"France" di Bruno Dumont. Con Léa Seydoux, Blance Gardin, Benjamin Biolay, Emanuele Arioli, Juliane Köhler, Gaëtan Amiel, Jawad Zemmar, Marco Bettini e altri. Francia, Germania, Italia, Belgio 2021 ★+🍒🔨
Fra tutti i film francesi in circolazione sugli schermi nostrani (sempre troppi, immagino in nome della "parentela" latina: mi chiedo però perché non vengano altrettanto diffusi con altrettanta generosità film spagnoli, portoghesi o romeni, per non parlare di quelli di ottime scuole cinematografiche come quella argentina o brasiliana, dove la popolazione di origine italiana, peraltro, conta milioni di persone e, in riva al Rio de la Plata, la maggioranza degli abitanti) ho optato inopinatamente per France, sembrandomi quello più promettente e ho sbagliato, almeno per quanto riguarda la parte sostanziale. Non nelle premesse, ché l'idea era ottima: prendere di mira il mondo cialtronesco e artefatto dell'informazione (si fa per dire) al giorno d'oggi, in particolare quella televisiva, e la sua interazione con i suoi succedanei, ossia i social network, con cui si interfaccia, ma solo in apparenza, perché si tratta di dimensioni che vivono in simbiosi reciproca: una non può fare a meno dell'altra; anzi, vi si nutre. Il risultato però è, come spesso capita nei film d'oltralpe, sconfortante: un pippone verboso, inconcludente, tutto ammiccamenti e mossettine puerili (c'è anche Macron, degno presidente di un Paese simile) che per fortuna non ho dovuto sorbirmi in lingua originale, considerato quanto si presta alle smorfie che deformano grottescamente i tratti facciali. Eroina del film è France De Meurs, sedicente giornalista televisiva specializzata nei teatri di guerra africani in quelle ex colonie che lo Stato francese considera tuttora di sua pertinenza e in cui invia il suo esercito a perpetuare i guasti già causati nel corso degli ultimi due secoli e mezzo, dove va a inscenare il suo teatrino mediatico pensando di essere in un teatro di posa e non nella realtà, tale è la mancanza di qualsiasi etica professionale e il vuoto pneumatico esistente nel suo cervello: a interpretarla Léa Seydoux, già rivista di recente come Bond Girl piuttosto fiacca (il troppo stroppia) il cui pregio è di rendere credibile il personaggio nella sua odiosità; l'attrice è poi il classico esempio di come i cugini transalpini siano abili nel vendere come unico e fenomenale il banale e financo il brutto e lo sgradevole: nella fattispecie, se vista al naturale, gli occhi piccoli e distanziati, il viso da bambola corrucciata, i lineamenti "picassiani", come li ha definiti efficacemente una mia amica, tanto sono irregolari, riescono a trasformarla in una icona sexy, un "pacco dono" avvolto in abiti Dior, raccapriccianti per quanto sono orrendi e vistosi ma tanto à la page e squisitamente pargini. Una che "buca" lo schermo, ma tutta fuffa. Che però un bel giorno si scontra con gli eventi della vita quotidiana quando, per sbadataggine, mentre sta sparando le solite puttanate al cellulare invece di concentrarsi sulla guida, investe un povero rider marocchino. Niente di grave, il disgraziato si rompe solo una gamba, ma Francine, peraltro subito beccata dalla concorrenza e sbattuta in prima pagina perché i testimoni del fatto l'hanno immortalata coi cellulari mandando immediatamente tutto in rete, sembra fare un tuffo nella realtà e comincia a molestare la famiglia del malcapitato per convincerla ad accettare un indennizzo, un po' per senso di colpa e un po' per scena. Anche in casa (e che casa: basta vedere come è arredata per capire la consistenza del personaggio e il buon gusto dei francesi) le cose non vanno meglio: tratta il marito, un romanziere piagnucoloso, e il loro odioso figlio preadolescente, come come due macachi, e qui per una volta siamo solidali con lei ma fino a un cerro punto: del resto uno l'ha scelto, e l'altro lo ha prodotto. Cade in depressione, molla il programma di cui è l'unica star e si rifugia per un mese tra le montagne savoiarde o svizzere, già depressive per conto loro, dove in una struttura per malati mentali di lusso incrocia un giovine cazzone che si spaccia per professore di latino e se ne innamora; peccato che sia un suo collega annusapatte in cerca di scoop, ma l'idiota lo scoprirà soltanto una volta rientrata a Parigi e al lavoro, da cui si era per un certo periodo sospesa. Oh: finalmente la legge del contrappasso e finalmente la stronza ha quel che si merita, pensa lo spettatore, ma non è finita, perché altre sciagure si abbattono sulla deficiente, ma nulla riesce a smuoverla dalla sua tetragona imbecillità e dal suo egocentrismo patologico, peraltro alimentato dalla sua assistente, se possibile ancora più insopportabile di lei: non vado oltre con lo spoiler, anche se a questo punto vi sarete resi conto che cerco di sconsigliarvi la visione di questa mappazza indigesta, a meno che non desideriate alimentare la vostra avversione verso tutto ciò che è francese. Due ore e un quarto, quando una e mezzo sarebbero già state più che sufficienti per quel poco che il regista è riuscito a mettere sul piatto mentre l'argomento avrebbe meritato o un approccio più serio, o una vena sarcastica ben più dissacrante di questa satira all'eau de rose, innocua e perfino compiaciuta, quasi complice. Fate voi...
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