parte i due sopra citati, non all'altezza e non altrettanto complici e divertiti quanto quelli del cast di Cena con delitto, che ricordavano una scanzonata compagnia teatrale ben assortita e affiatata: qui l'unico che recita con scioltezza e naturalezza, è Daniel Craig seguito a ruota da Edward Norton, gli altri, a parte i camei di Hugh Grant ed Ethan Hawke, sono "sotto" di un tono o due, per quanto s'impegnino. Comunque, il risultato si colloca ben sopra la sufficienza e si va sul sicuro. 

sabato 17 dicembre 2022

Il corsetto dell'imperatrice

"Il corsetto dell'imperatrice" (Corsage) di Marie Kreutzer. Con Vicky Krieps, Florian Teichmester, Katharina Lorenz, Jeanne Werner, Alma Hasun, Aaron Friesz, Manuel Rubey, Colin Morgan,  Finnegan Oldfield, Tamás Lemgyel e altri. Austria, Francia Germania, Lussemburgo 2022 ★★★

Film eminentemente metaforico, che di storico ha soltanto l'ambientazione temporale, racconta l'anno tra il 24 dicembre del 1877, giorno in cui Elisabeth von Wittelsbach, principessa di Baviera nota universalmente come Sissi, imperatrice del Regno Austro-Ungarico, compie i 40 anni e deve fare i conti con l'incipiente vecchiaia, e il compleanno successivo. I personaggi che la circondano sono realmente esistiti: dal consorte Franz Joseph; all'amato cugino Ludovico II il Folle, suo complice e confidente; il capitano Bay Middleton, con il quale era stata sospettata di trescare mentre era in visita dalla sorella Marie Sophie in Inghilterra nell'estate del 1878; i figli Rudolf (quello di Mayerling) e Sophie, che lei voleva educare all'ungherese, parlandole quasi sempre in magiaro; le sue dame di compagnia; il liberale ministro degli Esteri Gyula Andrássy; quel che non esisteva erano i telefoni a muro, i trattori, i dolcevita bianchi indossati dall'imperatore e neppure i muri scrostati e gli ambienti decadenti delle dimore visitate da Elisabetta durante i suoi viaggi per sfuggire alla soffocante atmosfera di corte, che detestava, in contrasto con Schönbrunn e gli altri palazzi viennesi che evitava il più possibile di frequentare. Che fosse estremante attenta alla linea (rivelatore il titolo: chiedeva alle sue damigelle di stringere il corsetto quanto più possibile) e quindi all'alimentazione si sapeva; così come fosse refrattaria agli obblighi, ribelle, amante dei cavalli: lo dice la sua vita. Pregio de Il corsetto dell'imperatrice è proporre sullo schermo una versione del tutto diversa, e più realistica, di Elisabetta rispetto alla Sissi dei film interpretati da Romy Schneider, che hanno forgiato l'immaginario collettivo. Nonostante la scarsa somiglianza dell'interprete con l'originale, o almeno da quel che si ricava dai suoi innumerevoli ritratti, la bravissima Vicky Krieps riesce a rendere perfettamente l'idea di una donna irrequieta, infelice, profondamente narcisista e ossessionata dalla propria immagine e quindi dall'invecchiamento: uno degli aspetti per cui, vista a posteriori, sembra aver precorso i tempi; una sorta di preveggenza più o meno conscia, come se la sua insofferenza alle regole e ai "doveri" di sovrana fossero espressione di un suo essere al passo coi tempi, consapevole del fatto che The Times They Are A-Changing; che un'epoca si stesse chiudendo e lei ne fosse non solo testimone ma, in qualche modo, precursore. Con tutta la simpatia e benevolenza che si possa avere per il personaggio, attribuirle intenzioni, una vocazione femminista ante litteram e una coscienza politica che non possedeva, come anche una animus femminista ante litteram, mi sembra eccessivo: la regista Marie Kreutzer però non sposa del tutto questa visione, e testimonianza ne sono proprio l'introduzione di elementi incongrui e, a tratti, favolistici, a differenza di quel che fece Susanna Nicchiarelli col pessimo e didascalico Miss Marx, con risultati controproducenti rispetto alle intenzioni. Il risultato è una pellicola di buon livello, elegante, originale, ben girata e con un ottimo cast: curioso ma coerente l'accompagnamento musicale, tra cui spicca una versione di As Tears Go By dei Rolling Stones della cantautrice Camille Dalmais, che ha scritto la colonna sonora originale. 

martedì 13 dicembre 2022

Addavenì a' Qatarsi...


Continua l'inchiesta su lobbies e potere a Bruxelles, che vede coinvolti ONG, sindacati, assistenti e membri del Parlamento Europeo, indagati per essere stati lautamente foraggiati dall'Emirato del Qatar, e colti con le mani nel sacco. La vicenda è nota, perché vede coinvolti personaggi legati al gruppo S&D (Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici), tra cui spiccano la vicepresidente greca del Parlamento Europeo Eva Kaili e l'ex europarlamentare, già deputato italiano nonché, a suo tempo, dal 1995 al 2003, segretario della Camera del Lavoro di Milano, la più potente d'Italia, Antonio Panzeri. Una vita "asinistra", tra CGIL e PCI e tutta la filiera delle sue successive reincarnazioni, fedele scudiero di Massimo D'Alema ("da Halema-Halim. 
Siamo tra quegli arabi che servirono Federico II di Svevia" aveva rivelato a suo tempo l'ex deputato di Gallipoli) in Lombardia e infine approdato, come il suo mentore, ad Articolo 1, sedicente "Movimento Democratico e Progressista". Non sto qui a fare la morale né a stupirmi della vicenda, coi suoi aspetti anche grotteschi (pacchi di migliaia di euro in contanti nascosti tra gli   indumenti nelle abitazioni degli indagati, o stipati nelle valigie in un vano tentativo di trafugamento delle prove: quando si tratta di luoghi dove nascondere danari di provenienza sospetta la fantasia non manca, tra i nostri progressisti, compresi gli scarichi dei cessi e le cucce dei cani) perché solo chi ha scarsa o nessuna memoria e onestà intellettuale può ancora cadere dal pero e sostenere una qualche "diversità" della cosiddetta "sinistra" quanto e etica e moralità. E certi personaggi non si smentiscono mai: posseggono, a loro modo, una coerenza. Ora non rimane che augurarsi che la magistratura e la polizia belghe proseguano proficuamente il loro lavoro, e che, inshallah, arrivino prima o poi ai pesci grossi...

venerdì 9 dicembre 2022

Esterno notte 1 e 2

"Esterno notte 1 e 2" di Marco Bellocchio. Con Fabrizio Gifuni, Margehrita Buy, Toni Servillo, Fausto Russo Alesi, Daniele Marra, Gabriel Montesi, Davide Mancini, Paolo Pierobon, Fabrizio Contri, Pier Giorgio Bellocchio, Gigio Alberti e altri. Italia, Francia 2022 ★★★★★

Mi ero ripromesso di dire la mia sul Esterno notte, la serie coraggiosamente prodotta da RAI Fiction in collaborazione con Arte France, che avevo già visto quando era uscito nella sale cinematografiche, in due parti, nella passata primavera, una volta che fosse stata trasmessa anche in televisione e l'avessi rivisto in quella modalità, cosa che ho fatto nei giorni passati, ma non trovo altro da aggiungere a quanto scrisse Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano il 29 maggio scorso, salvo che, a mio parere, l'impatto e la resa su grande schermo sono decisamente maggiori. Bene comunque ha fatto la RAI a impegnarsi in questa avventura.

