martedì 29 settembre 2020

Guida romantica a posti perduti

 "Guida romantica a posti perduti" di Giorgia Farina. Con Clive Owen, Jasmine Trinca, Irène Jacob, Andrea Carpenzano, Teco Celio, Edoardo Gabriellini e altri. Italia 2020 ★-

Attirato da un cast di prim'ordine per una produzione non certo stellare, e da una sorta di film di viaggio in posti inconsueti, sono rimasto deluso dal risultato, essenzialmente per una sceneggiatura piuttosto sciatta che non consente alla commedia di decollare sfruttando le potenzialità degli interpreti, quanto mai adatti al ruolo. Benno e Allegra vivono in due appartamenti soprastanti senza essersi mai incontrati, assorbiti come sono ciascuno nel loro mondo e dai loro problemi esistenziali: uno (Owen) è un giornalista di stanza da anni in Italia per una TV inglese che vive a Roma assieme alla moglie francese (Jacob), un'infermiera, ed è un alcolizzato cronico; l'altra è una blogger di viaggi (compiuti tutti sulla carta e senza uscire di casa) che soffre di crisi di panico e agorafobia e ha una relazione con un ragazzo più giovane (Carpenzano) che ne è innamorato e vorrebbe una relazione più stabile: sono l'opposto l'uno dell'altra, come si addice a ogni classica strana coppia cinematografica, col vizio in comunque di raccontare balle, non soltanto al prossimo ma per primi a sé stessi. Si incontrano per caso per via di un incidente causato dalle rispettive magagne caratteriali e, per una serie di circostanze, si trovano senza vie di uscita se non intraprendono, da perfetti sconosciuti quali sono, un viaggio su una vecchia Golf azzurra, lungo quel percorso di "posti perduti" oggetto di una serie di articoli progettati da Allegra: per una volta dei blog dal vero. In sostanza un viaggio alla ricerca di sé stessi attraverso luoghi che hanno avuto un significato nel passato, che riguarda lei ma anche lui perché, guarda caso, è nato vicino a Standord, meta di questa peregrinazione, una cittadina inglese abbandonata dai tempi in cui fu evacuata durante la Seconda Guerra Mondiale per farne un campo d'addestramento e che "rivive" soltanto il 30 aprile di ogni anno, quando vi si radunano i superstiti cittadini di allora e i loro discendenti. Dopo aver attraversato l'Italia, fermandosi a San Vittorino, poco fuori Roma, dove c'è una chiesa allagata; poi a Crespi d'Adda, caso esemplare di archeologia industriale; un vecchio parco giochi abbandonato e un castello di ferro in Francia; giungono infine, in Inghilterra, in una sorta di base militare e scopriremo, guarda caso, che i loro problemi nascono da traumi famigliari: la morte prematura della madre per Allegra e l'abbandono da parte di entrambi i genitori per Benno. E qui si apre la speranza (è tutto dire) in un ballo sfrenato durante un'alba gelida nel giardino di una casa semiabbandonata sulle note di Pretty Vacant dei Sex Pistols, mentre in precedenza dall'autoradio abbiamo sentito uscire la voce di Piero Ciampi: le due cose migliori di questa pellicola sfilacciata, asfittica, ripetitiva e per il resto poca cosa.

domenica 27 settembre 2020

Undine - Un amore per sempre

 

"Undine - Un amore per sempre" (Undine) di Christian Petzold. Con Paula Beer, Franz Rogovski, Maryam Zaree, Jakob Matschenz, Gloria Endres de Oliveira, Rafael Stachoviak e altri. Germania, Francia 2020 ★★★

Col vizio che hanno i distributori nostrani di italianizzare i titoli dei film stranieri (qui con l'aggiunta di "un amore per sempre", che è ciò a cui aspirano i due protagonisti principali della storia, sostanzialmente uno spoiler) non si capisce perché stavolta abbiano lasciato in lingua originale Undine, che è la versione tedesca di Ondina: una per tutte la Valla, prima italiana a vincere una medaglia d'oro alle Olimpiadi, combinazione nell'edizione del 1936 a Berlino, che della bella e malinconia favola di Petzold è coprotagonista. La Undine impersonata dalla giovane, fresca e bravissima Paula Beer è una storica free lance che lavora al Märkisches Museum della capitale tedesca e racconta, fornendo esaustivi chiarimenti attraverso una serie dei plastici dei successivi interventi urbanistici e architettonici sulla città, il suo continuo ripensarsi adattandosi alle necessità e ai mutamenti storici, in particolare dal secondo dopoguerra quando, divisa in due, fu ricostruita con criteri opposti, ispirati alle ideologie che sorreggevano i rispettivi sistemi, a Est e a Ovest, "vetrina" per entrambi, e poi anche dopo la caduta del Muro nel 1989, quando si trattava di reintegrarsi a vicenda. Rigenerarsi: come capita a Undine, che viene lasciata dall'uomo Johannes, che le aveva giurato fedeltà eterna. Le ondine, però, sono in origine delle ninfe, esseri acquatici, già presenti nella mitologia dell'antica Grecia (lo erano le Sirene) come anche in quelle germaniche (la Lorelei della Canzone dei Nibelunghi, la Sirenetta a Copenaghen), destinate ad incantare gli uomini, talvolta in maniera ingannevole, altre in modo amichevole, e così alla nostra storica dell'architettura capita di ammaliare inconsapevolmente Christoph in occasione di una visita guidata attraverso le sue spiegazioni, e l'entrata di questo giovane palombaro industriale (Franz Rogovski, già partner della Beer nel notevole La donna dello scrittore, sempre di Petzold) nella sua esistenza è fin dall'inizio segnata dall'elemento acquatico, l'esplosione di un acquario in un locale, che sommerge i due "naufraghi", una sorte di Cupido liquido che sparge pesci tropicali e schegge di cristallo invece che scoccare frecce. E' un colpo di fulmine che sembra destinato a durare in eterno e segnato dall'elemento acqua (data anche la professione di Christoph) fino al giorno in cui il giovane la chiama arrabbiato perché lei non gli aveva detto che durante una passeggiata avevano incontrato proprio Johannes. Lui, che è estremamente sensibile, se ne era accorto dal battito accelerato del suo cuore e non transige sul principio che in amore non occorra nascondersi nulla. Da qui la fiaba prende un andamento ancora più onirico, lei lo cerca ma lui non risponde, succedono cose strane e tragiche, comprese la vendetta promessa da Undine a Johannes e un incidente sul lavoro a Christoph, ma è sogno o realtà? L'interpretazione è lasciata allo spettatore: mentre Christoph ricostruirà la sua esistenza ma senza dimenticare mai quel suo (impossibile?) amore, non si sa se ne sarà capace e dove sparisca Undine, che del reinventarsi di una città come Berlino aveva fatto il fulcro del suo impegno professionale. Immagini quanto mai suggestive, quelle di un mondo sommerso, pieno di simboli, un'atmosfera dove reale e fantastico si incontrano e si integrano e si fondono, come spesso nei film di Petzold costituendone il fascino e il punto di forza. Ancora una volta un ottimo lavoro. 

