domenica 28 novembre 2021

La persona peggiore del Mondo

"La persona peggiore del Mondo" (The Worst Person in the World) di Joachim Trier. Con Renate Reinsve, Andres Danielsen Lie, Herbert Nordrum, Hans Olav Brenner, Helene Biørnebye, Vidar Sandem, Maria Grazia Di Meo, Silje Storstein, Sofia Schandy Bloch, Marianne Krogh e altri. Norvegia, Francia, Svezia, Danimarca 2021 ★★★+

Mi è occorso qualche giorni di sedimentazione per chiarirmi le idee su questa commedia in 12 capitoli, oltre a un prologo e a un epilogo, intrisa di ironia scandinava, e come tale a volte incomprensibile, comunque lieve e, quantomeno, non giudicante, che racconta le vicende degli ultimo quattro anni nella vita di Julie, una trentenne intelligente, vivace e senza pregiudizi che tutt'ora non sa cosa vuole dalla vita e probabilmente a ragione non se lo chiede nemmeno più di tanto, non facendone una tragedia: si accetta per quello che è, ed è già molto nel mondo senza grandi prospettive che si sono trovati apparecchiato i cosiddetti "millennials". Alla fine il modo di affrontare le cose di questa ragazza, molto ben interpretata da Renate Reinsve, all'inizio quasi irritante nella sua volubilità decisionale (brillante studentessa liceale passa da medicina a psicologia e, infine alla fotografia e, per campare, lavora come commessa in una libreria di Oslo) mi è piaciuto e così anche il film che la racconta. A ogni decisione cambia uomo, ma la relazione più significativa l'avrà con Axel, 44 enne famoso autore di fumetti "politicamente scorretti", che lei chiuderà pur amandolo profondamente, perché non se la sente di condividere la di lui fissazione di avere figli. Questo dopo averlo tradito "virtualmente" con un Eivind, come lei impegnato, conosciuto a una festa di matrimonio in cui si era imbucata per noia e curiosità, la scena più esilarante del film, in cui entrambi flirtano passando la notte a chiedersi quali siano i limiti da non oltrepassare per rimanere fedeli ai rispettivi partner: se possibile, lui è ancora più infantile di lei, sicuramente più manipolabile. Per un periodo sarà con Eivind che Julie avrà una relazione, che però non regge quando verrà a sapere che Axel è ricoverato per un tumore che non lascia speranze, andrà a trovarlo e avrà lunghi e profondi colloqui da cui emergeranno tutte le differenze di modi di vedere e affrontare le cose di due generazioni pur così vicine ma tanto diverse. All'apparenza sembra una pellicola adolescenziale, affollata com'è da personaggi immaturi nonostante l'età (a cominciare dal padre di Julie, totalmente assente dalla sua vita), invece tratteggia in modo non banale il modo di pensare e di agire di tipi umani di ambienti diversi nella vita e nelle scelte di tutti i giorni, senza schematismi, dogmatismi e moralismi. Ben girato, brioso, il risultato è più che gradevole.

giovedì 25 novembre 2021

3/19

"3/19" di Silvio Soldini. Con Kasia Smutniak, Francesco Colella, Caterina Forza, Paolo Mazzarelli, Martina de Santis, Antonio Zavatteri, Ana Ferzetti, Arianna Scomegna, Giuseppe Cederna e altri. Italia 2021 ★★★+

Piuttosto snobbato dalla critica professionista, a me quest'ultimo film di Soldini, sempre un gradito ritorno, è piaciuto per diversi motivi. Camilla, un'avvocata d'affari di successo, in procinto di essere "elevata" a partner dello studio di squali in cui lavora, la brava Kasia Smutniak nei panni di una tipica milanesoide in carriera, che vive in una sfera totalmente distaccata dalla realtà (ma che su di essa ha effetti devastanti), una sera viene investita da uno scooter montato da due ragazzi: lei si rompe un braccio, quello alla guida scappa ma l'altro cade, va a sbattere e muore. Non ha documenti, è palesemente un immigrato clandestino, di origine mediorientale, e la polizia non riesce a dargli un nome (3/19 è la sigla burocratica che indica il terzo cadavere non identificato nel corso di quell'anno divenuto nefasto per il Covid): presa da una crisi di coscienza, la donna inizia per conto suo un'indagine per scoprirne l'identità. Caparbia com'è anche nella sua attività, ci riuscirà con l'aiuto del direttore dell'obitorio, Bruno (Francesco Colella) ma la strada sarà lunga e i parametri mentali della donna cambieranno radicalmente dopo questa esperienza. Come spesso accade nei film di Soldini, un evento imprevisto cambia la prospettiva delle cose e il modo di vederle da parte del protagonista, e quella che parte come un'indagine su chi era la sfortunata vittima dell'incidente si tramuta altresì in un viaggio alla ricerca di sé stessi e della propria, di identità, che non a caso si conclude a sua volta con un viaggio fisico, e non mentale, alla ricerca di un luogo adatto alla sepoltura della salma del ragazzo. Camilla è la classica quarantenne assatanata dal lavoro, divorziata, con una figlia ventenne, Adele, di cui non sa assolutamente nulla, totalmente assorbita dalla sfera della finanza dove tutti parlano quell'orrido gergo ibrido anglo-italiano da bancari e legulei, gente di merda, avida, che in testa ha solo numeri e ragiona unicamente in termini di logiche di potere (ne abbiamo uno a capo del governo), relazioni di merda, che vive in case lussuosamente algide e anonime arredate col loro tipico gusto di merda, peggio e più cretini perfino dei militari per professione e vocazione: un universo parallelo. La botta (anche fisica) la riporta a contatto con la realtà, anche attraverso il rapporto che si sviluppa con Bruno, il dirigente comunale che l'aiuta nella ricerca, e si ricrea con la figlia Adele una volta che quest'ultima la manda affanculo e se ne esce di casa per vivere e mantenersi per conto suo, così Camilla scoprirà di non essere stata sempre così arida, e che anche lei ha da recuperare qualcosa da un passato che, per paura, ha evitato di affrontare. Soldini, che è milanese, sa descrivere bene la razza arraffona che ha preso piede nella città riducendola a quel posto alienante e squallido che è diventata man mano negli ultimi quarant'anni, dove la gente vive nell'indifferenza totale di quel che le succede intorno, imbesuita da una frenesia immotivata, un movimento continuo a riempire il vuoto. E', anche, un film sulla responsabilità, verso il prossimo quanto nei confronti di sé stessi. Sotto forma di giallo, e non importa quanto certe situazioni siano inverosimili: i lavori di questo regista hanno sempre un tocco surreale e delle atmosfere sospese o enigmatiche. Insomma, a mio parere film onesto, ben recitato e ben girato, che funziona. 

