"Ariaferma" di Leonardo Di Costanzo. Con Toni Servillo, Silvio Orlando, Fabrizio Ferracane, Roberto De Francesco, Salvatore Striano, Pietro Giuliano, Nicola Sechi e altri. Italia, Svizzera 2021 ★★★★★
The Harder They Come, The Harder They Fall, oltre a essere il titolo di una pellicola storica (1972) che ha contribuito in modo fondamentale alla diffusione della musica reggae, è una regola che vale sempre, in particolare per il cinema: più alte le aspettative, più cocente la delusione. Qui succede il contrario: oltre alla sicurezza di assistere a un duetto inedito, quello fra Silvio e Orlando e Toni Servillo, coprotagonisti di una bravura inarrivabile proprio perché capaci come pochi di recitare sottotono entrando nelle pieghe più intime dei personaggi che interpretano, c'è la sorpresa di un film magnifico, di cui la prestazione di questi due fenomeni è soltanto un aspetto, per quanto è coeso, equilibrato, coerente, esemplare per il modo in cui non soltanto racconta una storia ma riesce a rendere qual è davvero la realtà carceraria nella sua essenza, che va ben oltre a quello che viene raccontato negli innumerevoli film e ora anche serie di "genere", specie statunitensi ma non solo. Qui non abbiamo a che fare col tipico prison movie, benché tutta la vicenda si svolga all'interno di un carcere in via di smantellamento in una località isolata dell'Italia (in realtà si tratta di quello dismesso di San Sebastiano, che si trova nel centro sella città di Sassari) nell'arco dei tre giorni che dovrebbero precedere la sua chiusura definitiva: il grosso dei detenuti è già stato smistato in altri istituti, anche la direttrice è stata spostata altrove. Rimangono cinque agenti di custodia a sorvegliare dodici detenuti che non possono al momento essere trasferiti in attesa del provvedimento che indichi la loro destinazione: il vero tema è la situazione di precarietà che prigionieri e guardie condividono, oltre allo spazio stesso, "l'aria" del titolo, in cui si trovano e il rapporto di necessaria fiducia che si deve per forza instaurare per trovare un modus vivendi, tanto più necessaria quando l'istituzione si allontana (personale di sostegno e sanitario, perfino quello religioso, che viene a mancare, la cucina che chiude). Del comando viene investito l'agente più anziano, Gargiulo (Servillo), combattuto fra senso di responsabilità e compassione, mentre la sua controparte è Lagioia, il detenuto più carismatico e pericoloso, un "lungodegente", giunto a fine pena per una serie di crimini gravissimi di cui tuttavia non si fa cenno, come per nessun altro dei carcerati salvo due: l'anziano Arzano, probabilmente protagonista di qualche reato a sfondo sessuale e quindi isolato dai suoi stessi compagni, e il giovane, fragile Fantaccini, cresciuto in una casa famiglia, il classico disgraziato vittima degli eventi, che raccoglie la solidarietà di tutti, carcerieri compresi. Di fatto è una pellicola che si basa sulla fiducia, elemento fondamentale che, al di là di regole, differenza di ruoli e gerarchie, sta alla base dell'equilibrio instabile e sui generis che regge la vita all'interno della più tipica delle "istituzioni totali": ne so qualcosa per esperienza personale e posso assicurare che situazioni come queste si presentano, qui esemplificate nei dettagli, in ogni momento della vita quotidiana in qualsiasi carcere, o almeno in quelli italiani, per lo più vecchi e decrepiti come quello del film, un'ottocentesca struttura di forma panottica a cinque raggi molto simile a San Vittore a Milano, dove peraltro ho svolto il mio servizio di leva e che conosco molto bene. E' proprio questo spazio condiviso che deve e può diventare il centro della trasformazione dell'individuo, se della detenzione non si ha una visione meramente punitiva e senza sbocchi ma, nel momento in cui lo Stato si dilegua e lascia la responsabilità al solo personale di custodia, togliendo spazi di lavoro, formazione, istruzione, socialità per mancanza di finanziamenti, è solo sul senso di umanità di quest'ultimo, a sua volta abbandonato come chi è tenuto a sorvegliare, dall'altro lato della "gabbia" ma pur sempre nello stesso spazio e dentro le stesse logiche, che viene scaricata l'unica possibilità di cambiamento per chi si trova a scontare una condanna ma rimane pur sempre una persona. Tutto questo il film non ha bisogno di dirlo esplicitamente ma lo si ricava alla perfezione da soli. Leonardo Di Costanzo, di cui avevo già avuto modo di apprezzare L'intervallo, I ponti di Sarajevo, e L'intrusa, è ancora una volta bravissimo a creare una tensione costante, senza dover ricorrere a scene di violenza, ricatti, sangue, vendette ed efferatezza varie: lo fa creando un'atmosfera sospesa ma sempre in bilico, in cui qualsiasi cosa, anche l'irreparabile, può accadere in ogni momento; la fluidità del racconto si accompagna all'attenzione per i particolari, all'uso stringato ed essenziale della parola, a una fotografia eccezionale (Luca Bigazzi) e a un accompagnamento musicale di prim'ordine ed estremamente evocativo. Oltre al duo Orlando-Servillo, eccellenti anche gli altri interpreti: un film superlativo, questo sì da candidare agli Oscar. Grande cinema e impegno civile che non ha bisogno di essere esibito e comunque tanto raro quanto prezioso di questi tempi.
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