Non c’è parola se non capolavoro per descrivere Esterno notte, la serie-film di Marco Bellocchio sul sequestro Moro (...). Dovrebbero vederla tutti per il livello artistico, degno dei migliori Rosi e Volonté. Ma anche per il valore storico, civile e politico: era difficile raccontare la tragedia greca che segnò l’Italia del 1978 e di molti anni a seguire riuscendo a mantenere l’equilibrio fra commozione e melodramma, retorica e cinismo, misteri e complottismi, senza mai cadere in nessuno di quegli opposti. Merito del regista, dei produttori, degli sceneggiatori e di un casting che non sbaglia un colpo: Fabrizio Gifuni (Moro: non lo fa, lo è), Margherita Buy (la moglie Eleonora), Toni Servillo (Papa Paolo VI), Fausto Russo Alesi (Cossiga), Fabrizio Contri (Andreotti), Gigio Alberti (Zaccagnini), Daniela Marra, Gabriel Montesi e Davide Mancini (i brigatisti Faranda, Morucci e Moretti). E poi Paolo Pierobon nei panni di don Cesare Curioni, il capo dei cappellani carcerari che tratta sottobanco mentre il Papa raccoglie 22 miliardi di lire di riscatto che resteranno ammucchiati sul suo tavolo. Tutto intorno, un formicaio di macchiette, ridicole e inquietanti, come il presidente da operetta Leone, il consulente americano Pieczenik e gli altri acchiappafantasmi del Viminale, il sottobosco di diccì mollicci, untuosi e inadeguati alla gravità dell’ora. Ogni tanto Bellocchio solleva lo sguardo dal crudo realismo e si concede licenze poetiche, visionarie ma mai pretestuose. Moro schiacciato dalla croce di Cristo nella Via Crucis, la Faranda che sogna i cadaveri di Moro e dei cinque agenti di scorta trascinati da un fiume, Eleonora incatenata alla sede Dc. E poi il secondo finale che apre e chiude: Moro liberato e subito sigillato in una clinica, secondo il “piano Mike” di Cossiga e Pieczenik per evitare che divulghi i segreti di Stato già svelati alle Br (che inspiegabilmente li ignorarono), che dal letto scandisce un lento e feroce j’accuse al suo ormai ex partito davanti a Cossiga, Andreotti e Zaccagnini lividi e impietriti.

I 55 giorni del sequestro Moro sfilano via in cinque ore di Via Crucis cinematografica che ci leva il fiato e ci restituisce un’Italia che, per fortuna ma anche purtroppo, non c’è più. Un’Italia già immersa da nove anni (dalle stragi nere al terrorismo rosso) nel sangue dei delitti politici e ora costretta pure a scegliere fra la vita di un uomo (sulla pelle dei cinque agenti della scorta assassinati in via Fani) e quella dello Stato (che non può riconoscere le Br) dal doppio ricatto dello statista con le sue lettere imploranti e dei terroristi con i loro comunicati deliranti.

Nei sei episodi del film, Bellocchio infila la telecamera negli occhi di ogni protagonista della tragedia per mostrarla da ogni prospettiva. C’è il potente Moro che convince con un emolliente discorso la Dc riottosa ad accettare i voti degli odiati comunisti al primo governo Andreotti di solidarietà nazionale, poi nottetempo vede Berlinguer nella sua auto, poi rincasa, si frigge un uovo, controlla maniacalmente che le manopole del gas siano chiuse, raccomanda alla figlia Agnese di lavarsi le mani, raggiunge Eleonora in camera per l’ennesima notte insonne e l’indomani si ritrova addosso il sangue della scorta per finire in un loculo di cartongesso: uniche compagnie una branda, una Bibbia, una biro, qualche foglio e drappo rosso con la stella a cinque punte, finché non arriva un prete incappucciato per l’ultima confessione e comunione. Poi Cossiga che si macera nell’impotenza, preso tra amicizia e ragion di Stato, mentre giorno dopo giorno perde l’amico (che gli scrivere lettere di fuoco), la fiducia (sa di aver intorno piduisti e depistatori, ma anche di non poterli sostituire), il sonno (ascolta inutili intercettazioni e parla con i colleghi radioamatori), la salute (già compromessa dalla ciclotimia e dal dramma coniugale), perfino il colore della pelle (la vitiligine).

A suo modo è una maschera tragica anche Andreotti: mai un’emozione su quel volto di cera, mai un gesto per liberare Moro se non il fioretto di rinunciare al gelato, la notte riesce a dormire perché tiene tutto dentro (ma lì dentro succede di tutto, tant’è che si vomita addosso alla notizia del sequestro). Poi ci sono i brigatisti, divisi fra la lotta armata, lo scetticismo sulla rivoluzione proletaria, gli affetti familiari, i barlumi di pietà e l’intransigenza sanguinaria. C’è la famiglia Moro: moglie e figli sempre con la tv accesa ad attendere novità dalle voci di Vespa e Fede, increduli e poi furiosi per i depistaggi dozzinali (le ricerche del cadavere nel lago ghiacciato della Duchessa quando Moro è ancora vivo) e il partito cristiano che al Vangelo preferisce la ragion di Stato, al punto di dichiarare pazzo l’”amico Aldo” per screditare qualunque cosa dirà. E infine papa Montini: diccì anche lui, li conosce tutti dall’Azione Cattolica, già malato consuma gli ultimi respiri torturandosi con cilicio, trattative segrete e appelli pubblici, tenta di trascinarsi all’ultima Via Crucis cercando un crocifisso abbastanza leggero da poterlo sollevare, infine celebra i funerali di Stato dell’amico con tutta la Dc ma senza il feretro e tre mesi dopo muore. Squarci di un’Italia in bianco e nero e di una politica davvero orrenda, che nessuno può rimpiangere se non per un aspetto: che il lutto e la paura costringevano tutti a un minimo di rigore e serietà.

lunedì 5 dicembre 2022

The Menu

"The Menu" di Mark Mylod. Con Ralph Fiennes, Anya Taylor-Joy, Nicholas Hoult, Jon Leguizamo, Janet McTeer, Judith Light, Chau Hong, Aimee Carrero, Paul Adelston, Reed Birney, Christina Brucato, Arturo Castro e altri. USA 2022 ★★★★★

Nel panorama invero piuttosto mediocre di film in programmazione in questo periodo, situazione che senza dubbio peggiorerà ancora nell'imminenza delle festività natalizie, brilla come un gioiello raro questo Menu succulento ideato e ammannito dietro la macchina da presa da Mark Mylod e, sullo schermo, dal Ralph Fiennes (non a caso sono entrambi inglesi e non statunitensi, e quindi con lo humour nero giocano sul loro terreno sebbene in trasferta oltreoceano), nei panni di Julian Slowik, un cuoco stellato che offre, nel suo ristorante situato sull'isola privata di Hawthorne, dove viene prodotto tutto quello che cucina, un'esperienza culinaria esclusiva e indimenticabile, al prezzo pro capite di 1250 dollari. Che possono permettersi soltanto quel tipo di personaggi che già abbiamo visto in azione nell'altro film davvero originale e sanamente cattivo apparso in sala negli ultimi tempi, Triangle of Sadnessla vera feccia dell'umanità, ovvero coloro che si sono arricchiti attraverso l'economia finanziaria e di rapina, o diventati famosi o, come si dice, "autorevoli", nel mondo dello spettacolo e quello ancora più marcio dell'informazione che supporta il sistema. Sono questi i compagni di avventura di Tyler, un sedicente gastronomo attratto come una mosca sulla merda dalla cosiddetta "cucina molecolare" (ne conosco di persona alcuni esemplari in carne e ossa) che, per non andare da solo all'Evento, si fa accompagnare da Margot (Anya Taylor-Joy, già apprezzatissima nella memorabile serie TV La regina di scacchi e in altri film recenti), l'unica commensale che si distingue dagli altri perché totalmente disinteressata al cibo e che, per questo, viene immediatamente notata da Slowik e da questi riconosciuta come appartenente alla categoria di coloro che "spalano la merda" per quelli che hanno tempo e soldi per inseguire status symbol e concedersi "esperienze uniche e irripetibili" come i pranzi preparati da lui stesso e dalla brigata ai suoi ordini, e la mette quindi in guardia. Erin, che in realtà è un'accompagnatrice ingaggiata da Tyler per l'occasione, non appartenendo alla fauna degli abituali frequentatori di Hawthorne, "snasa" da subito che qualcosa non va, mentre gli altri ospiti cominceranno a insospettirsi dalla terza portata in poi, e saranno, come si dice, cazzi acidissimi in un crescendo rossiniano con punte di comicità macabra notevoli e sorprendenti. Ovviamente non dico altro sulla trama, limitandomi a dire che, se The Menu mette alla berlina una certa gastronomia sperimentale e con velleità artistiche, che ormai col cibo non ha più nulla a che vedere e, al contempo, ribadisce le dinamiche all'interno di una professione di cui molto si parla ma poco si conosce realmente, quella che si esercita all'interno delle cucine d'eccellenza, il film è metaforico così come lo era La grande abbuffata di Marco Ferreri uscito mezzo secolo fa, e ha molto più a che vedere con la morte, non solo figurativamente, con l'insostenibilità di un'esistenza senza senso, dove tutto è fuffa, apparenza, danaro, ipocrisia e idiozia. C'è da divertirsi, oltre a stimolare le sinapsi, e il film garantisce gustosissime sorprese, dialoghi ficcanti, colpi di scena e un finale appropriato, che lascia soddisfatto i palati alla ricerca di vendetta contro gli arroganti e gli imbecilli. Oltre ai due attori citati, tutto il resto del cast, scelto con accuratezza,  funziona alla perfezione. Complimenti. 