lunedì 22 novembre 2021

Zappa

"Zappa" di Alex Winter. Con Frank e Gail Zappa, Mike Keneally. Ian Underwood, Steve Vai, Pamela Des Barres, Bunk Gardner, David Harrington, Scott Thunes, Ruth Underwood e Ray White. USA 2020 ★★1/2

Non è un film biografico, né un film musicale: è semplicemente un documentario, montato in maniera pop, probabilmente in onore al carattere anarchico e all'aspetto stravagante del soggetto in questione, come altri del genere di Nexo Digital, cui il fatto di essere proiettati sul grande schermo, fra l'altro a prezzo doppio rispetto alle pellicole normali, non aggiunge nulla alla sua natura prettamente televisiva. Con il vantaggio che, davanti al piccolo schermo, si può mettere in stop e fare un salto in cucina a pescare una birra nel frigorifero e riprendere la visione. L'ho lasciato "decantare" qualche giorno dopo averlo visto e alla fine concordo con il giudizio di un mio amico, peraltro valido musicista: all fine, deludente. Sì, perché avendo la possibilità di attingere liberamente, per concessione della famiglia Zappa, agli sterminati e ordinatissimi archivi in cui il geniale Frank conservava qualsiasi cosa producesse, ci si poteva aspettare qualcosa di più e di diverso: magari ascoltare qualche pezzo per intero (non tutti erano delle suite interminabili, o meglio "open") oppure, dalla sua viva voce, come la pensasse: non lesinava né le parole, sempre puntuali, né il suo pensiero, acuto e penetrante. Certo, non mancano le sue dichiarazioni, meno banali delle parole dei suoi collaboratori, dove raramente emerge qualcosa di particolarmente interessante. Frank Vincent  Zappa era un perfezionista, un uomo immerso nella musica e in quel che prediligeva fare: scriverla, attività per la quale spesso si isolava e poteva apparire poco socievole; completamente estraneo al mondo luccicante e festaiolo delle rock star più acclamate. Colto, intelligente, provocatorio, mai banale, libertario fino in fondo ma esigente con i suoi musicisti e meticolosissimo e instancabile sul lavoro, poco interessato al lato commerciale della musica: per sfuggire alle logiche delle case discografiche nel 1977 ne fondò una propria per agire in piena libertà. Il documentario non segue un filo strettamente cronologico e salta qua e là nella vita dell'artista, che da bambino era più interessato agli esplosivi che alla musica, fino a quando non rimase fulminato dall'opera Edgard Varèse; completamente autodidatta, imparò a suonare vari strumenti ma soprattutto la chitarra come pochi altri, ma principalmente era e si riteneva un compositore. I suoi concerti, soprattutto quelli con le prime Mothers of Invention, erano degli eventi, nel senso di unici, vere e proprie performance complete: puro spettacolo, per le orecchie e per gli occhi, e qui se ne ha soltanto qualche assaggio. Memorabile quando fu accolto come un eroe a Praga nel gennaio del 1990, tappa di un viaggio nelle capitali dei Paesi ex comunisti come ambasciatore del rock, dove incontrò il neo presidente Vaclav Havel e dove tornò l'anno successivo per una delle sue ultime esibizioni prima della morte precoce, a 52 anni, per un tumore alla prostata affrontato con grande coraggio e dignità. Aveva ancora tante cose da dire e da fare, Frank, un musicista eclettico, una mente aperta, un grande uomo che ci manca moltissimo. Anche se il film che gli è stato dedicato non è un granché, sono comunque contento di avere avuto l'occasione di rivederlo. Di lui rimangono 62 album pubblicati in vita, 53 dopo la sua scomparsa, nel 1993 e un ricordo indelebile.

giovedì 18 novembre 2021

Dovlatov / I libri invisibili

"Dovlatov / I libri invisibili" (Dovlatov) di Alexey German Jr. Con Milan Marić, Danila Kozlovsky, Helena Sujecka, Svetlana Khodchenkova, Anton Shaghin, Elena Lyadova e altri. Russia, Polonia, Serbia 2017 ★★★★+

