venerdì 30 dicembre 2022

The Fabelmans

“The Fabelmans” di Steven Spielberg. Con Michelle Williams, Paul Dano, Gabriel LaBelle, Seth Rogen, Judd Hirsch, Julia Butters, Keeley Karsten, Cole Est, Oakes Fegley, Sam Rechner, Jeannie Berlin, Tina Schildkraut, David Lynch e altri. USA 2022 1/2

Peggio di quel che temessi: mi aspettavo la consueta celebrazione nostalgica dei Mitici Fifties Made in USA e mi sono ritrovato con l’autocelebrazione solipsistica di Steven Spielberg. Palesemente autobiografico, nelle intenzioni dell’autore il sottotitolo implicito suona come “Vocazione e formazione dell’Artista”, il risultato per lo spettatore più scettico si traduce in “Come sono diventato un cinematografaro”. Di ottimo livello e grandi capacità tecniche e commerciali (fin dagli esordi i suoi film sono stati campioni di incassi), ma dove di spontaneo e di autentico c’è poco o niente. C’è una sola scena, peraltro rivelatrice, verso la fine, quella di una pellicola girata in occasione della conclusione dell’ultimo anno di scuola superiore, il 1964, che sembra (involontariamente) sincera: quella in cui il giovane Sam Fabelman (l'alter ego di Spielberg nel film) dipinge Logan, il rivale che l’ha sempre “bullizzato” fin da quando era approdato in quell’istituto californiano, come una sorta di eroe ariano, oltre che il bello della High School, e il protagonista non si capacita di ciò, chiedendogli perché l’abbia descritto per quello che non è e non potrà mai essere nonostante tutti i torti che ha subito da lui, e l’aspirante artista, a diciotto anni già così pieno di sé e convinto di essere stato toccato dalla Grazia, gli risponde, in sostanza, che è questa la magia del cinema, il potere del regista: compiacere e manipolare lo spettatore, puntando sul suo lato debole, ossia l’impressionabilità, i buoni sentimenti e il senso di colpa, capacità che Spielberg senza dubbio possiede e avrebbe sistematicamente sfruttato per tutta la sua carriera, giocando, come si suol dire, sporco. Per come l’ho percepito io, controluce emerge il ritratto di una persona meschina, che non lascia mai trasparire come la pensa davvero e non prende mai una posizione decisa; pavida, opportunista, in fondo, cattiva e vendicativa: l’esatto contrario del buonismo melenso che permea tutta la sua filmografia. In poche parole, The Fabelmans ripercorre l'infanzia, l'adolescenza e la prima giovinezza del Prodigio, dal primo film che ha visto, a 6 anni, ai primi che ha girato, da dilettante (i fondi non gli sono mai mancati, grazie alla generosità del padre, ingegnere di successo che non mancava certo di mezzi), all'incontro niente meno che con John Ford (il cameo di David Lynch, a differenza di Spielberg un artista a tutto tondo, che lo interpreta è una delle cose migliori di una pellicola insopportabilmente prolissa e noiosa), insomma la formazione del Giovane Genio, e le vicende della sua famiglia, coi suoi spostamenti dal New Jersey all'Arizona alla California, e ai traumi inenarrabili che avrebbe subito a causa della separazione dei suoi genitori (il padre un informatico di valore, la madre una pianista e ballerina che ha rinunciato alla carriera per tirare su il viziatissimo Sam e le tre sorelle), con l'inevitabile contorno, trattandosi di una famiglia ebraica, di festività come Hanukkah, nonne invadenti, zii pazzi e folkloristici, fiducia messianica nella psichiatria, una buona dose di vittimismo e, al contempo, un'esibizione di superiorità e diversità fastidiosa; in compenso, e stranamente, senso dell'umorismo, insomma del witz, quasi inesistente. Insomma un mondo a parte, quello della benpensante e conformista borghesia ebrea-americana, dove tutto è correttezza e deve svolgersi secondo binari prefissati, la rottura dell'armonia (la relazione della madre con l'amico di famiglia Benny scoperta, guarda caso, dal giovane Sammy montando un filmino di una vacanza al campeggio) una tragedia, come se non fossero cose che capitano a centinaia di milioni di persone, ma se succedono a Lui, Spielberg, allora diventano montagne insuperabili ed Eventi spaventosi che-segnano-una vita. Ovviamente in tutto il film e attraversando tre Stati nell'arco di 20 anni non si incontra nemmeno una persona di colore e a malapena si intravvede un italiano e un ispanico: miracolo. Insomma, il Paese reale, come qualsiasi cosa non riguardi l'Autore e il suo ego ipertrofico, non esiste o non ha importanza. Aggiungiamo lo schematismo, il moralismo pervasivo, la pedanteria delle descrizioni, veri e propri "spiegoni" su ogni quisquilia, la puerilità del tutto, a metà della proiezione ero stato tentato di lasciare la sala per andare a bermi un paio di birre, ma alla fine ho resistito fino alla fine per vedere dove andava a parare e a qualcosa è servito: dopo anni ho capito perché i film di Spielberg non mi abbiano mai convinto, per quanto spettacolari e ben fatti (e non tutti) e perché l'uomo mi sia sempre stato sui coglioni. 

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