venerdì 25 settembre 2020

Apocalypse Now - Final Cut

"Apocalypse Now - Final Cut" di Francis Ford Coppola. Con Martin Sheen, Marlon Brando, Robert Duvall, Frederic Forrest, Sam Bottoms, Laurence Fishburne, Harrison Ford, Dennis Hopper, Scott Glenn e altri. USA 1979/2019 

E' del tutto superfluo che faccia un riassunto del film e racconti, seppur succintamente, di cosa parla: prendiamolo come un viaggio nel Cuore di tenebra (romanzo di Conrad a cui notoriamente si ispira) che abita, bene occultato, in ogni uomo; nell'inferno della guerra, e di quella in Vietnam in particolare, con cui fa i conti in maniera definitiva; con le contraddizioni insanabili di un Paese come gli USA. In ogni caso un capolavoro, immaginifico, onirico, a tratti allucinante eppure spaventosamente realista. Questa è la versione che, dopo quarant'anni di continui ripensamenti e ritocchi in studio, il suo regista considera definitiva: è la terza, più lunga di una mezz'ora di quella originale del 1979, 153', e più breve di quella Redux del 2001 di 20'. E' decisamente quella che preferisco anch'io: siamo alla perfezione, ammesso che possa esistere. Fondamentale a mio parere la scelta di includervi le scene del soggiorno di Willard e di ciò che rimane della sua squadra nella piantagione tra Vietnam e Cambogia presidiata da un gruppo di irriducibili coloni ed ex militari francesi, che spiegano chiaramente perché, non facendo tesoro degli errori dei loro governi e comandi, non potranno mai vincere quella guerra. Dando sostanzialmente ragione al ribelle Colonnello Kurtz. Presentato da Francis Ford Coppola in persona l'anno scorso al Cinema ritrovato di Bologna. Emozionante. Correte a vederlo (e rivederlo) se vi capita a tiro, specie in una sala dotata di attrezzatura che supporta la proiezione in formato 4K Dolby Vision.

mercoledì 23 settembre 2020

Il meglio deve ancora venire

 

"Il meglio deve ancora venire" di Alexandre de la Patellière e Matthieu Delaporte. Con Fabrice Luchini, Patrick Bruel, Zineb Triki, Pascale Arbillot, Marie Narbonne, Jean-Marie Winling, André Marcom Therry Godard, Martina García e altri. Francia 2019 ★★★+

Niente di nuovo sotto il sole: amicizia e morte, amori e fugacità dell'esistenza sono gli ingredienti  che condiscono numerose pellicole e qui vengono miscelati in salsa francese in un classico buddy film declinato come commedia degli equivoci che ha per protagonisti Arthur (Luchini, come sempre fenomenale) e César (il poliedrico Bruel): vederli in azione è stato un motivo più che sufficiente per motivarmi ad andare a vederlo, rimanendone complessivamente soddisfatto. Amici per la pelle fin dall'infanzia, trascorsa in un severo collegio di preti dalle parti di Biarritz, questa volta la "strana coppia" è costituita dal primo, ricercatore medico dell'Istituto Pasteur di Parigi, pignolo, ligio alle regole in maniera maniacale, divorziato ancora in vana attesa del ritorno all'ovile della moglie e pedante genitore di un'adolescente, mentre il secondo è uno sfrenato libertino, sboccato, dalla vita caotica, con un irrisolto rapporto col padre, che più diversi non potrebbero essere: durante la procedura di pignoramento per l'ennesimo fallimento, cade da una finestra e si ferisce cadendo su un cespuglio e come se non bastasse viene sbattuto fuori di casa dalla fidanzata del momento, così si rifugia da un amico. Arthur, che è medico, lo porta in ospedale a fare delle lastre di controllo da cui risulta il quadro imprevisto di un tumore incurabile ai polmoni che lascia a César pochi mesi di vita; per un equivoco, quest'ultimo, si convince però che ad essere malato sia l'amico, che a sua volta non ha cuore di chiarirlo da subito rinviando di volta in volta il momento di svelargli la verità, e così Cèsar trasferisce armi e bagagli da Arthur con l'intenzione di realizzare a turno le rispettive liste delle "cose da fare una volta nella vita" da cui emergono ancora una volta i loro opposti caratteri. Su questa falsariga, e con parentesi on the road, si muove questa pellicoa dolce-amara, con dialoghi frizzanti, episodi esilaranti e una svolta sorprendente (anche se César morirà ci sarà comunque una sorta di lieto fine), uno sguardo ironico sull'attualità e i suoi luoghi comuni, e un altro disincantato sul senso delle cose e sui rapporti umani. E la forza dell'amicizia. Gradevole, probabilmente un taglio del 25% delle due ore di durata avrebbe giovato al film. Con quello che passa la distribuzione, questi tempi, comunque, non lamentiamoci.

lunedì 21 settembre 2020

Un altro referendum sul niente


Una pagliacciata. La diatriba sul sì o il no al referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari, l’ennesimo tentativo di rappezzatura della Costituzione fatta passare per riforma, è stato il nauseante tormentone estivo passato su tutti i media, peggio quasi della diuturna conta dei contagiati da Covid. Un tempo provvedevano allo stagionale fenomeno di rimbecillimento della pupulasiùn le canzonette dai ritornelli orecchiabili, questi qua invece non si possono più sentire, che si tratti dei giornali sempre meno letti e venduti, TG e GR dell’informazione unica, oppure dei rari che cantano fuori dal coro, come il Fatto Quotidiano: ma anche il continuo starnazzare di Marco Travaglio ha superato i limiti del sopportabile, per quanto mi riguarda. Mi hanno rotto a tal punto i coglioni tutti quanti, compresi i costituzionalisti del Sì come Carlassare e Zagrebeksky, che pure avevano contribuito a demolire l’aborto di riforma targato Boschi-Verdini e la carriera politica di Renzi che l’aveva proposta, che ieri di prima mattina ho preso su la mia tessera elettorale per andare a scrivere sulla scheda NO al SÌ e NO al NO, annullandola. Qualcuno si chiederà perché un anarchico come me insista ad andare ai seggi pur non credendo alla democrazia rappresentativa e avversando ogni autorità a cominciare dallo Stato, e la risposta è che preferisco invalidare la scheda o votare contro qualcuno o qualcosa pur che chi ci crede abbia la possibilità di esprimersi: che tanto sia sufficiente a frenare risorgenti forme di fascismo mai morto e pulsioni nazionalistiche ne dubito, come della intelligenza delle masse, così facili da manipolare e ricattare (soprattutto immiserendole, terrorizzandole e narcotizzandole con la fuffa), ma finora ha funzionato. Comunque, se proprio devo avere a che fare con uno Stato, preferisco che sia nella sua versione liberale, meno invadente possibile, con poche regole però chiare, ma soprattutto serio e non una sua caricatura farsesca e cialtrona come quella che abbiamo sul groppone da quasi 160 anni. Faccio quindi mie buona parte delle considerazioni,
 di semplice buon senso politico, e traendone le medesime conseguenze, di Enzo Marzo, direttore di Critica Liberale, una delle poche riviste che, pur condividendone soltanto in parte (modesta) le posizioni, leggo sempre con interesse. 