Un film davvero prezioso, oltre che ben girato e magnificamente interpretato dal serbo Milan Marić nella parte di Sergej Donatović Dovlatov, giornalista e aspirante scrittore, che viene seguito passo passo nella sua vita quotidiana durante sei giorni del novembre già precocemente invernale del 1971, nel pieno dell'Era Brezneviana, in una Leningrado, come si chiamava allora San Pietroburgo, dove fervevano i preparativi per l'allestimento della consueta faraonica scenografia per celebrare i fasti di quella rivoluzione che, giunta al 54° anniversario, aveva conferito il potere a un regime sempre più imbalsamato, ottuso, completamente distaccato dalla realtà se non per reprimere qualsiasi espressione che potesse anche lontanamente metterlo in discussione. Dovlatov lo faceva con la sua arguzia, l'ironia inesauribile con cui affrontava le traversie della sua stessa esistenza: dotato di una stazza notevole, fascino, simpatia, mezzo armeno e mezzo ebreo, già per questo malvisto, lo era ancora di più per come scriveva i suoi pezzi: qui lo vediamo alle prese con un articolo su un film con dei portuali nei panni degli improbabili sosia dei grandi della letteratura russa, poi con un intervista a un poeta-lavoratore che scava tunnel per la metropolitana, il quale ha perso l'ispirazione dopo aver trovato la sua musa, la moglie, a letto con un altro; tra una vodka e una birra con gli amici artisti, fra cui Josif Brodski, che come lui si arrabattano per sbarcare il lunario tra mercato nero (particolarmente fiorente in una città così vicina alla Finlandia) e lavoretti vari; le serate di discussioni interminabili con performance, declamazioni di poesie, accompagnamento musicale (preferibilmente jazz) negli affollati appartamenti dell'uno o dell'altro, o performance in locali semiclandestini; la relazione con la madre sceneggiatrice che lo ospita dopo che si è separato dalla moglie Helena; le diatribe con quest'ultima e il rapporto con la loro figlia, che spesso si addormenta durante le serate errabonde del nostro eroe, che cerca di trovare la maniera, facendo leva su una o l'altra conoscenza, per essere ammesso alla Società degli scrittori: solo facendone parte, e dopo aver ottenuto la patente di adeguata "sovieticità", le sue opere avrebbero potuto ottenere il permesso di essere stampate. Ovviamente ogni suo tentativo fu vano: troppo scomodo e incontrollabile il personaggio, soprattutto la sua lingua e la sua penna. Così andavano le cose anche per gli altri artisti, pittori, scultori, teatranti, musicisti ma esisteva, per l'appunto, un mondo parallelo, sotterraneo, estraneo alle logiche di partito e di potere, che sopravviva ai margini di esso, ed è questo che descrive il film, quell'ambiente intellettuale che non si omologava, la cui aria l'autore, Alexej German junior, figlio dell'omonimo regista, coetaneo di Dovlatov e come lui leningradese, ha respirato fin dalla più tenera infanzia, nonché ricevuto dal padre e da chi aveva vissuto quel periodo testimonianza diretta su vicende e personaggi. Dovlatov, come già l'amico Brodsky prima di lui, fu costretto all'esilio nel 1978, prima in Austria, poi negli USA, a New York, dove morì nel 1990: fino ad allora solo alcuni suoi scritti circolarono in Russia sotto forma di samizdat, mentre dopo il crollo del regime comunista diventò uno degli autori più amati nel suo Paese e lo è tuttora: il film è tratto da I libri invisibili, e le sue opere edite da Sellerio. Vale la pena conoscerlo, Dovlatov, e questo bel film riesce nell'intento di darcene un gustoso quanto credibile assaggio. 

martedì 16 novembre 2021

La scelta di Anne - L'Événement

"La scelta di Anne" (L'Événement) di Audrey Diwan. Con Anamaria Vartolomei, Kacey Mottet Klein, Luàna Bajrami, Luoise Orry Diquero, Louise Chevillotte, Pio Marmaï, Anna Mouglalis, Sandrine Bonnaire, Fabrizio Rongione, Julien Frison, Alice de Lencquesaing e altri. Francia 2021 ★★