mercoledì 30 novembre 2022

Il piacere è tutto mio

"Il piacere è tutto mio" (Good Luck to You, Leo Grande) di Sophie Hyde. Con Emma Thompson, Daryl McCormack, Isabella Laughland e altri. Gran Bretagna 2022 ★+

Insegnante di religione in pensione da poco, Nancy Stokes, non ha mai provato un orgasmo durante la sua vita sessuale, che peraltro coincide con quella matrimoniale: rimasta vedova, si concede finalmente il tentativo di soddisfare le proprie curiosità e fantasie in materia e ingaggia alla bisogna un giovane di bell'aspetto, nome d'arte Leo Grande, tra quelli offerti nel catalogo di un sito per escort maschili. Per l'agognata occasione, guarda un po', si presenta sotto il falso nome di Mrs Robinson (fantasia sfrenata!) Più che di cinema, si tratta in sostanza di una pièce teatrale in quattro atti filmata con la telecamera, fatta apposta per esaltare la bravura di Emma Thompson, sulla quale peraltro non sussisteva dubbio alcuno, e del suo compagno di ventura Daryl McCormack, già visto all'opera nella serie Peaky Blidners, non male forse proprio per la sua faccia da bambolotto, peraltro ideale per un ruolo da toy boy per signora. I primi tre atti coincidono con i tre appuntamenti che hanno luogo in una camera d'albergo con vista su Londra, che vedono Nancy alle prese col proprio imbarazzo nel dichiarare le sue richieste: davanti al ragazzo che fa di tutto per metterla a suo agio e rassicurarla che è lì apposta per renderla felice e che "andrà tutto bene", estrae un foglietto con appuntata una lista di prestazioni, e questo sarebbe il culmine dell'aspetto comico della vicenda. Tutto il resto è consequenziale e fa parte di un copione di una prevedibilità sconcertante: il rapporto che si dovrebbe sostanziare in una prestazione di servizio finalizzata al piacere "senza conseguenze", finisce per travalicarne il senso per avviarsi alla scoperta l'uno dell'altro e della reciproca vera identità, perché è chiaro fin dall'inizio come in Nancy la natura dell'insegnante abbia il sopravvento per cui, prima ancora di chiedersi perché si sia improvvisamente "svegliata" dallo stato di totale ibernazione dei sensi, si incaponisce ad indagare il motivo per cui un giovine così ammodo, sensibile e intelligente si sia messo a fare il puttano, col risultato di metterlo in crisi quando lo costringe a "giustificare" la propria vocazione e, guarda caso, viene in evidenza il ruolo della madre di lui, irlandese e quindi cattolica, che aveva rinnegato il figlio dopo averlo scoperto da adolescente in situazioni ambigue. In sostanza lui si prostituisce perché la mamma non lo capisce e non lo accetta, mentre Nancy, che pure aveva vissuto l'adolescenza negli inquieti e libertari, pure nell'ipocrita  Inghilterra, anni Settanta, era affogata in una vita coniugale di un piattume e di una noia indicibili senza neanche accorgersene, salvo farsi sorgere qualche dubbio all'alba dei sessant'anni, una volta rimasta vedova e madre di un figlio che lei stessa giudica di una noia mortale, manco l'avesse allevato qualcun altro. Il quarto e ultimo atto si svolge al bar dell'albergo, con le vere identità della "strana coppia" reciprocamente disvelate, ed è la chiusa buonista di una pellicola francamente penosa e insulsa, con Nancy che augura a Leo Grande "buona fortuna", come da titolo originale, e questo dopo che una giovane cameriera l'ha pubblicamente riconosciuta e si ricorda bene che era lei, Nancy, insegnante di religione alle superiori, a definire "troie" le ragazze della classe perché indossavano, a suo dire, gonne troppo corte e, insomma, "se la cercavano". Insomma: un colpo alla botte di qua e un altro di là: il punto di vista delle donne, il diritto alla felicità, la sessualità repressa, il bel ragazzo ovviamente meticcio, bono ma con anima, l'incontro tra due solitudini, tanta fuffa e luoghi comuni messi lì manco si stesse parlando dei massimi sistemi però da "fighi", con destrezza e (falsa) disinvoltura, come se il risultato finale non fosse che, in coerenza peraltro con la mentalità utilitarista anglosassone, tutto si riduce a una questione di quattrini, pure il piacere. Il risultato è irritante, un film cretino e raffazzonato, che fa intravedere una profondità che non esiste. La prestazione di una grande attrice come la Thomposon, unica ragione che mi ha motivato di andare a vederlo, non lo salva. 

domenica 27 novembre 2022

L'ombra di Caravaggio

"L'ombra di Caravaggio" di Michele Placido. Con Riccardo Scamarcio, Louis Garrell, Michela Ramazzotti, Isabelle Huppert, Mario Molinari (I), Michele Placido, Vinicio Marchioni, Lolita Chammah, Gianfranco Gallo, Maurizio Donadoni, Brenno Placido, Lea Gavino, Alessandro Haber, Moni Ovadia e altri. Italia 2022 ★★★★-