Una premessa (la più breve possibile e strettamente personale): pur non partecipando ad alcun Comitato, per me era scontato votare NO semplicemente perché contrario al populismo demagogico e qualunquista della parte (maggioritaria?) del paese. Invece domani mi asterrò, annullando la scheda, perché non mi va di ingurgitare a forza una crema impazzita. 

La riforma costituzionale sul taglio dei parlamentari si regge su una questione di poco significato perché il numero dei parlamentari non dovrebbe essere deciso a caso in base al ventre, bensì al sistema elettorale e al coordinamento con altre norme costituzionali. Per “fare scena” si è preferito partire dal tetto e non dalle fondamenta.

Forse era inevitabile, ma nelle ultime settimane invece di discutere sui contenuti  si è voluto caricare il referendum di mille colori contraddittori, finché la crema non è impazzita: partiti politici che alcuni mesi fa hanno votato la Riforma oggi sono per il No, o comunque registrano molti “franchi tiratori”; partiti che hanno votato No alla Riforma Renzi-Verdini, che dimezzava il parlamento, adesso sono sostenitori del SÌ; molti fautori del SÌ fanno finta di non vedere il significato politico che è andato assumendo questo voto e si aggrappano esclusivamente ai numeri; altri che predicano per il No denunciano giustamente il significato antidemocratico e antiparlamentare della riforma, ma fanno finta di non accorgersi che la destra, con Berlusconi in testa e alcuni giornali come il “Trasformista” di Sansonetti, vede nel NO lo strumento per far cadere  il governo. Nel frattempo il ceto politico (nessuno escluso) aiuta sfacciatamente il SÌ dando proprio nelle regionali il peggio di sé inzeppando le liste di trasformisti, opportunisti, delinquenti comuni, indecenti legati alla criminalità organizzata ecc.. Ormai la casta politica non si preoccupa nemmeno un briciolo della propria reputazione e mina così alla radice la già scarsa fiducia dei cittadini nella democrazia rappresentativa. Le liste di De Luca in Campania sono il punto terminale della sinistra a guida Pd.

Infine tutti confidano che l’effetto covid sull’astensione porti acqua al proprio mulino.

Il colmo del paradosso è stato raggiunto dal Pd che, legato dal patto governativo, è stato costretto a sostenere il SÌ e lo ha fatto nel modo più suicida. Così è stato scelto lo scemo più scemo di tutto il villaggio per scrivere il volantino ufficiale con le motivazioni, leggiamole alcune: «Perché ridurre a 600 i parlamentari che votano la fiducia è oggi la via per arrivare a un monocameralismo che superi la storica inefficienza del bicameralismo paritario» (ma allora perché il Pd approva norme come quelle delle parificazione dell’età degli elettori per entrambi i rami del parlamento?); «Perché un parlamento più sobrio nei numeri può favorire un rapporto più forte tra eletto ed elettore, aumentando la responsabilità dei primi e la vigilanza dei secondi» (qui non si capisce in che paese viva il Partito democratico, certamente non in Italia); «Perché la bocciatura della riforma 2016 ci impone ora di procedere per tappe. Il SÌ dà una prima risposta e apre una breccia per altre riforme. Il NO dimostrerebbe l’irriformabilità delle istituzioni». Non si sa se questo punto sia soltanto prova di stupidità o di scaltra doppiezza, perché, collegando strettamente questa riforma a quella sciagurata di Renzi-Verdini, bocciata a furor di popolo, si regala al No in un sol colpo quel 59% di elettori che già espresse il suo giudizio negativo. Insomma, un suicidio.

All’origine di questo guazzabuglio c’è la decisione , secondo me irresponsabile, di quella settantina di parlamentari (e comitati annessi), i quali con il referendum hanno cercato lo scontro nel momento più inopportuno. Dietro c’è quel principio, portato avanti dai radicali da sempre, che è meglio perdere, seppellire per sempre il tema affrontato col referendum e avvantaggiare gli avversari pur di comparire per qualche giorno nella società dello spettacolo.

Piuttosto che correre il rischio di aggiungere al voto plebiscitario del parlamento anche il definitivo sigillo popolare, forse sarebbe stato più saggio aspettare un cambio di classe dirigente in molti partiti e lo svuotamento elettorale pressoché certo del M5S. E semmai impostare una riforma complessiva non improntata a interessi particolari del momento. (Come si vede, ancora credo nelle utopie).

L’opportunismo della cricca politica ha fatto il resto. Nessuno in questa paradossale campagna ha detto che il tema era semplicemente sbagliato: non è il numero che fa la sostanza ma il fatto ovvio quanto rivoluzionario che i parlamentari siano eletti dagli elettori e non nominati da una mezza dozzina di Capi di partiti scevri di ogni democrazia interna. Tutto qui.

Infine, a complicare in modo determinante ogni decisione è arrivata la volontà di trasformare il referendum  in un consultazione diretta sulla fiducia nei confronti del governo Conte. Anche il penultimo referendum fu molto politicizzato sia per dichiarazione del perdente sia oggettivamente, perché la riforma, assommata alla legge elettorale Italicum, mostrava con evidenza lo spirito fortemente autoritario e antidemocratico che ne era alla base.

Anche in questa occasione, il tutto si è politicizzato. Proprio all’ultimo, Berlusconi spinge il popolo di destra a votare NO contro una riforma da lui votata semplicemente perché alla coerenza privilegia la caduta del governo. Obiettivo forse impossibile, ma è molto possibile invece che si raggiunga il risultato di metterlo in grave crisi politica e di delegittimarlo. Soprattutto se una vittoria del No si dovesse assommare al previsto disastro alle regionali delle forze di maggioranza governativa. (Sarà motivo di riflessione post elettorale se il popolo grillino, aderendo alla linea Di Battista, rifiuterà il voto disgiunto e farà vincere Salvini e le Destre).