Se l'assegnazione della Palma d'Oro a un film inguardabile come Titane non sorprende, con una giuria presieduta da un imbecille notorio come Spike Lee (ancora più imbecille chi gliel'ha affidata), stupisce invece quella del Leone d'Oro, dove in quel ruolo era stato chiamato Bong Joon-ho, autore del magnifico Parasite, per citarne uno, a un ennesimo film francese, diretto anche questo da una donna, soprattutto considerando che in concorso ce ne erano almeno altri due nettamente più meritevoli, Qui rido io e Freaks Out (su E' stata la mano di Dio non mi esprimo, non essendo ancora uscito nelle sale), che però probabilmente avevano il difetto di essere italiani, e noialtri non siamo così abili come i cugini d'Oltralpe a vendere merda come se fosse oro: pagando ancora una volta la sudditanza psicologica che induce la loro irriducibile arroganza intellettuale (e non solo). La scelta di Anne, tratto dal romanzo autobiografico L'Événement di Annie Ernaux, in cui l'autrice racconta la sua esperienza, è la cronistoria, scandita di settimana in settimana, fino alla 12ª di gravidanza, di un aborto clandestino voluto e ottenuto da una ragazza di 22 anni in un'epoca, il 1963, quando procurarlo o procurarselo era un reato per cui si finiva in carcere, e la parola stessa era impronunciabile pubblicamente e perlopiù anche in privato. Un film fortemente ideologico, che racconta un dramma (il solo doverlo prendere in considerazione lo è per ogni donna) in modo obiettivo e fin troppo esplicito: trovo francamente eccessivo e macabro fare assistere lo spettatore all'espulsione del feto da parte della ragazza seduta sul cesso e al taglio del cordone ombelicale con una forbice da cucina, così come ritengo inutile ed eccessivamente compiaciuta una sorta di lezione dettagliata di masturbazione al femminile montando un cuscino da parte di un'amica e coetanea della protagonista, perennemente infoiata ma incapace di darle un consiglio e aiutarla a trovare una soluzione. Perché Anne, una ragazza che studia letteratura all'università perché vuole fortemente diventare scrittrice e uscire dall'ambiente modesto della sua famiglia, che gestisce un'osteria (attività peraltro benemerita come poche altre) fin da quando scopre di essere incinta rifiuta quella gravidanza non voluta per non compromettere irrimediabilmente il proprio futuro. La telecamera la segue passo per passo nelle sue giornate sempre più angosciate alla ricerca di una soluzione, fra medici che si rifiutano di aiutarla (uno le prescrive surrettiziamente perfino un farmaco che rafforza il feto), ragazzi che si dileguano o se ne approfittano, amiche (tranne una) che non sanno cosa dirle; la soccorrerà un giovane con cui è in confidenza, un pompiere accasermato vicino al dormitorio che ospita Anne, che la manda da un'amica che a sua volta era ricorsa a una "mammana" di fiducia, e la protagonista, la brava (lei sì) Anamaria Vartolomei, è quasi sempre in primo piano: inquadrature à la Dardenne, ha scritto qualcuno. Bene: obiettività, crudezza, ma alcune cose rimangono poco credibili. Una ragazza di 22 anni che si abbevera a Sartre (e quindi si suppone anche alla Beauvoir), e quindi presumibilmente di idee progressiste, cresciuta in una famiglia che quotidianamente ha a che fare col pubblico, non è plausibile che nemmeno all'epoca non avesse un minimo di cognizione di causa sul rischio di rimanere incinta senza l'uso del preservativo e sui meccanismi della gravidanza; ancora meno che ci impiegasse più di due mesi a trovare una soluzione: non in un Paese che già ai tempi si dipingeva, per quanto dotato di una legislazione retriva quanto quella nostrana fino al 1978, come sessualmente spregiudicato. , nemmeno Anne. Lo scavo psicologico dei personaggi è pari a zero e nessuno dei personaggi suscita un minimo di empatia, nemmeno Anne: risultano tutti degli stronzi il che, essendo francesi, non gli riesce particolarmente difficile, pertanto la credibilità è totale. Un appunto alla regista: ai tempi, comunque, le ragazze non si depilavano le ascelle e nemmeno si "scolpivano" il cespuglio dei peli pubici. Insomma: passi per il pugno nello stomaco, che è intenzionale, ma cinematograficamente non ci siamo proprio. Meno che mai con un premio un tempo prestigioso. 

domenica 14 novembre 2021

Il bambino nascosto

"Il bambino nascosto" di Roberto Andò. Con Silvio Orlando, Giuseppe Pirozzi, Lino Musella, Imma Villa, Gianfelice Imparato, Salvatore Striano, Tonino Taiuti, Roberto Herlitzka e altri. Italia 2021 ★★★★-

Intellettuale poliedrico, Roberto Andò gira pochi film, ma buoni e mai banali: questa volta adatta sullo schermo un suo romanzo uscito l'anno scorso dallo stesso titolo, convincendo Silvio Orlando a tornare al cinema per interpretare il personaggio principale, Gabriele Santoro, un maestro di pianoforte che insegna al conservatorio di Napoli e ha scelto di vivere, in solitudine, fra spartiti, libri e li suo amato strumento, in un appartamento di un nobile palazzo in decadenza nel rione Forcella, considerato particolarmente pericoloso, dove, come nel resto del centro di Napoli, città stratificata come poche e nella quale tutto si mescola, alto e basso, ricco e povero si incontrano, si mescolano e vivono in simbiosi. E' un uomo abitudinario, metodico, colto, che combatte l'avanzare dell'età e l'intorpidimento mentale recitando poesie a memoria, il quale un bel giorno si ritrova in casa Ciro, un ragazzino di poco più di dieci anni, figlio di un vicino di casa legato alla camorra, che cerca rifugio e protezione. All'inizio l'uomo non capisce perché, ma pian piano scopre che gli sgherri di un boss stanno gli dando la caccia perché, assieme a un coetaneo già acciuffato, avrebbe scippato la madre del capobastone. Il film racconta, in maniera sobria, credibile ed estremamente elegante, la nascita e la trasformazione del rapporto tra due persone che più distanti non potrebbero essere, per età e ambiente d'origine, facendo interagire i personaggi, il cui modo di essere interpretati dai due attori, entrambi bravissimi (Orlando, come si sa, per la sua  misuratezza e l'uso parsimonioso di parole e gesti, il giovane Giuseppe Pirozzi per la sua esuberante fisicità), principalmente nel contesto della loro forzata convivenza, e intuire le ragioni morali che stanno alla base della scelta di Gabriele di nascondere il ragazzino dai suoi feroci inseguitori e prendersi cura di lui, nonostante gli enormi rischi che corre: il fratello, ambizioso magistrato che non smette di rimproverarlo per essere stato sempre la delusione della famiglia, per di più abbandonando la dimora avita al Vomero per mischiarsi ai plebei, si guarda bene dall'aiutarlo, così l'uomo, dopo aver visto il cadavere del padre di Ciro dopo che i persecutori hanno inscenato un finto suicidio, dapprima medita una sorta di vendetta nei confronti del boss, poi architetta una fuga, chiarendo in una lettera la sua decisione di sfidare non solo la camorra ma anche una giustizia meramente formale e obiettivamente complice, per non parlare delle cosiddette "forze dell'ordine", conniventi e tutt'al più rassegnate alla "riduzione del danno" di fronte al dilagare della malavita organizzata. Il film racconta anche questo, oltre a essere la storia di una sorta di paternità surrogata, dove un uomo apparentemente indifferente e chiuso in sé stesso si evolve prendendosi la cura e la responsabilità del prossimo per una motivazione morale superiore. Ambientazione suggestiva, citazioni non casuali, eleganza ma anche realismo nel mostrare alcuni angoli non banali di una città così complessa e contraddittoria come Napoli, sensibilità ed equilibrio, un fondo di malinconia, forse un po' lungo e probabilmente superflua la parentesi sull'omosessualità di Gabriele, ma comunque un ottimo film. 