Genio e sregolatezza, Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio (paese della Bergamasca) ma nato a Milano, giunge a Roma negli anni Novanta del 16° secolo quando la città è il centro ideologico, artistico e culturale della Controriforma, ed è già una sorta di rock star dell'epoca quando viene condannato a morte per l'uccisione del sodale di scorribande e al contempo rivale Ranuccio: chiunque lo incontrasse era autorizzato a decapitarlo e si dà dunque alla fuga, prima a Napoli, sotto la protezione di Costanza Colonna, che lo conosceva ed era sua ammiratrice e amica fin dai tempi milanesi, dove era andata in sposa a uno Sforza prima di rimanere vedova, e poi a Malta dove, sempre su intercessione dei Colonna, venne nominato cavaliere allo scopo di ottenere l'immunità, ma anche qui ebbe le sue rogne, passando quindi in Sicilia. Durante questo suo peregrinare, altri suoi protettori a Roma (oltre alla famiglia Colonna il cardinale Del Monte, ruolo che nel film si è ritagliato il regista Beniamino Placido) si davano da fare per impetrare la grazia da parte del Papa che, a partire dal 1605, fu Camillo Borghese. Qui si innesta la finzione, perché nel film si immagina che il pontefice incaricasse un inquisitore, un misterioso, fanatico e glaciale personaggio conosciuto come l'Ombra, di interrogare chi conosceva e frequentava il Merisi per conoscerne i segreti e l'animo, se le sua arte fuori dagli schemi e i suoi eccessi fossero legati e in che modo e frutto di genio o di follia: con questo artificio i momenti salienti della vita del pittore vengono ripercorsi attraverso i racconti che ne fanno coloro che lo hanno conosciuto e ammirato, a cominciare dai Colonna, soprattutto Costanza (Isabelle Huppert è superlativa nella sua interpretazione), il cardinale Del Monte, perfino Artemisia Gentileschi (qui la giovane Lea Gavino), che già opera nella bottega di suo padre (caravaggesco) e a cui si ispirerà per la sua "Giuditta" (ancora più sanguinaria e vendicativa di quella del Merisi), nonché chi gli fece da modello: i poveracci e le prostitute (segnalo Micaela Ramazzotti nel ruolo di Lena e di Lolita Chammah, peraltro figlia della Huppert, in quello di Anna, le modelle di due delle più celebri celebri Madonne del Caravaggio) ospiti dell'ospedale di Santa Maria in Vallicella, sempre a Roma, fondato da San Filippo Neri, che l'artista frequentava regolarmente per trovare ispirazione perché, sosteneva l'artista, lui dipingeva il vero, non la finzione, o adeguandosi a modelli ideali e astratti. Abbiamo quindi da un lato un riuscito squarcio sulla Roma dell'epoca, grazie a una ricostruzione accurata delle botteghe e degli ambienti frequentati del pittore, e dei personaggio che la popolavano, compreso Giordano Bruno (Gianfranco Gallo: notevole il suo monologo) nei suoi ultimi giorni di vita, durante uno dei frequenti soggiorni in galera del Merisi, col quale aveva in comune lo spirito ribelle e critico verso i dogmi della chiesa ufficiale; e dall'altro, grazie a una fotografia eccellente, una ricostruzione credibile della tecnica pittorica del tutto innovativa del Caravaggio, il gioco di luci e ombre e della prospettiva per cui questo grandissimo pittore è rimasto e rimarrà nella storia e che è il fulcro della sua arte. Un uomo controverso, che riuscirà ad affascinare e ammaliare perfino chi gli era nemico, come il viscido  e conformista Giovanni Baglioni (che ricorda il Salieri nei confronti di Mozart, altro personaggio controverso nella seconda metà del secolo successivo), qui un misurato ed efficace Vinicio Marchioni, e la stessa Ombra, che quando finalmente lo incontrerà di persona, a Porto Ercole, gli chiederà, in cambio della concessione della grazia, di rinunciare alla sua arte: finirà con Caravaggio consegnato alla vendetta del fratello di Ranuccio. Il film, una coproduzione italo-francese, è ben fatto, appassionante, meritevole per quanto un po' didascalico: senz'altro vi si intravede anche la posizione di Placido nei confronti del cinema "ufficiale" e una sua certa immedesimazione nel personaggio, ma anche questo ci sta. Meno l'accento apulo-romanesco di Scamarcio, per il resto non male, in bocca al protagonista: mi chiedo se Placido abbia mai preso in considerazione di proporre un qualche corso di dizione al suo conterraneo, e perché, in sua vece, non abbia scelto un milanese doc come Thomas Trabacchi, o uno che ci va vicino, come Pier Giorgio Bellocchio, a proposito di volti "caravaggeschi". Comunqe merita.

giovedì 24 novembre 2022

Diabolik - Ginko all'attacco!

"Diabolik - Ginko all'attacco!" di Marco e Antonio Manetti. Con Miriam Leone, Valerio Mastandrea, Giacomo Gianniotti, Monica Bellucci, Pier Giorgio Bellocchio, Alessio Lapice, Linda Caridi, Ester Pantano, Andrea Roncato e altri. Italia 2022 ★★★1/2

Secondo episodio (non lo definirei seguito o, come si suol dire, sequel) della trilogia dedicata dai fratelli Manetti al Re del Terrore uscito dalla fervida immaginazione delle mitiche sorelle Giussani (il terzo è stato girato in contemporanea a questo ed è in fase di post-produzione), vede alcune novità rispetto al primo, a cominciare dal personaggio principale, che in realtà è l'Ispettore Ginko, come si evince anche dal titolo. L'altra è l'interprete di Diabolik, l'italo-canadese Giacomo Gianniotti, che ha sì gli occhi glaciali dell'eroe del fumetto e pure le physique du rôle, però è totalmente inespressivo e ha una dizione robotica (sempre meglio della Bellucci, nei panni della duchessa Altea di Vallemberg, la donna amata da Ginko, che risulta inascoltabile ancor più che inguardabile: ha raggiunto inarrivabili cime abissali di incapacità). Come notava l'amica con cui ho visto il film, senza tuta e senza maschera non lo si vede quasi mai, a differenza di Luca Marinelli nel film precedente, forse perché da bravo criminale è il caso che si faccia notare il meno possibile con il suo vero volto. Però incombe. Soprattutto nella mente dell'ispettore Ginko, per cui è diventato una vera e propria ossessione, e che qui organizza una trappola per far cadere nella sua rete l'eterno avversario. Come nel caso del Diabolik uscito un anno fa, evito di parlare della trama, se non per dire che la storia è tratta dal 16° albo del fumetto, uscito nel 1964, il primo in cui compare Altea (e così abbiamo il lato privato di entrambi i contendenti), e che il poliziotto si lascia convincere che Eva Kant (una sempre impeccabile e splendida Miriam Leone) per vendetta nei confronti di Lui, il quale preferisce fare il colpo invece di portarla in vacanza come una qualsiasi sciurèta, si presti a collaborare alla cattura dell'uomo in tuta nera, soffermandomi invece sulle differenze, abbastanza notevoli, tra i due episodi. Paradossalmente, anche se in questo film c'è molta più azione rispetto al primo, oltre all'uso di tutta una serie di mirabolanti invenzioni create dal criminale, che ricordano quelle che uscivano dai laboratori dell'MI5 nei film di James Bond, a cui comunque i due registi si richiamano anche per le scelte musicali (potente la colonna sonora, e c'è anche un balletto molto anni Sessanta, in cui sembra di essere tra Studio Uno e Canzonissima), l'aspetto fumettistico è ancora più marcato: gli interpreti parlano "come un libro stampato", in questo caso una storia illustrata, per l'appunto, in maniera estremamente didascalica. Oltre all'entrata in scena di Altea, attraverso cui si approfondisce il lato umano, oltre che professionale, dello sfigatissimo ispettore, c'è maggiore spazio anche per altri personaggi secondari, a cominciare dal sergente Palmer (Pier Giorgio Bellocchio), l'agente Roller (Alessio Lapice) e la poliziotta Elena Vanel (Linda Caridi), che alla fine è quella che va più vicina alla cattura del criminale ma che viene miracolosamente graziata dai registi, perché il pugnale che le lancia (lo swisss di antica memoria) non la colpisce dalla parte della lama ma dell'impugnatura e questo è un falso storico: Diabolik, quello vero, non l'avrebbe certo risparmiata! In compenso i Manetti avrebbero potuto risparmiarci la sofferenza di patire l'interpretazione, si fa per dire, della Bellucci: rimane il mistero di capire se la sua scelta sia stata voluta proprio perché Altea è un personaggio vuoto o per pietà. Per il resto, tutto bene, un'ora e 50' di divertimento assicurato, e un prodotto confezionato in maniera eccellente, però il primo film mi era piaciuto di più.

martedì 22 novembre 2022

Princess

"Princess" di Roberto De Paolis. Con Kevin Glory, Lino Musella, Sandra Osagie, Maurizio Lombardi, Salvatore Striano e altri. Italia 2022 ★★1/2