Mi dispiace molto, ma tra un SI’ che sancisce la vittoria del qualunquismo nazionale e un NO che indebolisce molto fortemente un governo, in altri tempi non avrei avuto alcun dubbio. Di governi, ne abbiamo avuti fin troppi. E spesso uno uguale all’altro. Ma oggi il paese è in un momento drammatico e soltanto la possibilità di un Covid gestito dalle Destre o da qualunque altro pasticciaccio consociativo alla Napolitano mi fa venire i brividi. Dato che le regole della democrazia non mi costringono a scegliere tra la padella e la brace, preferisco spegnere il gas.

domenica 20 settembre 2020

Porta Pia: e se fosse stata una cazzata?



20 settembre 1870, Roma: la "Breccia" di Porta Pia

Ricorre oggi, praticamente dimenticato, il 150° anniversario della presa di Porta Pia: "gloriosa pagina finale dell'Epopea del Risorgimento Italiano", come usava decantare l'impresa nient'affatto eroica la retorica nazionalista di un tempo (oggi abbiamo i rutti e le scoregge di Salvini con tanto tintinnar di crocefisso e il ringhio bava alla bocca della Meloni o la melassa della mummia che siede al Quirinale: non so cosa sia peggio), l'Eterna Roma tornava all'Italia per divenirne, l'anno successivo, la nuova capitale del Regno Sabaudo, dopo Torino e Firenze. Siccome in questo Paese la memoria è quella del pesce rosso e la conoscenza della storia un optional anche a scuola, la grande maggioranza dei cittadini che oggi vanno a votare, tra referendum ed elezioni amministrative, ignora il perché in pressoché tutti i comuni italiani una via o una piazza, di solito fra le principali, sia dedicata alla ricorrenza del XX Settembre data che, fino alla firma dei Patti Lateranensi l'11 febbraio del 1929 da parte del Cavalier Benito Mussolini, Duce del Fascismo e già esponente di spicco del Partito Socialista nonché direttore dell'Avanti! e noto "mangiapreti", era festa nazionale, sostituita, fino al 1977, da quella della Conciliazione (con la Santa Sede, per l'appunto)giorno in cui i più anziani di coloro che mi leggono ricorderanno che non si andava a scuola. La domanda che mi pongo è: ne è valsa la pena? E se la rogna di amministrare Roma nell'ultimo secolo e mezzo se la fosse grattata il Vaticano, invece di farsi mantenere dallo Stato italiano e dai suoi contribuenti? Niente Marcia su Roma, per mancanza dell'oggetto del contendere, niente adunate oceaniche in Piazza Venezia, niente mito della romanità e sacri destini dell'impero immortale e altre facezie dalle tragiche conseguenze, magari ci saremmo anche risparmiati la Lega perché Roma ladrona non avrebbe potuto esserne la ragion d'essere. Sì, definitivamente: è stata una grandissima cazzata.

sabato 19 settembre 2020

Le sorelle Macaluso

"Le sorelle Macaluso" di Emma Dante. Con Anita Pomario, Donatella Finocchiaro, Ileana Rigano (Pinuccia)Eleonora De Luca, Simona Malato (Maria)Susanna Piraino, Serena Barone, Maria Rosaria Alati (Lia)Alissa Maria Orlando, Katia Giordani, Rosalba Bologna (Katia); Viola Pusateri (Antonella). Italia 2020 ★★★½

Secondo film per la valente attrice, regista e drammaturga siciliana dopo Via Castellana Bandiera di sette anni fa: mentre quello era tratto da un suo romanzo, Le sorelle Macaluso è la versione cinematografica del suo trascinante lavoro teatrale dallo stesso titolo, Premio Ubu per la miglior regìa per il 2014, che purtroppo mi ero perso ai tempi, che qui diventano cinque anziché sette: io le ho elencate in ordine decrescente di età. Le vediamo in tre fasi dell'esistenza, ognuna delle quali occupa circa un terzo della durata della pellicola (94'): tra l'infanzia e l'adolescenza, nella maturità, nella vecchiaia (quando rimarranno in tre) e di esse non sappiamo nulla, salvo che vivono all'ultimo piano di un palazzo di una Palermo periferica non lontano dal mare dove, su un terrazzo chiuso, allevano piccioni che vengono "ingaggiati" per essere "liberati" durante i matrimoni e poi rientrano alla base. E' grazie a questa attività che sopravvivono in una casa piena di oggetti, giocattoli e mobili che suggeriscono una vita di famiglia che sopravvive nel ricordo: si suppone che siano rimaste orfane e si arrabattino così per tirare avanti. Un universo femminile fatto di movimento e ritmo, come sempre nel teatro della Dante, parole, scontri di caratteri molto diversi: Lia, che legge e parla da sola, detesta e invidia la sorella maggiore, Pinuccia, la bellona, perennemente innamorata e ha scoppi d'ira incontrollabili; Maria, la seconda in ordine d'età, è graziosa, sensibile, dolce e sogna di fare la ballerina classica; Katia, la quarta in ordine d'età, è quella efficiente ed è l'unica che si sposerà e avrà un figlio; Antonella è la più piccola, e osserva e studia con attenzione le altre, che la vezzeggiano a turno, e le loro interazioni, oltre ai piccioni che tanta parte hanno nella vita di loro tutte. Un giorno d'estate, siamo tra gli anni Settanta e Ottanta, le cinque sorelle vanno al mare, nei pressi di uno stabilimento in stile Liberty chiamato Charleston, e lì accade un incidente che le segnerà per il resto della loro esistenza. Al momento lo intuiamo, come sono esattamente accaduti i fatti lo apprenderemo nelle successive fasi di vita delle sopravvissute. Che alla fine del film rimarranno in due, a sgombrare la casa divenuta man mano più fatiscente e dove convivono le sue sorelle che meno si sopportano, Pinuccia e Lia, precipitata sempre più nella follia e ne capiremo il motivo. Film carnale, colorato, espressionista, potente ma al contempo poetico e visionario, prodotto con pochi mezzi (dal collega e coetaneo della Dante Giuseppe Battiston) ma tanta passione, rigore e chiarezza di idee, che si avvale di interpretazioni di altissimo livello e di una colonna sonora strepitosa: Inverno di Fabrizio De André cantata da Franco Battiato fa venire i brividi. Bellissimo film, da vedere assolutamente. Ovviamente a Venezia, dov'era in concorso, non è stato premiato. 