venerdì 12 novembre 2021

Antigone

"Antigone" di Sophie Deraspe. Con Nahéma Ricci, Rachida Oussaada, Nour Belkhiria, Rawad El-Zein, Hakim Brahimi, Antoine DesRochers e altri. Canada 2019 ★★ 1/2

Originale l'idea di adattare, pur con alcune variazioni sostanziali, la tragedia di Sofocle, scritta quasi 2500 anni fa, a una situazione attuale, peraltro ricavata da una vicenda realmente accaduta in Canada alcuni anni fa: del resto si chiamano classici proprio perché sono attuali, e sull'animo, le pulsioni più profonde dell'uomo e la sua psicologia gli antichi greci ne sapevano esattamente quanto noi al giorno d'oggi, ma con idee decisamente meno confuse. La regista e sceneggiatrice Sophie Deraspe ne ha conservato i nomi, applicandoli alla famiglia degli Ippomeni, rifugiati magrebini o mediorientali residenti già da una quindicina d'anni a Montréal ma che non hanno ancora ricevuto la cittadinanza: accolti, insomma, ma non tutelati. Si tratta di quattro ragazzi, due maschi e due femmine, che hanno perso i genitori e sono giunti nel Paese nordamericano assieme alla nonna, che tutt'ora non parla né l'inglese né il francese, mentre i più giovani sono perfettamente "integrati". Si fa per dire, ovviamente: alla francese (o alla belga): cioè relegati nelle banlieue (e infatti il film ha cadenze franco-belghe, anche se lievemente meno lugubri), con i maschi che operano in una gang di piccoli criminali e una delle ragazze che fa la sciampista. Fa eccezione Antigone, che non a caso è anche quella che ha l'aspetto nettamente più quebecois dei quattro Ippomenes, studentessa modello, all'ultimo anno di liceo e con ottime probabilità di vincere una borsa di studio che le permetta di frequentare l'Università: sarà lei che deciderà di sostituirsi, durante un colloquio in carcere, al fratello Polinice, arrestato per aver aggredito il poliziotto che aveva sparato al fratello maggiore Eteocle durante un controllo in una strada del "Quartiere", uccidendolo, per salvarlo dalla sicura espulsione dal Paese che grava su di lui, già carico di precedenti penali. Incurante del rischio che corre di mettere a repentaglio il suo futuro, a cominciare dall'ottenimento della cittadinanza, Antigone affronta il processo e la "legge degli uomini" dichiarandosi colpevole e facendo prevalere le ragioni del cuore (e della famiglia) su quelle della legalità nonché della convenienza: nella tragedia di Sofocle si tratta del diritto alla sepoltura dei fratelli, qui si tratta della dignità per uno, Eteocle, e della salvezza per l'altro, Polinice che, se rimpatriato, rischierebbe la vita. Il suo slancio e la sua generosità diventano "virali", come si usa dire, coinvolgono i suoi compagni di studi, poi le compagne del carcere minorile dov'è rinchiusa, comprese alcune assistenti, quindi una massa di giovani e meno giovani che avviano una campagna a suo favore, coinvolgendo perfino un politico di spicco in un primo momento diffidente: sorde, o quasi, rimangono le istituzioni e i suoi rappresentanti, trinceranti dietro a quello che stabiliscono i codici e le procedure. Insomma niente di nuovo sotto il sole, ciò ci cui parla il film è, alla fine, il rapporto fra individuo e autorità. La pellicola è girata discretamente, brava ed espressiva soprattutto Nahéma Ricci nella parte della protagonista, ma per il resto non è entusiasmante: la cupezza e l'impressione di trovarsi davanti a una realtà di alienati con seri problemi di comunicazione rimane, come in altri film franco-canadesi (o franco-belgi), e non contribuisce a suscitare empatia per alcuno dei personaggi. E per fortuna che questa volta non mi è toccato vedere il film in lingua originale, perché non avrei retto alla prova. 

mercoledì 10 novembre 2021

Freaks Out

"Freaks Out" di Gabriele Mainetti. Con Claudio Santamaria, Aurora Giovinazzo, Pietro Castellitto, Giancarlo Martini, Franz Rogowski, Giorgio Tirabassi, Max Mazzotta, Emilio De Marchi, Astrid Meloni, Anna Tenta e altri. Italia, Belgio 2021 ★★★★★