Secondo lungometraggio di Roberto De Paolis dopo il positivo esordio, cinque anni fa, con Cuori puri, che racconta, visto dall’interno, il mondo della prostituzione delle ragazze nigeriane che prospera da decenni ai margini delle città italiane, sconosciuto non solo per mancanza di interesse ("si arrangino tra loro" è la reazione comune) ma perché pressoché impenetrabile, anche a causa della cultura del tutto estranea di queste giovani donne, ricattate dalle “maman” e protettrici al servizio della potente mafia locale fin dall’arruolamento nel loro Paese e poi spedite in Italia (e nel resto d’Europa) a prostituirsi nell’illusione di potersi pagare un giorno il “riscatto”. Un’esistenza fatta di miseria, pericoli, umiliazioni, ma anche di cameratismo, gelosie, invidie tra poveracce, dove tutto, sentimenti compresi, è ridotto a merce e, dunque, a denaro: sono le stesse famiglie d’origine, oltre a chi le ha sequestrate, a reclamarlo, ossessionate come sono dal consumo e del tutto indifferenti alla vite che sono costrette a condurre le loro figlie o sorelle. Tra queste la diciannovenne Princess, nomignolo con cui è nota tra le colleghe, che a ogni prestazione con un nuovo cliente cambia il proprio “nome d’arte” con una sistematicità tale da avere perfino dimenticato quello proprio di battesimo. Una ragazza che riesce ad affrontare lo squallore del suo mestiere perché vive in totale separazione dal suo corpo: non è il suo, quello che offre ai desideri dei clienti, ma quello di una donna rimasta in Africa, a cui una qualche "curandera" le ha assicurato di aver trasferito gli eventuali dolori subiti mentre lavora. Insomma, una favola che racconta a sé stessa questo che è il personaggio principale che, francamente, non suscita alcuna empatia, chiusa com'è in un circolo di superstizione, cinismo, autoassoluzione, incapace di vedere qualcosa al di fuori del denaro anche quando le si presenta l'occasione di essere sé stessa invece della maschera (con parrucca e nome diverso a ogni occasione) con cui lavora, in seguito all'incontro con Corrado, un sempre misurato ed efficacissimo Lino Musella, uomo che conosce casualmente nel bosco dove "esercita" e che non è interessato alle sue prestazioni ma a lei come persona. Da quel che risulta, il regista romano si è immerso nell'ambiente, la boscaglia alle spalle di Ostia verso la capitale, collaborando con ragazze nigeriane vittime di quella che è una vera e propria tratta di esseri umani, che hanno accettato di interpretare sé stesse, per cui il ritratto che fa della loro esistenza è del tutto veritiero: non giudica, e di questo bisogna essergli grati, né è pietistico e penosamente "buonista" nel ritrarre quest'umanità derelitta, ma il film non convince del tutto, a meno di non volerlo considerare una sorta di documentario o saggio. E, anche in questo caso, lo trovo carente. La reazione, davanti agli atteggiamenti di queste ragazze, e di Princess in particolare, che viene istintiva è di dire: sono vittime, senz'altro, ma ci mettono del loro ad accettare la logica che le ha fregate e, anzi, a perpetrarla. Non credo che fosse questo l'intento del buon De Paoli, ma il risultato, per quel che mi riguarda, è alquanto respingente e non dispone in senso positivo. Lo spettatore è costretto a prendere atto di un'ulteriore situazione che testimonia che l'umanità non ha vie d'uscita finché non prende coscienza di essere essa stessa una semplice merce e che l'unico valore è il dannato denaro. Se è questo il risultato che De Paoli voleva ottenere, ebbene: lo sapevamo già da un pezzo. 

domenica 20 novembre 2022

La stranezza

"La stranezza" di Roberto Andò. Con Toni Servillo, Salvatore Ficarra, Valentino Picone, Giulia Andò, Rosario Lisma, Donatella Finocchiaro, Galatea Ranzi, Fausto Russo Alesi, Filippo Luna, Renato Carpentieri, Luigi Lo Cascio, Tuccio Musumeci, Paolo Briguglia, Tiziana Lodato e altri. Italia 2022 ★★★★★

Un film bellissimo, esemplare, imperdibile per chi ama il teatro (oltre che il cinema): con l'intelligenza, garbo, profondità e insieme lievità che ne contraddistigono l'opera, non stupisce che a dirigerlo e curarne la sceneggiatura (assieme a Ugo Chiti e Massimo Gaudioso) sia Roberto Andò, uomo di cultura a tutto tondo, innanzitutto di lettere e di teatro, che però anche dietro la macchina da presa è stato in grado di esprimersi al meglio, e lo dimostra a ogni suo nuovo lavoro. Qui racconta la gestazione di uno dei capolavori di Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca di autore, che nasce in un momento di crisi creativa del grande drammaturgo, dovuto anche a cause personali (la pazzia della moglie, il gilgio ferito gravemente durante la Grade Guerra): siamo nel 1920 e Pirandello, tornato in Sicilia in occasione dell'ottantesimo compleanno di un altro grande letterato, Giovanni Verga (prezioso il cammeo di Renato Carpentieri nelle vesti del  maestro del verismo), passa per la natìa Girgenti (vecchia denominazione di Agrigento) dove è morta la sua balia e, volendosi personalmente occupare delle esequie, si imbatte in una coppia di becchini, a cui affida l'incarico: Nofrio e Bastiano, magnficamente interpretati rispettivamente da Salvo Picarra e Valentino Picone, che sono anche  animatori della filodrammatica locale ("dilettanti professionisti", si autodefiniscono) intenti a mettere in scena una tragicommedia, La trincea del rimorso, ovvero Cicciareddu e Pietruzzu, di cui stanno facendo le prove che coinvolgono tutti aspiranti attori della città (e che ne esprimono le diverse anime). E' all'intrecciarsi delle dinamiche che avvengono tra gli interpreti, tra palcoscenico e dietro le quinte, finzione e realtà che assiste Pirandello, discreto spettatore delle prove e poi anche della "prima" dello spettacolo, in incognito, dove esse degenereranno in una rappresentazione dove non ci sarà più distinzione tra quanto avviene sulla scena e in sala, in quanto alcuni spettatori si sentiranno presi di mira ed esposti al pubblico ludibrio dagli attori e alcuni di essi, a loro volta, impegnati a regolare delle questioni in sospeso tra di loro, questioni che hanno a che vedere anche con l'onore di Nofrio, gelosissimo della sorella Santina, la sarta della compagnia (e interpretata sontuosamente dalla figlia di Roberto Andò, Giulia), di cui viene a scoprire la tresca con l'amico di sempre e collega, sia sul lavoro sia nella comune passione per il teatro, Bastiano. Si scatena dunque il caos così come sarebbe accaduto, un anno dopo circa, nel 1921, al Teatro Valle di Roma al debutto di quella che è l'opera più famosa di Pirandello, dove si giunse allo scontro fisico tra sostenitori e haters, come si direbbe oggi, dell'autore di quella trilogia di "teatro nel teatro" che comprende, oltre ai Sei personaggi, anche Stasera si recita a soggetto e Ciascuno a suo modo, in cui Pirandello esprime nel modo più compiuto il suo pensiero, o meglio le sue riflessioni, sul rapporto non solo tra verità e inganno, vizi e virtù, la complessità e doppiezza della vita in tutte le sue manifestazioni, ma anche tra autore e attore, pubblico e interpreti, tutti aspetti e manifestazioni di un'esistenza variegata, che cambia senso a seconda dei diversi punti di vista; vita che è teatro e teatro che è vita, per l'appunto. Magistrale, come ci si poteva aspettare da un autentico prodigio, l'interpretazione di Toni Servillo nei panni di un Pirandello misurato, essenziale, questi timido e sotto tono, che tende a sottrarsi, l'esatto opposto di quello straripante Eduardo Scarpetta a cui diede vita in quel Qui rido io di Mario Martone, altra pellicola di grandissimo spessore sul teatro in generale e italiano in particolare e un altro dei suoi personaggi fondamentali, di cui La stranezza è praticamente gemello e di cui condivide l'altissima qualità: attori, fotografia, ambientazione, ritmo, misura e al contempo intensità sono encomiabili. Un film rigoroso, sottile, elegante, di grande equilibrio, di altissima qualità, da non perdere. 

venerdì 18 novembre 2022

Boiling Point - Il disastro è servito

"Boiling Point - Il disastro è servito" di Philip Barantini. Con Stephen Graham, Vinette Robinson, Jason Flemyng, Ray Panthaki, Hannah Walters, Malachi Kirby, Alice Feetham, Laureen Ajufo e altri. Gran Bretagna 2021 ★★★★

