"Notturno"di Gianfranco Rosi. Italia, Francia, Germania 2020 ★★★½
Gianfranco Rosi si conferma dopo Fuocoammare e convince con questo Notturno (che lo è solo in parte in quanto alcune riprese sono state fatte anche alla luce del giorno, perché il regista, pur partendo da un'idea, si adegua poi all'ambiente che va a esplorare per girare le sue pellicole, che se sono qualcosa di diverso da un film d'intrattenimento sono però anche più di un semplice documentario) con cui amplia il suo sguardo: dalla Roma marginale e periferica di Sacro Gra (che forse dovrei rivedere e poi probabilmente rivalutare) agli abitanti dell'isola di Lampedusa e ai suoi ospiti venuti dal mare della sua penultima fatica, alle zone di confine tra Libano, Siria, Irak, Iran, prevalentemente in quello che si chiama Kurdistan, popolato da un'etnia con una cultura specifica suddivisa artificialmente tra i vari Paesi sulla base di confini tracciati in maniera del tutto arbitraria dopo la disgregazione dell'Impero Ottomano dalle potenze vincitrici dalla Grande Guerra, in particolare Gran Bretagna e Francia, che hanno ridisegnato in base ai loro interessi e del tutto ignorando la storia e la cultura di civiltà millenarie tutta quell'area che chiamiamo Medio Oriente. Con le devastanti conseguenze che regimi dittatoriali, invasioni, asservimento agli interessi stranieri, invasioni, fanatismi religiosi hanno causato nell'ultimo secolo e ancora lo rendono una delle zone più inquiete e pericolose dei pianeta. Eppure si vive e sopravvive, e il come Rosi lo racconta in immagini seguendo una squadra di peshmerga, combattenti curde, durante le sue perlustrazioni e i bivacchi; la battuta di caccia alle anatre di un uomo in un canneto; il giro notturno nelle vie di una città di un giovane sposo che intona le lodi di Maometto al ritmo di un tamburo; l'allestimento di uno spettacolo teatrale in un ospedale psichiatrico di Baghdad incentrato sulla vicende storiche di una patria, e una popolazione, costantemente tradite; un ragazzo che si sveglia all'alba cercando lavoro a giornata per aiutare la numerosa famiglia e l'intimità di questa nelle poche ore di riposo; il viavai in un posto di confine e nei pressi di un campo di rifugiati; un gruppo di anziane donne che visita il luogo in cui furono imprigionati, torturati e uccisi i loro figli ed evoca la loro presenza attraverso le tracce di sangue e le scritte sui muri; una maestra di scuola che fa terapia di sostegno in classe a dei ragazzini yazidi perseguitati dall'Isis attraverso i loro disegni pieni di orrore; l'ora d'aria di un gruppo di detenuti che escono uno dopo l'altro nel cortile di un carcere, vestiti in sfolgoranti tute arancioni che spiccano nell'ambiente grigio del complesso e in una giornata livida per fare poi ritorno nelle celle in fila indiana, la mano appoggiata sulla spalla di quello che precede; le telefonate clandestine delle figlie sequestrate dall'Isis alle madri per cercare di rassicurarle nella oro angoscia. Storie di varia umanità che Rosi si limita a rappresentare, con immagini suggestive ma mai artefatte e senza retorica, però stilisticamente esemplari (la fotografia è di Luca Bigazzi) e senza giudicare: parlano da sole. E il risultato è più che buono.
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