Evviva! Al secondo film, Gabriele Mainetti si conferma e forse si supera, ed è una gran bella notizia per il cinema italiano che, con autori dotati del suo talento ed entusiasmo, non è ancora morto, almeno per quello che riguarda il grande schermo e la fruibilità fuori dai nostri confini, dato che le menate intimiste, le saghe ozpetekiane e le pippe pseudo autoriali non oltrepassano le Alpi perché non le capisce nessuno e il resto della produzione pecoreccia va bene giusto per passare sugli schermi della TV o nelle multisale dei centri commerciali dove chi alza il culo dal divano di casa va essenzialmente a broccolare, ingozzarsi di pop corn e bibite gassate e ruttare.  Mi aspettavo il seguito del sorprendente Lo chiamavano Jeeg Robot, che peraltro ci stava, e invece sono stato piacevolmente smentito, questa volta il regista romano non si ispira direttamente ai fumetti di supereroi, per quanto se ne notino le tracce, e la vicenda, che coinvolge quattro emarginati, dotati però di superpoteri, è ambientata in un periodo storico ben preciso e tragico, quello della Roma "Città aperta" ma di fatto occupata dai tedeschi e delle deportazioni degli ebrei dal ghetto. I quattro saltimbanchi, Santamaria il licantropo, Giovinazzo la ragazza elettrica, in grado di fulminare chiunque la tocchi, Castellitto l'albino che ha il dono di controllare gli insetti, Martini il nano-calamita, lavorano in un circo diretto da Israel che, essendo ebreo, tenta la fuga ma verrò catturato e poi sequestrato dai nazisti per essere deportato nei campi di sterminio: rimasti senza lavoro e senza quello che, di fatto, era una sorta di padre, si trovano in balia degli eventi, ma vengono adocchiati da Franz (Rogowski), direttore del Zirkus Berlin, anch'esso in scena a Roma, che a sua volta è uno "scherzo della natura": nazista fanatico, pianista e musicista sopraffino, fornito di sei dita e per questo riformato dall'esercito, possiede anche la dote prevedere il futuro e quindi la sconfitta della Germania e la caduta del regime, ma è convinto di poterle evitare se riuscirà a mettere le mani sui quattro superdotati perché in grado di cambiare il corso degli eventi e conta di poterli recare in regalo, e in soccorso, all'adorato Führer. Riuscirà ad accalappiarli e i quattro lavoreranno al circo tedesco, ma con risultati del tutto inaspettati: per Franz come per gli spettatori. Nella vicenda entrano anche un gruppo di gappisti formato esclusivamente da inabilitati di varia natura (mutilati che corrono, guerci che sono cecchini infallibili), lo stato maggiore tedesco dell'epoca a cominciare del generale Kesselring, gli ebrei romanizzati da ormai duemila anni, la battaglia finale con Franz che rileva il comando delle forze tedesche prendendo il posto del suo fratello, un ufficiale che l'ha sempre umiliato perché interdetto alla carriera militare... Freaks Out è spettacolo a tutto tondo: coinvolgente la storia, a cavallo fra la fantasia più sfrenata e la realtà storica (in questo e non solo emulo di Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino, capolavoro assoluto), basata su una sceneggiatura solida; provocazione intelligente; riferimenti all'attualità puntuali, felicità espressiva, gioia di raccontare, gran bella musica, pieno dominio da parte di regista, fotografi, montatori dei mezzi tecnici oggi a disposizione, ottima scelta degli attori, che a loro volta hanno lavorato con entusiasmo visibile. Forse, dico, forse, avrebbero giovato 10/15' in meno, ma mi sento comunque di dare il massimo dei voti e di consigliarlo vivamente a chi vuole passare bene un paio d'ore liberatorie.

lunedì 8 novembre 2021

Madres parallelas

"Madres parallelas" di Pedro Almodóvar. Con Penélope Cruz, Milena Smit, Rossy De Palma, Aitána Sánchez-Gijón, Israel Elejade, Julieta Serrano e altri. Spagna 2021 ★★★★1/2

Sempre una certezza, il Maestro colpisce ancora: riesce a parlare di cose serie e far riflettere pur non abbandonando mai il melodramma e la messa in scena di un universo prevalentemente femminile, che sa descrivere come pochi, e il gioco d'incastri di situazioni che solo in apparenza sono delle semplici coincidenze ma risultano invece sempre funzionali sia al racconto, per renderlo più appassionante, sia a ciò che ci sta dietro e che rappresenta, ossia quanto Pedro Almodóvar intende esprimere. Che, in questo film in particolare, è la necessità della memoria: per poter affrontare il futuro, personale come di un Paese, nella fattispecie la Spagna ma vale altrettanto, se non di più, per l'Italia, occorre sapere da dove si viene e chi si è, affrontando un passato su cui si preferisce sorvolare. Janis e Ana sono due donne che si conoscono partorendo lo stesso giorno nella stessa clinica di Madrid due bimbe, Cecilia e Anita, che nascono entrambe senza padre. Fortemente voluta Cecilia da Janis (Penélope Cruz), quarantenne fotografa affermata, cresciuta a sua volta senza padre da una nonna che le parlava sempre del bisnonno sequestrato dai franchisti durante i primi giorni della Guerra Civile e mai tornato, ossessionata dal desiderio di riesumarne i resti per dar loro degna sepoltura che si trovano in una fossa comune di cui tutto il paese d'origine ha conoscenza ma le autorità, guarda caso no; mentre Anita (Milena Smit) è il frutto di uno stupro di gruppo, dunque subita, da una ragazza che ha la metà degli anni di Janis, un pessimo rapporto sia col padre, sia con la madre, un'assenza/presenza che a sua volta si è sposata solo per uscire di casa e dedicarsi alla sua carriera di attrice (Aitána Sánchez Gijón è superba nel suo ruolo): un'adolescente che non ha la minima idea del passato, senza radici, né desidera averne. Nonostante siano per molti versi l'opposto, le due donne solidarizzano e dopo una serie di traversie tornano a entrare in contatto e il loro rapporto si trasforma. Nel mentre però la piccola Anita è morta per un problema respiratorio che presentava già alla nascita mentre il padre di Cecilia, Arturo, l'unica presenza fisica maschile del film, che è un antropologo forense a suo tempo contattato da Janis per lavorare alla fossa comune indicatale dalla nonna, non potendo non notare il suo aspetto decisamente "etnico" si dice subito sicuro di non poterne essere il genitore biologico e induce nel dubbio Janis, che fa fare l'esame del DNA a Cecilia e poi anche all'amica Ana, divenuta nel frattempo sua convivente, a anche lei cadrà nel tranello del "non detto", finché non si arriverà a una svolta che porterà a un chiarimento per tutti. Ho già detto troppo, il resto lo scoprirete andando a vedere questo film che conferma, se ve ne fosse la necessità, l'immenso talento del regista manchego nel raccontare storie, ambienti, psicologie e di far pensare, divertendo. Vale sempre la pena andarlo a vedere. 