Escludo che il film sia stato girato in un unico piano sequenza, come pure qualcuno ha affermato, però senz'altro l'effetto (notevole per la sensazione di immersione nella realtà che procura allo spettatore) è quello e il racconto si svolge in un'unica unità temporale: quella di una serata da incubo in un ristorante londinese alla moda, che inizia con l'arrivo, "puntualmente" in ritardo, dello chef, Andy, da qualche tempo alle prese con la separazione dalla moglie e che cerca disperatamente di mantenere un rapporto con il figlio piccolo, che sta forzatamente trascurando. Un incubo per tutti, personale di sala, diretto dalla figlia del proprietario, Beth, velleitaria quanto inetta, per non parlare di quello di cucina, dove la vice di Andy, Carly, tiene botta e copre Andy quando è alle prese con i suoi problemi privati o con le PR che deve intrattenere con i clienti di riguardo (proprio quella sera capita al ristorante l'odioso Alastair Skye, per cui un tempo lavorava, e ora star televisiva, che si è portato appresso una temuta quanto supponente critica gastronomica). In poche parole, tutto quello che può andare storto in un ristorante succede, secondo il copione della inesorabile Legge di Murphy, in questa terrificante serata prenatalizia, col locale affollato da una fauna altrettanto variegata come quella dietro al bancone del bar e nei meandri della cucina. Nell'elenco dei disastri che possono accadere, non manca quasi nulla: quando Andy arriva, trafelato, al locale, vi trova la visita di un ispettore dell'ufficio d'igiene che lo declassa per alcune magagne riscontrate; Carly gli comunica che ha ricevuto un'offerta di lavoro vantaggiosa che sta prendendo in considerazione visto che Beth, la manager, non ha ancora dato risposta a una richiesta di aumento di stipendio da parte dello staff; in cucina mancano alcuni ingredienti e fretta e rimedi improvvisati peggioreranno la situazione; lo chef si destreggia tra Skye, la cooking star televisiva, che lo ricatta perché a sua volta nei guai ma suo creditore perché gli ha prestato 200 mila sterline per aprire il ristorante; Freeman, il rotissier, accusa Andy apertamente di essere alcolizzato, di non aver licenziato uno sguattero lavativo perché lo rifornisce di cocaina e responsabile di tutto quel che non va; il punto di ebollizione (da cui il titolo) raggiunge il suo culmine quando una cliente finisce in shock anafilattico a causa di un'allergene di cui Beth era stata preventivamente informata al momento dell'ordinazione ma non correttamente inoltrato in cucina, insomma il cataclisma perfetto: non entro nei particolari, ma non finisce bene per il nostro eroe, lo chef Andy, uno strepitoso Stephen Graham, un grande attore, fin qui utilizzato pressoché soltanto come caratterista ma sempre autore di prestazioni eccellenti, che meriterebbe maggiori opportunità e ruoli più variati. Proprio alcuni giorni fa parlavo del mondo della ristorazione e dei suoi ritmi massacranti con un mio amico che vi lavorava negli anni Ottanta proprio a Londra, e altri ne ho attivi in quell'ambiente: Philip Barantini apre uno squarcio non convenzionale su di esso ma anche sulla clientela di un certo tipo di ristoranti e in generale di quella attuale (il tavolo degli influencer è un piccolo e memorabile saggio sull'imbecillità e la miseria umana di certi personaggi), specchio, del resto, dei tempi che viviamo; al contempo mette in scena un vero e proprio thriller dove protagonista non è la haute cuisine e le sue creazioni bensì i rapporti umani, di cui il nevrotico mondo della ristorazione è solo un aspetto; al contempo il regista fa in modo che nessuno dei personaggi cannibalizzi l'altro: il film è, in tutti i sensi, corale, e l'amalgama tra di essi perfettamente riuscito, bravo quindi sia il responsabile del casting, sia chi ha diretto un'intera brigata di attori così come un bravo chef dirige quella dei suoi collaboratori. Un esperimento davvero riuscito, senz'altro meglio della cena prenatalizia Chez Andy...

martedì 15 novembre 2022

Alla greca


"Alla greca" di Steven Berkoff. Traduzione di Carlotta Clerici e Giuseppe Manfridi; regìa di Elio De Capitani. Con Elio De Capitani, Crisitina Crippa, Sara Borsarelli, Marco Bonadei. Costumi di Andrea Taddei; scene di Thalia Istikopoulo, riprogettate e realizzate da Roberta Monopoli. Musiche di Mario Arcari eseguite dal vivo da Mario Arcari e Tommaso Frigerio; luci di Nando Frigerio; suono di Marco Sorasio; assistente ai costumi Elena Rossi. Produzione Teatro dell'Elfo e Campania Teatro Festival. Al Teatro Elfo/Puccini di Milano fino al 13 novembre 2022

All'ultimo respiro ce l'ho fatta: l'ultima replica di uno spettacolo che l'Elfo aveva proposto trent'anni fa, durante la stagione 1992/93, sempre per la regìa di Elio De Capitani, che domenica, emozionato, ha ricordato Gigi Dall'Aglio e Tania Rocchetta, scomparsi negli ultimi anni i quali, in quell'edizione, interpretarono il ruolo dei genitori di Eddy (Edipo: si tratta di una rilettura in chiave attuale della tragedia di Sofocle da parte del drammaturgo inglese Steven Berkoff) in cui ora si sono cimentati lo stesso De Capitani e sua moglie Cristina Crippa, che allora aveva dato vita alla madre e moglie di Edipo. Nei panni di quest'ultimo un Marco Bonadei estremamente fisico, nella parte che fu di Ferdinando Bruni: e il cerchio elfistico si chiude. Berkoff aveva riproposto il mito di Edipo ambientandolo nei bassifondi della Londra post-punk degli anni Ottanta, quelli della Thatcher e dell'avvio della trasformazione in senso sfrenatamente liberista e individualista della società, e il giovane Eddy è il prototipo dell'adolescente furioso e nichilista, che rifiuta lo squallore dell'ambiente in cui si adagia la sua famiglia di origine, composta dal classico trio padre-madre-sorella, un mondo sordido di vecchi ubriaconi da pub, hooligan scozzesi, terroristi irlandesi, contro cui si scaglia con un'intemerata memorabile fatta di improperi, insulti, volgarità e di una violenza inaudita, cui dà corpo Marco Bonadei con una prestazione muscolare e vocale degna di nota; e vuole uscire con tutte le sue forze da un destino altrimenti segnato, supportato anche da uno strana profezia che uno zingaro fa a suo padre, trovando la sua "strada" proprio in un pub, dove reagisce alle provocazioni di un gestore nazista ingaggiando con lui un duello verbale che tramortisce il rivale, perché anche le parole uccidono... in maniera contundente. Con la sua loquela immaginifica e allucinata riesce a sedurre anche la moglie del defunto barista (l'ottima Sara Borsarelli) che, più che addolorata per la morte del marito, vive nel rimpianto di un figlio svanito e mai più ritrovato, in una intensa e provocatoria schermaglia erotica e soprattutto oratoria, conquistandola. La scena si svolge su tre livelli: in alto Mario Arcari, che ha composto le musiche e che le esegue assieme a Tommaso Frigerio, contrappunto al cabaret che si svolge sul piano intermedio, con i personaggi che ingaggiano grotteschi siparietti dialettici, andando avanti e indietro con carrelli da supermercato e dondolandosi su una sbarra metallica sospesa; più in basso ancora una distesa di ghiaia (in origine ricordo che la scena di Thalia Istikopoulo prevedesse un tappeto di frammenti di vetro). Nel secondo atto troviamo ritroviamo la coppia, una decina di anni più tardi, siamo negli anni Novanta di blairiana memoria, baciata dal successo: hanno aperto una catena di fast food, sono ricchi sfondati, la vecchia Londra è sparita, e su insistenza della moglie Eddy contatta i suoi genitori che non vede da quando ha lasciato casa, che però scopre non essere quelli naturali ma adottivi ma ora si sente abbastanza forte da affrontare, come da profezia, la Sfinge, una Cristina Crippa che qui si sdoppia nel ruolo di femminista incazzata che non solo gli vomita addosso tutto il disprezzo per il suo rozzo maschilismo ma anche la verità sulla sue origini: è lui il figlio che sua moglie aveva perso, in sostanza il suo matrimonio è frutto di un incesto. A differenza di Edipo, però, Eddy nonostante sia sconvolto dalla rivelazione, viene a patti con il tabù e l'accetta: al grande "amore", quando capita, non si rinuncia, non ci sono limiti che possano frapporsi e gli scrupoli morali, al giorno d'oggi, sono superflui. Nella perfetta logica amorale e utilitaristica che, profeticamente, Berkoff aveva visto nascere e che abbiamo visto trionfare al giorno d'oggi. Grande spettacolo, disturbante, coinvolgente, vivo, quattro attori che dominano la scena e, quando sono presenti in simultanea, sembrano il doppio. Grazie, elfi!

