lunedì 4 ottobre 2021

Quo vadis, Aida?

"Quo vadis, Aida?" di Jasmila Žbanić. Con Jasna Djurić, Boris Isaković, Johan Heldenburg, Raymond Thiry, Emir Hadzihafifbegović, Reinout Bussemaker, Jelena Kordić, Johan Heldenberg, Edita Malovčić, Mario Knezović, Boris Ler e altri. Bosnia ed Herzegovina, Austria, Romania, Paesi Bassi, Germania, Polonia, Francia, Norvegia, Turchia 2020 ★★★1/2

Jasmila Žbanić, regista e sceneggiatrice sarajevese, già aveva scavato nelle ferite lasciate dalle guerre jugoslave degli anni Novanta con Grbavica (in italiano Il segreto di Esma), col quale aveva vinto l'Orso d'Oro alla Berlinale del 2006. Con questo film drammatico, ispirato alla testimonianza del traduttore bosniaco Hasan Nuhanović, che nel 1995 lavorava per i Caschi Blu olandesi incaricati di garantire la sicurezza della zona, racconta l'eccidio di Srebrenica, in cui vennero uccisi 8372 musulmani bosniaci di sesso maschile, esclusi i bambini, e lo fa in maniera impeccabile, ricostruendo con credibilità e il massimo di obiettività per lei possibile le fasi che hanno portato al tragico epilogo e le relative responsabilità: in primis quella del generale Ratko Mladić, comandante delle truppe della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina, condannato all'ergastolo dal Tribunale Penale Internazionale per l'ex Jugoslavia dell'Aja, ma alla pari con gli imbelli militari olandesi e i loro capi, per non parlare dei loro referenti presso l'ONU, irreperibili nel momento di massima necessità. Queste le verità storiche, che emergono dalla vicenda che vede protagonista Aida, una professoressa di inglese che lavora come interprete per i Caschi Blu olandesi all'interno della base di Potočari, un ex capannone industriale dove si erano radunate migliaia di profughi bosniaci, e altre se ne stavano ammassando all'esterno, in fuga davanti all'avanzata delle truppe serbe, che sarebbero entrate a Srebrenica l'11 luglio del 1995, città che era stata dichiarata Zona Sicura, senza specificare cosa significasse e con quali garanzie e mezzi, ma che, in mancanza di copertura aerea, pur più volte sollecitata inutilmente, era caduta nelle mani degli uomini del generale Mladić. Che ne garantiva l'incolumità e il trasferimento a Kladanj, e per questo aveva avviato trattative con gli olandesi e i rappresentanti del profughi, tra cui il marito di Aida, già preside del liceo cittadino. Mentre queste erano in corso, in un fumoso locale del comando serbo, altri uomini dello stesso Mladić si presentavano a Potočari, rimasta sguarnita di ufficiali superiori, pretendendo di entrare nella base per controllare che non vi fossero presenti uomini armati, e seminando così il terrore fra i profughi già provati da giorni di incertezza, fame e disagi. Aida è testimone di tutto questo e anche parte personale: conosce ed è conosciuta dai suoi concittadini che le chiedono di intervenire per potere essere accolti nella base e così forse sfuggire ai serbi, a caccia di vendetta, ma il massimo che otiene è farvi nascondere per una notte il marito e i due giovani figli, che però gli stessi olandesi consegneranno agli uomini di Mladić quando, come da accordi, la base verrà abbandonata e il trasporto dei profughi organizzato: ma riguarderà solo donne e bambini, perché i maschi verranno separati e fucilati in massa nel retro della base stessa. Non sotto gli occhi di tutti ma abbastanza perché non mancassero dei testimoni. Nelle ultime scene Aida tornerà, dopo anni, nella sua città, per il riconoscimento di quanto ritrovato dei suoi cari nelle fosse comuni e nel suo appartamento, per recuperarne delle foto dagli occupanti attuali e ottenerne la restituzione, e tornerà a insegnare inglese ai bambini della scuola locale: una difficile riconciliazione è avviata, vuole dire la regista, e per questo occorre ristabilire la memoria, senza rimuoverla. Come troppi hanno fatto. E qui veniamo al lato dolente della faccenda, che non inficia il valore del film in quanto tale, che va visto, per il suo rigore e la sua onestà e la bravura degli interpreti, in particolare Jasna Djurić, Boris Isaković, nei panni della protagonista Aida e del generale Mladić che, guarda caso, sono entrambi serbi. Il che mi suggerisce la considerazione che, benché in ogni film sulle Guerre Jugoslave vengano regolarmente dipinti come dei malvagi, dei mostri, dei sadici, hanno sempre, già ai tempi, messo in discussione le scelte dei loro dirigenti politici, e successivamente riconosciuto le proprie responsabilità e chiesto scusa, anche per il massacro di Srebrenica, benché il governo serbo si rifiuti, e con qualche ragione, di considerarlo un genocidio. Cosa che non mi è mai capitato di notare con altrettanta chiarezza dall'altra parte, croata o bosniaco-islamica, né nella società civile né nella "narrazione" storica, né nella trasposizione cinematografica. Non ci sono innocenti, in tutte le scelte che hanno portato a quelle guerre. Meno che mai in quella bosniaca. Dove si dimentica spesso che l'indipendenza venne proclamata nel marzo del 1992 in seguito a un referendum forzato e truffaldino a cui non aveva partecipato la "minoranza" serba, che costituiva il 34% della popolazione e abitava un terzo del territorio. Cui era stata negata analoga possibilità di chiedere di rendersi indipendente ed accorpato alla Serbia, e invece avrebbe dovuto accettare di essere governato da una maggioranza (comunque relativa: poco oltre il 40% della popolazione) e per di più islamica. L'altro aspetto che si dimentica è che quest'ultima componente, assieme a quella croata, metteva in campo oltre 250 mila uomini armati, compreso qualche migliaio di jihadisti venuti dall'estero, sostenuti e foraggiati da pressoché tutti i Paesi occidentali (leggi NATO, Turchia compresa), contro gli 80 mila della Republika Srpska, pur coadiuvata da cetnici e paramilitari, appoggiati, di fatto, soltanto da Russia e Grecia. E che ci si trovava in guerra, non a un pranzo di gala, e quella guerra i soldati serbi la stavano vincendo (non a caso l'Impero Austroungarico, conoscendone il valore, li aveva stanziati nelle krajine, zone di frontiera con l'Impero Ottomano, le stesse krajine da cui la Croazia, sempre a proposito di "pulizia etnica", ne avrebbe sloggiati 250 mila dove avevano abitato per oltre 300 anni, offrendo protezione e terre in cambio dell'autodifesa dei territori), e in tutto il film non ci si chiede mai dove fossero finiti i soldati dell'esercito bosniaco, che invece erano spariti lasciando la loro gente da sola in mano agli avversari. Domande di buon senso che, per spirito d'equità, è lecito farsi. Come anche sui Paesi che sono coinvolti nella produzione del film: tutti o quasi quelli che avevano parteggiato per la dissoluzione dell'ex Jugoslavia riconoscendo da subito la dichiarazione d'indipendenza di Slovenia e Croazia e poi quella bosniaca, sostenendo e armando il presidente Izetbegović e l'alleanza bosgnacco-croata (finché ha retto) e avversato in ogni modo la Serbia. L'avevo notato nei titoli di coda e l'ho verificato di nuovo: guarda caso c'è anche la Turchia. Manca solo il Vaticano: ci avrei visto bene lo IOR tra i finanziatori della pellicola. 

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