sabato 6 novembre 2021

L'arminuta

"L'arminuta" di Giuseppe Bonito. Con Sofia Fiore, Carlotta De Leonardis, Vanessa Scalera, Fabrizio Ferracane, Elena Lietti, Andrea Fuorto e altri. Italia 2021 ★★★+

Non ho letto l'omonimo romanzo di successo di Donatella Di Pietrantonio da cui è tratto il film, per cui non posso fare raffronti e giudicare quanto gli sia fedele: sicuramente l'ultimo lavoro di Giuseppe Bonito, regista romano non prolifico e che, nella prova precedente, Figli, non mi aveva per nulla convinto, ha un suo perché e una vita propria, riabilitandolo ai miei occhi benché sussista la tendenza a una certa lentezza, che qui può anche starci, per lasciar parlare più gli sguardi e i gesti che le parole, invero piuttosto scarne ma sempre significative, e a una ripetitività che a volte diventa pesante; e, anche se i colpi di scena, almeno per chi non conosce la trama, non mancano, il racconto scorre nei binari di una prevedibilità che tuttavia non guasta. Se l'intento era da un lato ricostruire la divaricazione esistente tra città e campagna a compimento del boom economico degli anni Sessanta e della relativa rivoluzione sociologica avvenuta nel Paese, quando (siamo nell'estate del 1975 in Abruzzo) sia la piccola borghesia sia la classe operaia si erano almeno parzialmente emancipate, adeguandosi al modello consumistico, e dall'altro la consuetudine, peraltro tutt'ora attuale, di trattare i figli come dei "pacchi postali", decidendo dei loro destini senza ascoltare il loro parere, con conseguenze spesso disastrose, la storia dell'arminuta, ossia la "ritornata", magnificamente interpretata dall'adolescente Sofia Fiore, si presta in maniera esemplare. Cresciuta in città, a Pescara, presso una coppia benestante che ha sempre considerato i suoi genitori naturali, nell'estate fra la 2ª e la 3ª media viene rispedita dai genitori biologici che vivono in un cascinale nell'aspro interno della regione che, a sole poche decine di chilometri dalla costa, è un mondo che vive in una dimensione completamente diversa, completamente agreste, distante anni luce dalla città. La ragazza, 13 anni, vi si ritrova spaesata, costretta a vivere in un ambiente totalmente estraneo, in una situazione di promiscuità con quattro fratelli di cui uno che la tampina in preda a crisi ormonali, un padre che non parla se non a grugniti e cinghiate con chi mette in discussione la sua autorità e una madre anaffettiva con cui non riesce a comunicare fino a quando, in seguito alla perdita di uno dei figli in un incidente, le confesserà quello che tutti gli altri, meno lei, sanno già: ossia che è finita in quella famiglia per un patto con una cugina che, all'apparenza, non poteva avere figli e che il ritorno è stato dovuto a un cambiamento di prospettiva. L'unico rapporto positivo lo ha con la sorellina Adriana, la più sveglia della famiglia, che la "adotta" come sorella maggiore e come modello e al contempo riesce a renderle più sopportabile la situazione, e con la professoressa di lettere dell'ultima classe delle medie che frequenta al paesello e che la convince a partecipare a un concorso letterario che ha come premio, peri il vincitore, una borsa di studio per le superiori e la incoraggia a iscriversi al liceo classico del capoluogo. Per chi ha vissuto quegli anni è un tuffo nei ricordi molto realistico, per la precisione con cui sono stato ricostruiti ambienti e situazioni; gli interpreti sono tutti all'altezza, le due ragazze una spanna in più, e credibili nelle rispettive parti. Un buon film complessivamente, e nessun amarcord nostaglico, benché il presente non sia per nulla migliore. 

giovedì 4 novembre 2021

I giganti

"I giganti" di Bonifacio Angius. Con Bonifacio Angius, Stefano Deffenu, Michele Manca, Riccardo Bombagi, Stefano Manco, Francesca Niedda, Noemi Medas, Roberta Passaghe, Mila Angius. Italia 2021 ★★★★★

Sono grato all'intuito di non essermi perso, nei pochi giorni in cui è rimasto nelle sale, questo film sorprendente, per me che non ne conoscevo l'autore, incuriosito dal fatto che fosse inequivocabilmente sardo (anche se parlato in italiano, e sempre in maniera del tutto comprensibile, al di là dell'accento insopprimibile) oltre a essere stato l'unico film italiano in concorso all'ultimo Festival di Locarno, uno dei pochi davvero credibili rimasti in circolazione. Il titolo si ispira alle tumbas de los mannos, tombe dei giganti, fosse collettive di cui è disseminata l'isola, che qui sono invece dei perdenti, un gruppo di quattro amici che si raduna nella decadente casa situata in una vallata dispersa e davanti a una strada poco trafficata, abitata dal quinto, Stefano (Deffenu), diventato praticamente afasico dopo una delusione amorosa, che ripeta come un mantra che “le persone dicono una cosa e ne fanno un'altra”, per certi versi il motivo conduttore della pellicola. Si tratta di una rimpatriata di amici sulla quarantina, salvo il fratello più giovane di uno di loro, dopo un lungo periodo in cui non ce n'era stata l'occasione (lock down da Covid?) ad altissima tossicità fra droghe di ogni genere e alcol, fornite in particolare da Andrea (Manca), all'apparenza il più ben disposto e allegro di tutti mentre in realtà è il più sgangherato, incapace di farsi prendere sul serio perfino da un paio di prostitute che ha convocato per l'occasione; gli altri due sono Massimo (Angius) e Piero (Manco), un attore il primo, disperato per non poter più vedere la figlia dopo la separazione dalla moglie; un politico intrallazzone l'altro, che rivangano sul passato; il più giovane (Bombagi) inizialmente sembra avere il ruolo di una sorta di coscienza critica, lontano dalla beghe degli altri, che emergono in modo per niente chiaro dai loro discorsi, resi tortuosi dall'abuso delle sostanze ma che sono lasciate bene intuire, però alla fine coinvolto nel vortice autodistruttivo che ha intrappolato gli altri. Per un incidente, o un malore, Andrea scopre che il padrone di casa è esanime nel suo letto, cadavere, e da lì si scende insesorabilmente nell'abisso che si intuiva stesse preparandosi già dalla prima scena, logica e inevitabile conseguenza dei fallimenti che tutt'e quattro si sono rinfacciati e confessati, e soprattutto della presenza di una pistola che, come diceva Cechov, se si trova all'interno di un romanzo, in questo caso una sceneggiatura e, ben carica, sul set, è inevitabile che prima o poi spari. Regia stringata, senza sbavature; durata ridotta all’essenziale: 80 minuti sono il tempo perfetto per mettere in scena questo dramma intenso e che lascia il segno. Gli interpreti sono bravissimi e la colonna sonora di rara efficacia: nella sua dimensione, un film perfetto. Angius un regista, oltre che attore, sceneggiatore e produttore atipico, coraggioso e coerente, da seguire con grande attenzione, totalmente fuori dal coro e dalle convenzioni, che mi ha ricordato, per certi aspetti, lo scomparso Claudio Caligari.