domenica 13 novembre 2022

War - La guerra desiderata

"War - La guerra desiderata" di Gianni Zanasi. Con Edoardo Leo, Miriam Leone, Giuseppe Battiston, Stefano Fresi, Carlotta Natoli, Antonella Attili, Paolo Briguglia, Simone Guarany, Bruno Todeschini, Anna Moulalis, Lorena Cesarini, Massimo Popolizio, Teco Celio, Barbara Alberti, Marco Tè e altri. Italia 2022 ★★★★1/2 

Gianni Zanasi sa fare cinema, ha buona idee ma finora non si era, a mio parere, ancora espresso al meglio: con War ha fatto centro, checché ne pensi la critica militonta e prevenuta. E non perché sia un veggente, dato che il film, scritto nel 2019, prima del Covid, ipotizza lo scoppio di una guerra nel cuore dell'Europa, ben prima del conflitto tra Russia e Ucraina, però tra Italia e Spagna (supportata dalla Francia). La causa scatenante che innesca una crisi diplomatica inarrestabile è l'uccisione di una ragazza italiana a Roma da parte di un gruppetto di giovani turisti spagnoli in preda a stupefacenti che si sente provocato da coetanei italiani. Mentre nessuno sembra in grado di frenare l'escalation, né i media, che si limitano a raccontarla come se fosse inevitabile, pura cronaca; né i politici e i governi, pronti a soffiare sul fuoco pur di trarne un momentaneo vantaggio nei sondaggi e per deviare l'attenzione dalla crisi economica e il malessere sociale causati da loro stessi a livello continentale e che non sono stati in grado di vedere e fermare negli ultimi vent'anni almeno (le tensioni tra i governi italiano e francese in atto in questi giorni sulla vicenda dei naufraghi e rifugiati è sintomatica di questo andazzo), la verità è che lo scivolamento in uno stato di guerra non solo viene subìto, ma pare pure essere voluto, come rivalsa o sfogo, da parte di una popolazione sempre più arrabbiata, frustrata, impotente, pronta a espoldere: una valvola di sfogo. In questa situazione che degenera man mano, scivolando quasi senza scosse da uno stato di normalità a quello belligerante (quanto sia facile il passaggio, lo dimostrano il clima degli anni Trenta, o anche quello di Sarajevo pochi giorni prima dello scoppio del conflitto che sconvolse la Bosnia nemmeno 30 anni fa), si trovano tre personaggi emblematici: Tom (Edoardo Leo, perfetto nella parte), laureato in lettere romanze ma suo malgrado allevatore di vongole per portare avanti la ditta del fratello, che giace in ospedale in coma farmacologico dopo un tentativo di suicidio, alle prese con i deliranti iter burocratici per ottenere la certificazione di qualità per i suoi prodotti; Lea (Miriam Leone, sempre più brava), una psicoterapeuta di una ASL con cui entra in contatto per riavere la patente che gli è stata ritirata, a sua volta figlia di un ex generale dell'aeronautica e attuale sottosegretario alla Difesa, con cui ha un rapporto difficile, data la sua indole pacifista; infine Mauro, un grandissimo Giuseppe Battiston, gestore di una birreria e amico di Tom, che sfrutta l'occasione per rifarsi e mette in piedi una banda di paramilitari per conto di un ex capitano paranoico in cui recluta il recalcitrante allevatore di molluschi. Non sto qui a svelare la trama, mi limito a dire che benché vesta i panni della commedia, con battute solo apparentemente ironiche, il film è in realtà drammaticamente veritiero perché sviscera il potenziale di violenza a cui possono condurre rimbecillimento, frustrazione, intolleranza che cova, ma soprattutto spirito di rivalsa. In questo senso, il personaggio più illuminante, e gli dà sostanza Battiston, è Mauro, e sue due frasi emblematiche: "ecco come ci hanno ridotti 70 anni di pace" (che sento sempre più spesso pronunciare in giro nella realtà) e quella rivolta a un africano, legato a un bidone, a cui da ubriaco è in procinto di dare fuoco: "non ti brucio perché sei nero, niente di personale: ma per come hanno bruciato me". Quando si va avanti, sistematicamente, a togliere speranze e futuro, sorvolando sul proprio passato, a questo si arriva. Altro che Zanasi visionario e aruspice: essendo intelligente e avendo coraggio oltre che spirito d'artista e di osservazione, si è limitato a prendere atto della realtà e descriverne le derive possibili e, a questo punto, persino probabili. Che possono sfuggire a qualsiasi controllo e logica, e che solo delle combinazioni fortuite possono fermare, in questo caso un rapimento (e un tradimento) orchestrato da Lea , che coinvolge anche Tom e, in parte, Mauro. Bravo il regista anche a rendere visivamente l'atmosfera: la Roma che scivola man mano sotto il controllo dei militari, con blindati che prendono via via posto delle camionette, accampamenti nei parchi e nelle piazze, aerei da caccia che sorvolano la città a bassa quota convive con quella in preda al turismo di massa di tutti i giorni, coi suoi  bus scoperti per i tour nella città, le guide con l'ombrellino; e anche con quella dei ministeri, dei palazzi del potere, delle auto blu e financo dei sempiterni "salotti". Un film riuscito alla perfezione, emozionante, coinvolgente, a tratti angosciante, 130' che volano via. Bravissimi tutti gli interpreti e chi li ha diretti, ma soprattutto i tre sopra citati. Il confronto con il recente La siccità, sempre ambientato in una Roma distopica, è impietoso, e se a quello avevo assegnato, generosamente, ★★+ qui devo come minimo raddoppiare. 

giovedì 10 novembre 2022

Amsterdam

"Amsterdam" di David O. Russell. Con Christian Bale, Margot Robbie, John David Washington, Chris Rock, Anya Taylor-Joy, Zoe Saldana, Mike Myers, Michael Shannon (II), Robert De Niro, Timothy Olyphant, Rami Malek, Andrea Riseborough, Matthias Schoenaerts, Alessandro Nivola, Taylor Swift e altri. USA 2022 ★★★1/2