giovedì 17 settembre 2020

Notturno

"Notturno"di Gianfranco Rosi. Italia, Francia, Germania 2020 ★★½

Gianfranco Rosi si conferma dopo Fuocoammare e convince con questo Notturno (che lo è solo in parte in quanto alcune riprese sono state fatte anche alla luce del giorno, perché il regista, pur partendo da un'idea, si adegua poi all'ambiente che va a esplorare per girare le sue pellicole, che se sono qualcosa di diverso da un film d'intrattenimento sono però anche più di un semplice documentario) con cui amplia il suo sguardo: dalla Roma marginale e periferica di Sacro Gra (che forse dovrei rivedere e poi probabilmente rivalutare) agli abitanti dell'isola di Lampedusa e ai suoi ospiti venuti dal mare della sua penultima fatica, alle zone di confine tra Libano, Siria, Irak, Iran, prevalentemente in quello che si chiama Kurdistan, popolato da un'etnia con una cultura specifica suddivisa artificialmente tra i vari Paesi sulla base di confini tracciati in maniera del tutto arbitraria dopo la disgregazione dell'Impero Ottomano dalle potenze vincitrici dalla Grande Guerra, in particolare Gran Bretagna e Francia, che hanno ridisegnato in base ai loro interessi e del tutto ignorando la storia e la cultura di civiltà millenarie tutta quell'area che chiamiamo Medio Oriente. Con le devastanti conseguenze che regimi dittatoriali, invasioni, asservimento agli interessi stranieri, invasioni, fanatismi religiosi hanno causato nell'ultimo secolo e ancora lo rendono una delle zone più inquiete e pericolose dei pianeta. Eppure si vive e sopravvive, e il come Rosi lo racconta in immagini seguendo una squadra di peshmerga, combattenti curde, durante le sue perlustrazioni e i bivacchi; la battuta di caccia alle anatre di un uomo in un canneto; il giro notturno nelle vie di una città di un giovane sposo che intona le lodi di Maometto al ritmo di un tamburo; l'allestimento di uno spettacolo teatrale in un ospedale psichiatrico di Baghdad incentrato sulla vicende storiche di una patria, e una popolazione, costantemente tradite; un ragazzo che si sveglia all'alba cercando lavoro a giornata per aiutare la numerosa famiglia e l'intimità di questa nelle poche ore di riposo; il viavai in un posto di confine e nei pressi di un campo di rifugiati; un gruppo di anziane donne che visita il luogo in cui furono imprigionati, torturati e uccisi i loro figli ed evoca la loro presenza attraverso le tracce di sangue e le scritte sui muri; una maestra di scuola che fa terapia di sostegno in classe a dei ragazzini yazidi perseguitati dall'Isis attraverso i loro disegni pieni di orrore; l'ora d'aria di un gruppo di detenuti che escono uno dopo l'altro nel cortile di un carcere, vestiti in sfolgoranti tute arancioni che spiccano nell'ambiente grigio del complesso e in una giornata livida per fare poi ritorno nelle celle in fila indiana, la mano appoggiata sulla spalla di quello che precede; le telefonate clandestine delle figlie sequestrate dall'Isis alle madri per cercare di rassicurarle nella oro angoscia. Storie di varia umanità che Rosi si limita a rappresentare, con immagini suggestive ma mai artefatte e senza retorica, però stilisticamente esemplari (la fotografia è di Luca Bigazzi) e senza giudicare: parlano da sole. E il risultato è più che buono. 

martedì 15 settembre 2020

Non odiare

 

"Non odiare" di Mauro Mancini. Con Alessandro Gassmann, Sara Serraiocco, Luka Zunic, Lorenzo Buonora, Lorenzo Acquaviva, Cosimo Fusco e altri. Italia, Polonia 2020 ★★+

Le lodevoli intenzioni, affrontando un tema non facile come l'odio e quello del pregiudizio anti ebraico, mai del tutto risolto in Europa (e sotto questo aspetto è perfetta la scelta di ambientare il film a Trieste, città di confine e sostanzialmente mitteleuropea dove quella comunità ha da sempre avuto una presenza consistente), la bella e fredda fotografia, la prestazione convincente degli interpreti, su tutti un misurato quanto tormentato Alessandro Gassman, coinvolto anche sul piano personale, e il giovane Luka Zunic, si scontrano purtroppo con una sceneggiatura costruita a tavolino e palesemente artefatta, per quanto prenda spunto da un fatto veramente accaduto in Germania (il rifiuto da parte di un chirurgo ebreo di operare un paziente con un tatuaggio nazista sul petto, che si era fatto sostituire da un collega) rende il film poco credibile, anche per alcuni evidenti sfasamenti temporali: non si capisce come una vicenda così intricata e con tanti sviluppi possa accadere nell'arco di un paio di settimane. Un peccato, anche perché Mancini, esordiente alla regia, è innanzitutto sceneggiatore, e proprio qui sta, a mio avviso, il punto debole. Simone Segre (Gassman) è un chirurgo di successo, ebreo, che accorre in aiuto a un uomo vittima di un incidente stradale, il cui investitore è fuggito senza prestare soccorso. Quando gli slaccia la camicia nota che ha tatuata sul petto la croce uncinata e il simbolo delle SS, così toglie il laccio con cui cercava di fermare l'emorragia e lo abbandona al suo destino: morire dissanguato. L'uomo lascia tre figli: Marica, di 27 anni, Marcello di 17 (Zunic), fervente neonazista che vedeva il genitore come un idolo, Paolo di 10. Oppresso dal senso di colpa, Simone comincia a seguire la famiglia (quasi una forma di stalking) e fa in modo di aiutarla economicamente assumendo Marica come donna delle pulizie, ma finisce per scontrarsi con Marcello, che non vuole che la sorella faccia da serva proprio in casa di "uno di quelli" un giudeo. E qui le cose si complicano, in maniera alquanto contorta e altamente inverosimile, come si accennava, soprattutto se si pretende di comprimere tutti gli avvenimenti  nell'arco di poche settimane o perfino giorni (anche questo risulta poco chiaro). Come se non bastasse, ci sono i complicati rapporti padre e figlio incrociati: se per Marcello, accecato dal furore, il padre era un eroe, Simone aveva con il suo, di cui non ha ancora sistemato e venduto la casa in cui aveva vissuto fino alla morte, un rapporto difficilissimo, non avendogli mai perdonato per aver prestato, giovane medico finito nei campi di concentramento, cure odontoiatriche ai suoi carnefici, gli ufficiali nazisti (sorvolando sul fatto che se non avesse fatto quella scelta, lui stesso non sarebbe venuto al mondo). Ci mancava di intravedere anche la possibile storia d'amore tra Simone e Marica, per fortuna solo adombrata come possibilità di "superamento dell'odio", e il passaggio da psicodramma a melodramma sarebbe stato compiuto. Non sarei onesto affermando che mi ha convinto. 

domenica 13 settembre 2020

Crimini in famiglia

"Crimini in famiglia" (Crímenes de família) di Sebastián Schindel. Con Cecilia Roth, Miguel Ángel Solá, Sofía Gala, Benjamín Amedeo, Yanina Ávila, Paola Berrientos, Marcelo Subiotto, Diego Cremonesi e altri. Argentina 2020 ★★+