martedì 2 novembre 2021

La scuola cattolica

"La scuola cattolica" di Stefano Mordini. Con Benedetta Porcaroli, Luca Vergoni, Francesco Cavallo, Giulio Pranno, Andrea Lintozzi Senneca, Giulio Fochetti, Alessandro Cantalini, Riccardo Scamarcio, Jasmine Trinca, Valeria Golino, Valentina Cervi, Fausto Russo Alesi, Fabrizio Gifuni, Gianluca Guidi e altri. Italia 2021 ★★★1/2

Esempio classico del fatto che non bisogna fidarsi della critica professionale ed embedded e dare, invece credito al passaparola: La scuola cattolica è un ottimo film, che senza bisogno di tanti spiegoni e  sottili quanto pedanti analisi delle psicologie dei personaggi, racconta in quale ambiente, non a caso, e in quale clima di miseria culturale e di ipocrisia perbenista sia maturato uno dei crimini più truci degli anni Settanta, rimasto nella memoria collettiva come il Massacro del Circeo, un caso di sequestro, stupro e omicidio compiuto da un terzetto di giovinastri della Roma bene, già frequentatori dell'Istituto Leone Magno da liceali, avvenuto alla fine di settembre del 1975 e ricostruito da Edoardo Albinati, che a sua volta era stato allievo in quella scuola durante quel periodo, nell'omonimo romanzo con cui ha vinto il Premio Strega del 2016: è su questo soggetto che si basa la sceneggiatura firmata anche dal regista della pellicola. La vicenda è raccontata da uno degli studenti del liceo, Edoardo, che descrive l'ambiente di quella scuola privata, ovviamente tutta maschile, in cui la le famiglie abbienti mandavano i propri rampolli per tenerli al riparo dalle turbolenze che in quegli anni di attivismo politico e di scontri sociali agitavano gli istituti pubblici: meglio il porto sicuro di quelle mura con tanto di piscina e professori compiacenti e "giri" dei quartieri-bene, con le loro festicciole, le auto e le moto costose in mano a ragazzi neopatentati e magari ancora minorenni, lontano da quanto avveniva nelle strade a poche centinaia di metri di distanza: questo accadeva non solo a Roma, ma in egual misura a Milano (vedi Leone XIII dei gesuiti, in zona Magenta/Monti, o lo Zaccaria dei Salesiani) e in tutte le altre città di una certa dimensione, terreno fertile anche per la crescita di virgulti che avrebbero germogliato nell'eversione di estrema destra in particolare. La doppia morale era la regola, in quelle famiglie che, pur nella loro diversità come le descrive la voce narrante e come vengono illustrate nel film, avevano in comune dei rapporti basati sulla legge del più forte (e infatti nelle scuole private il bullismo era la regola molto più che in quelle pubbliche) e una logica maschilista che non era stata minimamente scalfita dal movimento femminista che pure in quegli anni era particolarmente vivo. La pellicola descrive molto bene la vita all'interno di quella scuola e quella di relazione dei suoi discepoli, dove ogni problema, e spesso sopraffazione, veniva messo a tacere dalla compiacenza di chi la dirigeva davanti a generose "donazioni" dei genitori di prepotenti e teppisti. E' in questa melma che nasce l'idea, a tre individui particolarmente marci, di circuire delle ragazze di tutt'altra estrazione, delle "estranee" che vivevano fuori dal quartiere, delle coatte, in altre parole, che servivano solo per divertirsi o sfogare su di loro una sessualità repressa e quindi già malata, pronte a divenire carne da macello davanti a un eventuale rifiuto. E così è stato. Ai tempi lo stupro era ancora considerato un reato contro la morale, e non contro la persona: sono passati 45 anni da allora, ma a me non pare che nella realtà e nelle teste sia cambiato poi molto da allora... Mordini ci sa fare, il film scorre verso il precipizio, e se anche gli ultimi 20' sono duri, non c'è compiacimento e insistenza nelle scene che illustrano la violenza e il cinismo degli squallidi personaggi autori del crimine e la sofferenza delle vittime. La scuola cattolica fa da un lato rivivere quell'epoca, dall'altra ricorda quanto ci sia ancora da fare e di stare all'erta.