Commedia a suo modo romantica, che racconta la storia di una solida amicizia a tre con aspetti sentimentali (il pensiero corre immediatamente a Jules et Jim di François Truffaut), nata nei campi di battaglia della Grande Guerra e consolidatasi in un ospedale militare francese tra due soldati americani e un'infermiera, pura opera di fantasia, come i suoi personaggi, inserendola in un contesto che fa riferimento a una vicenda reale, quella del cosiddetto Business Plot, un tentativo di colpo di Stato sui generis per deporre o quantomeno condizionare Franklin Delano Roosevelt, il presidente che aveva appena avviato il New Deal per superare la Grande Depressione seguita alla crisi del 1929, da parte di un gruppo di finanzieri e imprenditori che faceva capo all'American League che aveva stretti legami con il fascismo italiano e il movimento nazionalsocialista tedesco e ne voleva imitare i metodi, facendo leva sul risentimento dei veterani di guerra, la loro frustrazione e le loro rivendicazioni. Siamo nel 1933 a New York quando viene ritrovato cadavere il generale Meekins e Burt (Christian Bale. sempre un portento), ex tenente medico e Harold, (Washington: forse il personaggio meno convincente) commilitoni sotto il suo comando, avvocato, conosciutisi sotto il suo comando e che collaborano aiutando i reduci, vengono ingaggiati dalla figlia del militare, che dubita che il suo decesso sia avvenuto per cause naturali e viene uccisa a sua volta: sospettati della morte della donna vengono proprio i nostri due eroi, presenti sul posto. Nel tentativo di appurare la verità sulla morte di Meekins padre (avvelenamento) e figlia (un'impiccio imprevisto per gli autori del primo delitto, ossia i cospiratori) ritrovano dalla loro parte Valérie (Margot Robbie: brava, simpatica e bella), l'infermiera che li aveva curati in Europa e con cui avevano trascorso un periodo di sfrenata vitalità nel primo dopoguerra ad Amsterdam, grande amore di Harold e di cui avevano perso le tracce: entrambi non sapevano che appartenesse alla facoltosa e potente famiglia Voze, a cui si sono dovuti rivolgere perché garantisse della loro innocenza nel caso della morte della figlia del generale. In realtà Valérie, artista e "pecora nera" della potente famiglia, è tenuta quasi prigioniera dal fratello e dalla odiosa cognata, fatta passare per squilibrata e sedata con psicofarmaci, ma il patto a tre tornerà in auge e il complotto verrà sventato grazie all'appoggio di Dillenbeck (Robert De Niro: non occorre aggiungere altro), che nella realtà si chiamava Butler e che perorava a sua voltala causa dei reduci di guerra, il quale finge di accettare una mazzetta dagli organizzatori del Business Plot e di aderirvi allo scopo, invece, di smascherarli. E' stato detto che il film soffre di un certo dogmatismo, ed è vero che l'ammonimento a "stare all'occhio" è ripetuto a ogni occasione, del resto guardandosi attorno (negli USA con l'assalto al Campidoglio nel gennaio dell'anno scorso, dopo la sconfitta di Trump; qui in Europa in vari Paesi, da ultimo anche in Italia), ma ci sta, soprattutto quando è inserito in un racconto gradevole e ironico, nello stile di Russell, i cui film a volte raggiungono vertici assoluti come nel caso di American Hustle, altre risultati a mio parere più modesti come fu per Joy, oppure si collocano a metà strada ma ampiamente in fascia positiva: Il lato positivo e, in questo caso, Amsterdam. Ma non sono mai banali e le parole, e ne scorrono molte: la verbosità può essere un limite, nemmeno, se vi si presta la dovuta attenzione. Il regista è sempre in grado di affrontare temi seri col sorriso sulle labbra, ricorrendo a favole e miscelando ogni genere: il suo modo di fare cinema può ricordare quello di Wes Anderson, a cui è peraltro legato da una solida amicizia, senza però utilizzare ibridazioni con mezzi diversi dalla macchina da presa. Ambientazione accurata, fotografia ineccepibile, un cast di prim'ordine e una colonna sonora di qualità contribuiscono comunque a farne un film molto piacevole. 

domenica 6 novembre 2022

Il Presidente

"Il Presidente" (La Cordillera) di Santiago Mitre. Con Ricardo Darín, Erica Rivas, Dolores Fonzi, Elena Anaya, Daniel Giménez Castro, Alfredo Castro, Gerardo Romano, Paulina García, Christian Slater e altri. Argentina, Francia, Spagna 2017 ★★★★1/2

Tocca essere grati all'esistenza delle piattaforme streaming, in questo caso Prime Video, perché spesso consentono di recuperare film che non sono usciti in sala in Italia oppure vi sono apparsi come meteore: è il caso de Il Presidente di Santiago Mitre, uscito nei cinema italiani fugacemente nell'autunno del 2018 dopo essere stato selezionato al Torino Film Festival dell'anno precedente, capitatomi sott'occhio dopo aver cercato Argentina, 1985; stessa sorte per il suo lungometraggio d'esordio, El estudiante, intercettato per puro caso, mentre non mi sembra per ora reperibile La patota del 2015. Come in Argentina, 1985, Mitre può avvalersi della straordinaria prestazione di Ricardo Darín, che qui è nella parte del neo presidente argentino Hernán Blanco il quale partecipa al suo primo summit di capi di Stato latinoamericani, cruciale per dare vita a una sorta di OPEC e quindi per il futuro energetico della della regione, in cui è in discussione il fatto che ne facciano parte gli USA, e in particolare le loro imprese energetiche private, e gli altri Stati loro satelliti dell'America Centrale. Arrivato alla massima carica come "uomo comune", già sindaco di Santa Rosa, capitale della Provincia di La Pampa, una realtà piuttosto marginale nel Paese, giocando anche sul suo cognome (Blanco: un uomo pulito), è in realtà uno sconosciuto nei palazzi del potere di Buenos Aires e ancora di più al cospetto dei suoi più navigati colleghi stranieri, tra cui giganteggia il presidente brasiliano. Già prima della trasferta in un comprensorio sciistico sulle Ande, poco oltre il confine tra Argentina e Cile (si tratta di Valle Nevado, a Sud della più famosa Portillo, a una sessantina di chilometri da Santiago), alla Casa Rosada, ha le sue rogne: il genero, un ricco imprenditore, da cui la figlia Marina vive separata, è sotto inchiesta e minaccia rivelazioni imbarazzanti sui fondi della sua campagna elettorale. Blanco, piuttosto taciturno, quasi imbarazzato, inizialmente appare abbastanza un pesce fuor d'acqua manovrato da consiglieri e, in particolare, dalla sua solerte segretaria e factotum (la bravissima Erica Rivas) ma è solo apparenza, perché in realtà ha le idee chiare e lo dimostrerà in maniera crescente nel corso del vertice, dove chi lo ha sottovalutato, a cominciare dal suo omologo messicano e dagli arroganti alti funzionari USA di cui fa il ventriloquo (il colloquio privato con un alto consigliere statunitense, svolto in inglese, è esemplare e andrebbe rivisto e fatto girare come estratto). Che non sia un burattino cominciano ad accorgersene i sui collaboratori, la giornalista spagnola che lo intervista, e l'uomo acquisisce sicurezza nonostante i suoi problemi privati lo seguano e raggiungano  fino al lussuoso complesso dove è ospitato il summit: oltre ad avere lui stesso lati oscuri come una relazione segreta con la moglie dell'ambasciatore che ha appena nominato, da Buenos Aires giunge anche Marina, afflitta da problemi psichici non indifferenti, dalla cui memoria affiorano fatti che comprometterebbero l'immagine di Blanco se fossero veri e non solo frutto di una mente malata: per capire l'entità del malessere e tenerlo sotto controllo, giunge perfino un famoso psichiatra che sottopone Marina ad ipnosi. Il film, dunque, scorre su un doppio binario: i retroscena del potere, che Mitre rende anche in questa occasione con grande precisione e credibilità, e la sottile linea tra verità e menzogna, sincerità e manipolazione, realtà e immaginazione che domina sia le vicende private dei protagonisti, sia la loro dimensione pubblica e le relazioni tra i massimi esponenti dei rispettivi Stati. Un film a tratti cupo, con tratti noir, in cui la tensione è palpabile e vibra sotto traccia, pronta a esplodere: aiuta in questo anche l'ambientazione in un luogo isolato e in una location che ha un che di inquietante (qualcuno ha ricordato Shining), a tremila metri d'altezza sulla Ande, in un'atmosfera rarefatta ma al contempo densa, minacciosa; cose dette a metà, accenni ambigui o per sottintesi, come del resto tipico nelle alte sfere del potere. Un film efficace e molto argentino, nella miglior tradizione di una cinematografia troppo poco conosciuta rispetto a quello che meriterebbe.