Cupo, disturbante, molto argentino ma non del tutto convincente questo noir di Sebastán Schindel, pur forte delle prestazioni degli interpreti, su tutti l'almadovariana Cecilia Roth, che si giova di un volto deturpato da innumerevoli pastiche mal riuscite per risultare a dir poco inquietante come il suo personaggio, Alícia, il cui unico figlio, Daniel è in carcere, accusato del tentato omicidio della sua ex moglie, Marcela, che vieta a lui e alla sua famiglia di vedere il figlio. Accecata dall'amore materno, che le impedisce di vedere che razza di farabutto è realmente Daniel, fa di tutto, compreso separarsi dal marito, pur di salvarlo dalla condanna in tribunale, fino alla corruzione per far sparire i risultati dell'indagine sul DNA di Daniel trovato sul corpo di Marcela: niente di più facile in un Paese corrotto almeno quanto il nostro e ancora più maschilista, se si appartiene alla Buenos Aires "bene", quella che vive nella zona Nord della città o nei country dei sobborghi di lusso. Al contempo, frustrata nella sua nonnitudine, riversa tutto il suo affetto fagocitando il piccolo Santi, figlio della fedele e silenziosa serva Gladys, una semianalfabeta dal passato famigliare disastrato proveniente da Misiones, come dire una delle province rurali e più arretrate dell'Argentina, di fatto appropriandosene. E qui si innesta il dramma di questa poveraccia, che viene pure essa portata in tribunale con l'accusa di infanticidio per procurato autoaborto, inevitabile in un Paese in cui l'interruzione di gravidanza è tuttora illegale, peraltro indotto dalle dure minacce della "padrona" che non può tollerare che qualche aspetto della vita di Gladys sia fuori dal suo controllo ossessivo, senza un minimo di solidarietà femminile e naturalmente porsi minimamente la domanda su come possa essere rimasta incinta: lo si intuisce alla fine del film ma tutto rimane confuso, perché è nell'oscurità che si naviga, a vista, durante i 99' che dura la pellicola, e che paiono tre ore. Che ha alcuni pregi, oltre alle prove degli attori, la tensione sempre al massimo, il ritratto più che verosimile di certa odiosa borghesia bonaerense, le spaventose disparità sociali che persistono e, anzi, si aggravano in un Paese in cui la classe media è stata distrutta prima che altrove, però è spaventosamente manicheo, come del resto l'Argentina stessa, soprattutto quando nel finale fa credere a un ravvedimento di Cecilia fino a farla diventare una specie di femminista militante: troppo facile. Insomma, film riuscito a metà, esagerato e fin troppo pesante. A quelle latitudini sanno fare di meglio e forse una versione teatrale sarebbe stata più indicata. Infine, si capisce ancora meno del solito il motivo di cambiare la proposizione di con in nel titolo, in una lingua tanto simile all'italiano: Crimini di famiglia non è esattamente la stessa cosa di Crimini in famiglia

venerdì 11 settembre 2020

Dogtooth

"Dogtooth"(Kunodontas) di Yorgos Lanthimos. Con Christos Sterghioglou, Mary Tsoni, Angeliki Papoulia, Anna Kalaitzidou, Michele Valley, Hristos Passalis. Grecia 2009 ★★★★

Esce finalmente anche in Italia, con 11 anni di ritardo e grazie ad Andrea Occhipinti e alla sua Lucky Red, il lungometraggio che diede notorietà al regista greco Yorgos Lanthimos segnando l'avvio del suo sodalizio con lo sceneggiatore Efthymis Filippou, proseguito con Alps (del 2011, anch'esso in uscita nelle sale nostrane dalla prossima settimana), The Lobster e Il Sacrificio del cervo sacro. Pluripremiato, fin dalla sua presentazione alla sezione Un certain régard del 62° Festival di Cannes, è quantomai attuale per la sua vena claustrofobica e surreale in tempi di prolungata quarantena; per certi versi profetico in quanto il tema centrale sono gli effetti di un'esagerata ansia di protezione da parte di chi esercita l'autorità e ha potere sui sottoposti, in questo caso la coppia di genitori nei confronti dei tre figli, un maschio e due femmine, ormai cresciuti a tutti gli effetti e da considerarsi "adulti e vaccinati" ma trattati come se fossero degli infanti o poco più. Educati a parlare in una sorta di neolingua dove alcuni termini considerati  in qualche modo delicati vengono sostituiti arbitrariamente da altri dal significato del tutto diverso, vivono nella convinzione che il mondo all'esterno della confortevole villa con giardino che è il loro unico universo, ossia tutto ciò che si trova oltre la recinzione e il cancello di casa, limite invalicabile e quindi tabù, sia mortalmente pericoloso e che vi si potrà accedere, un giorno, solo se adeguatamente istruiti e preparati, momento di liberazione dalla tutela che arriverà quando cadrà il loro dente canino (da qui il titolo del film), notoriamente l'ultimo che si perde, ossia, nella mente dei due ossessivi genitori, mai. La vita quotidiana di questa famigliola esemplare per quanto è del tutto alienata viene descritta in maniera esemplare ed estremamente verosimile attraverso una recitazione meccanica e straniata da parte degli interpreti, tutti bravissimi a creare un'atmosfera ossessiva e straniante. L'unica persona che ha contatti con l'esterno è il padre, titolare di una ditta che potrebbe essere di imballaggi, che recluta un'addetta alla vigilanza dell'azienda, Cristina, per intrattenere sessualmente il figlio maggiore (la meccanicità dei loro amplessi mi ha ricordato quella del celebre Casanova di Fellini  con Donald Sutherland): a sua volta è l'unica persona che dal mondo "alieno" è autorizzata a entrare in quello "perfetto" e protetto, ma anche l'elemento che lo mina perché, trafficando con la figlia maggiore, di cui è pressoché coetanea, quest'ultima viene a conoscenza dell'esistenza di una realtà diversa, anche attraverso delle videocassette che riesce a vedere di nascosto (l'unica cosa che finora veniva trasmessa sullo schermo della TV di casa erano i filmini famigliari). Il padre e datore di lavoro la farà pagare duramente sia a Cristina sia alla figlia, ma il seme della libertà è gettato e germoglierà, anche se dolorosamente... Ma non vi rovino la scena più bella ed emblematica. Che si tratti di una metafora è evidente, del resto la famiglia, per quanto malata e sempre più isolata, rimane il nucleo della società, che riproduce in miniatura gli stessi perversi rapporti di potere che operano in ambito superiore fino allo Stato e ancora più su. Un film duro, geniale, spiazzante e disturbante: notevole.

mercoledì 9 settembre 2020

Volevo nascondermi

"Volevo nascondermi" di Giorgio Diritti. Con Elio Germano, Leonardo Carrozzo, Oliver Ewy, Pietro Traldi, Orietta Notari, Andrea Mozzali, Paula Lavini, Gianni Fantoni e altri. Italia 2020 ★★★★

Gran bel film, austero come nello stile di Giorgio Diritti, che racconta in maniera efficace e lineare la vita e l'opera del pittore e scultore Antonio Ligabue, una sorta di eremita diventato famoso quasi per caso, un personaggio strano quanto possono esserlo quelli che si incontrano tuttora, a cercarli, lungo le sponde del Po, dalla esistenza tormentata e infelice, sublimata da un talento artistico originalissimo, attraverso il quale questo uomo disgraziato e derelitto è riuscito a comunicare col prossimo (oltre che con gli animali, con cui ci riusciva senza alcun problema e che sempre sarebbero rimasti protagonisti assoluti delle sue fantasie e delle sue opere) e, alla fine, farsi accettare. Nato a Zurigo da un'emigrante italiana e legittimato successivamente da un connazionale dal cognome Laccabue originario di Gualtieri, vi si trasferisce dopo essere stato espulso dalla Svizzera a 20 anni, nel 1919, in seguito alla denuncia della madre adottiva di essere stata aggredita. Affidato a una famiglia di lingua tedesca, non visse mai in quella d'origine; oltre a essere un disadattato, cresciuto in condizioni difficili e con un'istruzione spezzettata da continui cambi di scuola, era affetto da rachitismo e gozzo, con difficoltà di apprendimento e disturbi psichici: ricorrenti furono i suoi ricoveri in manicomio per le sue crisi maniaco-depressive che lo inducevano spesso ad atti di autolesionismo (per "scacciare fuori di sé il male" attraverso il sangue), il primo già precedente l'esilio in Italia. Stabilitosi in un capanno sulle rive del Po fuori dal paese, venne in qualche modo "adottato" da Renato Marino Mazzacurati, esponente della Scuola Romana, che notandone immediatamente le capacità di disegno, lo introdusse all'uso dei colori a olio. Accolto dalla famiglia del pittore e scultore emiliano, e in particolare dalla madre, "Toni" decise di dedicarsi anch'esso alle stesse arti figurative e man mano la sua fama crebbe, anche fuori dai confini regionali, anche grazie ai servizi del noto fotocronista del Resto del Carlino Aldo Ferrari, fino all'organizzazione di una personale alla Barcaccia di Roma nel 1961. Non ebbe tempo di godersi notorietà e successo perché l'anno successivo fu colpito da emiparesi per spegnersi nel 1965 al ricovero di mendicità di Gualtieri che già l'aveva ospitato in precedenza, quando non lo era presso amici. Questa la vicenda, ma la perla del film è l'aver affidato la parte di Ligabue a Elio Germano, che già aveva interpretato in maniera mirabile il tormentato e fragile Giacomo Leopardi, un altro "diverso", che ha vissuto da isolato a causa delle sue malattie, ne Il giovane favoloso di Mario Martone nel 2015, una prestazione che gli è valso il premio come migliore attore alla Berlinale di quest'anno: meritatissimo per uno degli attori più bravi dell'intero panorama italiano ed europeo.

domenica 6 settembre 2020

Tenet

"Tenet" di Christopher Nolan. Con John Davis Washington, Robert Pattinson, Elizabeth Debicki, Kenneth Branagh, Dimple Kapadia, Aaron Taylor-Johnson, Clémence Poesy, Michael Caine e altri. USA 2020 ★★½

Una missione di spionaggio supersegreta contro una minaccia più terribile di quella dell'olocausto nucleare: il tempo che si riavvolge contro sé stesso, e quindi anche contro i protagonisti, che devono stare bene attenti a non "incontrare" sé medesimi nell'operazione, una manovra a tenaglia spazio-temporale, per salvare l'umanità. E' perfettamente inutile cercare di spiegare il film, che è sì di spionaggio ma, come tutti i film del regista inglese, attraversa disinvoltamente i generi amalgamandoli in modo comunque estremamente spettacolare e avvincente. E gradevole, almeno per me, che non sto a chiedermi la spiegazione scientifica che sottostà alla teoria dell'inversione del tempo (che pure ha le sue basi nella fisica e nella matematica), accontentandomi del fatto che tutto gira attorno al Quadrato di Sator, che da quando sono nato è il soprannome con con cui mi chiama la parte austriaca della mia famiglia, composto dalle cinque parole di un'iscrizione latina che si conserva tuttora in diversi monumenti antichim in buona parte chiese, e che costituisce il palindromo perfetto: SATOR-AREPO-TENET-OPERA-ROTAS. Tenet non a caso è il titolo del film come anche della misteriosa organizzazione messa in piedi per salvare il mondo e in cui il protagonista (senza nome, bene interpretato da J.D. Washington, figlio di cotanto padre), un agente della CIA che viene selezionato dopo aver partecipato a un test a sua insaputa: un'incursione russa sotto copertura per sventare un attacco terroristico al teatro dell'Opera si Kiev. E qui siamo alla seconda parola "magica" che viene disseminata nella vicenda; Sator è il "cattivo", un oligarca russo di nome Andrei, un mefistofelico Kenneth Branagh, che ha messo le mani sull'algoritmo che consente l'inversione temporale (compresi i proiettili che tornano nelle armi che li hanno sparati); Arepo è il nome di un falsario autore di un "Goya" con cui la moglie dell'oligarca tiene sotto controllo il marito, la cui società, naturalmente, non può che chiamarsi Rotas. La vicenda è intricata quanto basta ma fila via liscia: gli ingredienti classici ci sono comunque tutti, l'eroe che salva il mondo, il suo amico-aiutante-socio che ne è caratterialmente l'opposto (Neil, qui l'autoironico Robert Pattinson: ottimo); la bella (questione di gusti: Elizabeth Debicki è Kat, ma con Nolan niente sesso); il cattivo (Sator, ovviamente russo), il mondo da salvare (dall'uomo? alla fin fine sì) il che è anche una scusa per girarlo in lungo e in largo, dall'Ucraina all'India, dalla Siberia alla Costiera Amalfitana, da Londra e Oslo e ancora chissà dove ma non importa, perché il divertimento, per 150' che alla fine non si rivelano eccessivi, è assicurato al di là di qualsiasi verosimiglianza. Più che soddisfacente se ci si vuole distrarre in maniera movimentata: con Nolan si va sul sicuro. 

venerdì 4 settembre 2020

Molecole

 

"Molecole" di Andrea Segre. Con Andrea Segre, Elena Almansi, Maurizio Calligaro, Gigi Divari, Giulia Tagliapietra, Patrizia Zanella e altri. Italia 2020 ★★★★

Presentato martedì scorso alla serata di pre-apertura della 77ª Mostra del Cinema di Venezia, Molecole è qualcosa di più e di diverso di un documentario (a cui Andrea Segre si dedica da sempre) come anche di un'opera di finzione o di un atto d'amore nei confronti della città, piuttosto un film profondamente poetico e intimistico sul silenzio: dimensione a cui la Laguna è stata restituita grazie allo svuotamento dalle consuete e calamitose orde di visitatori in occasione del lockdown e che era anche quella del rapporto del regista con suo padre Ulderico, un noto fisico molecolare che di Venezia era originario, scomparso prematuramente nel 2002 per una malattia congenita. Nato a Padova, dove il genitore si era trasferito per frequentare l'università, e romano d'adozione, Andrea Segre Venezia non l'aveva mai capita del tutto né amata particolarmente, ma vi era sempre girato intorno (l'ultima volta con Il pianeta in mare, documentario che aveva girato assieme a Gianfranco Bettin, in precedenza con Io sono Li facendo base a Chioggia) sempre più da vicino, come attiratovi da una calamita, fino a rimanervi "intrappolato", volontariamente, nel febbraio scorso, quando vi era andato per prepararvi un lavoro teatrale per lo Stabile del Veneto sulle due piaghe che affliggono la città: l'acqua alta e lo strangolamento da parte del turismo di massa. Aveva cominciato a fare dei sopralluoghi e delle riprese mentre il Carnevale era stato sospeso e poi rinviato, la città si andava man mano spopolando dai rari visitatori, restituita alle poche decine di migliaia di residenti rimasti (quelli che ancora possono permettersi di mantenervi un'abitazione), fino a decidere di trascorrervi la quarantena e, dopo essersi fatto raggiungere dalla famiglia nell'abitazione concessagli dallo zio alla Giudecca, approfittarne per scoprire la vera dimensione sospesa di questa città così particolare, fragile e forte al tempo stesso, che dal mare ha tratto la sua ricchezza e al contempo la minaccia, separata però da esso da un microcosmo così particolare come la Laguna, basata su equilibri delicatissimi, un mondo fatto di barene che stanno quasi scomparendo, isole pressoché sconosciute, personaggi sopravvissuti ai tempi ma tutt'ora esistenti e pronti a testimoniare la situazione: Venezia è più che mai a un bivio, e non può salvarsi se sono costretti ad andarsene anche i suoi ultimi figli, gli unici che ancora posseggono le conoscenze e gli strumenti in grado di proteggerla. Questo sullo sfondo, perché cuore del film è il dialogo del figlio con il padre, un dialogo immaginario considerato il non detto tra loro, che prende corpo attraverso le immagini girate dal genitore stesso e dal fratello con una videocamera in Super 8 negli anni Sessanta o altre ancora precedenti facenti parte dell'archivio di famiglia. La voce narrante è quella dello stesso Segre, convinto a cimentarsi dall'amico Giuseppe Battiston che lo ha adeguatamente istruito, e "diretto" da un altro amico e collega. Le musiche, splendide, sono di Teho Teardo, e Molecole qualcosa da non perdere.

mercoledì 2 settembre 2020

Il grande passo

 

"Il grande passo" di Antonio Padovan. Con Giuseppe Battiston, Stefano Fresi, Roberto Citran, Camilla Filippi, Teco Celio, Flavio Bucci, Luisa De Santis, Vitaliano Trevisan, Francesco Roder, Pascal Zulino e altri. Italia 2019 ★★½

Dalle critiche lette in giro mi aspettavo la solita commedia all'italiana fitta di luoghi comuni, e tutta giocata sulla fisicità di due autentici pesi massimi del cinema nostrano e sulle simpatia dei due protagonisti, due fratelli per parte di padre che non si sono mai frequentati, Mario e Dario nel film; una sorta di gemelli separati dalla nascita Stefano Fresi e Giuseppe Battiston, il quale ultimo, di fronte al collega romano, sembra quasi un fuscello. In realtà i due attori hanno una storia diversissima: nasce come musicista e compositore il primo, passato al cinema per caso, o meglio per una felice intuizione di Michele Placido; di formazione classica, scuola Piccolo Teatro di Milano, il secondo, entrato più gradualmente nel mondo del grande schermo, ma con altrettanto successo di pubblico e, per quel che conta, "critica". Diversi sono anche nel film, per quanto somiglianti fisicamente: Mario gestisce una ferramenta a Roma assieme alla madre; Dario vive in un casolare nel Polesine, ed è fissato con l'idea di andare sulla luna con un missile da lui costruito, ed è questa idea, che si rivela tutt'altro che una manifestazione di follia, che causa un incidente, perché durante un tentativo di partenza qualcosa va storto e il guasto procura un incendio che distrugge un campo d'asparagi di un imprenditore vicino. Dario viene denunciato e arrestato e per questo motivo viene contattato l'unico parente noto, ossia Mario, che pur avendolo visto una sola volta in tutta la sua vita lo raggiunge nel Rodigino per toglierlo dai guai. La soluzione più pratica, secondo l'avvocato locale, il bravissimo Roberto Citran, sarebbe convincerlo a farsi internare volontariamente in una struttura gestita da una megera e che assomiglia molto ai manicomi di un tempo (ricorre in questi giorni , vedi la coincidenza, il quarantennale della morte di Franco Basaglia) per evitare un TSO, però Dario, il quale nel frattempo conosce meglio il fratello, molto più saggio e intelligente di quel che sembra (è un ex studente di ingegneria aerospaziale dell'Università di Padova, emarginato per la sua coerente ostinazione), si oppone e cerca di trovare soluzioni alternative. Il film diventa una sorta di avventura on the road, pur negli spazi limitati della zona del delta del Po, con un excursus nel Vercellese, alla scoperta di un padre che è mancato a tutt'e due ma il cui mito (falso) ha segnato in modo particolare Dario, rimasto "stregato dalla Luna" fin da quel primo passo dell'uomo sul satellite il 21 luglio del 1969: quest'ultimo è interpretato magistralmente da Flavio Bucci, nell'ultima sua apparizione prima della scomparsa. E' un film dolcemente surreale ma capace di dipingere in modo estremamente verosimile dinamiche personali, famigliari, sociali e tutto un ambiente: in questo è molto "veneto", come con tutta evidenza chi lo dirige e si evince da un cognome come Padovan, che già mi aveva convinto con Finché c'è prosecco c'è speranza, sulle tracce di Carlo Mazzacurati e, per altri versi, di Andrea Segre. Pellicola tutt'altro che banale, che lascia un po' di amaro dentro, perché fa riflettere sulle cose veramente importanti che abbandoniamo: i sogni e le mete apparentemente impossibili, per accontentarci di arrabattarci con una realtà perlopiù squallida con cui siamo costretti a fare i conti, invece di usare le nostre energie per cercare di cambiarla.