martedì 28 dicembre 2021

One Second

"One Second" (Yi miao zhong) di Zhang Yimou. Con Zhang Yi, Liu Haocun, Wei Fan, Ailei Yu, Xiaochuan  Li, Yu ai Lei e altri. Cina 2020 ★★★★+

Sempre estremamente gradito il ritorno di un grande maestro come Zhang Yimou, il quale fa ancora una volta centro con questo film che, già selezionato alla Berlinale di due anni fa, era stato ritirato poco prima della proiezione per "motivi tecnici", in realtà per l'intervento della censura cinese, e rimesso in circolazione, opportunamente "emendato", l'anno scorso e ora finalmente arrivato sugli schermi anche in Italia. Se da un lato è un omaggio alla magia del cinema, quello vero, come direbbe Quentin Tarantino, ossia girato e proiettato in pellicola (a proposito di Grandi Maestri), ed è inevitabile ricordare Nuovo Cinema Paradiso di Tornatore, dall'altro mostra cosa era la Cina all'epoca della Rivoluzione Culturale, soprattutto quella rurale, con la sua miseria e la sistematica manipolazione delle menti nella pretesa, tipica del comunismo come di tutte le altre chiese e sette, di forgiare l'Uomo Nuovo: Zhang Yimou è uno dei più titolati a parlarne avendo sperimentato in prima persona la "rieducazione" attraverso il lavoro forzato nei campi e in fabbrica quando era studente liceale, e non a caso si chiama Zhang il personaggio principale del film, fuggito da un campo di lavoro in cui era stato rinchiuso dopo una condanna per aver percosso una "guardia rossa" durante una rissa, e che attraversa il deserto per raggiungere un villaggio in cui, prima del consueto film edificante che celebra la gloria degli immortali eroi della rivoluzione vittoriosa, verrà proiettato il cinegiornale n° 22: lì, per un secondo, appare l'immagine della figlia adolescente, che dopo l'arresto non l'ha più voluto rivedere. Peccato che la pellicola venga rubata da una ragazzina che sembra una vagabonda, Orfana Liu, a cui occorre della pellicola per costruire un paralume e così evitare che il fratellino venga ancora ricattato e brutalizzato da un gruppo di bulli del villaggio. Zhang acciuffa Lu, recupera la "pizza", la riperde: si mette in moto una girandola di eventi con aspetti e ritmi chapliniani per cui la pellicola verrà consegnata nelle mani del destinatario, Mister Cinema, com'è chiamato lo storico proiezionista del cinema del villaggio, peraltro già gremito da tutta la popolazione in spasmodica attesa del grande evento che è ogni volta la serata cinematografica, completamente aggrovigliata e impolverata: dalle dune desertiche che si alternano e dai vicoli sudici del villaggio ci si sposta nel regno di quest'altro personaggio, che fra l'altro è uno zelante funzionario di partito, che dietro la minaccia di Zhang organizza il recupero del cinegiornale e glielo proietterà quante volte desidera, in grado com'è di predisporre un "anello" per cui il padre reietto potrà rivedere in loop la sua bambina finché non verrà riacciuffato dalle Guardie Rosse locali su segnalazione di Mister Cinema e riconsegnato agli aguzzini del campo di lavoro. Ma una sorta di lieto fine è alle porte perché qualche anno dopo la Rivoluzione Culturale avrà termine (nel 1976) in seguito a un decennio di delirio ideologico, e Zhang, una volta rilasciato, tornerà al villaggio dove nel frattempo Orfana Liu si è sgrezzata e, chissà, sostituirà la figlia perduta. Una favola, a tratti anche leggera e ironica, dove ci sta divertimento, incanto e, sotto traccia, denuncia, che non occorre esplicitare perché bastano le immagini (verosimili: villaggi del genere li ho visti ancora 15 anni dopo l'epoca in cui è ambientato One Second identici con i miei occhi nella Cina rurale) e l'atteggiamento dei vari personaggi. Fotografia di alto livello, sapienza di racconto, i tempi giusti e la grande suggestione del cinema. Gran bel film.

giovedì 23 dicembre 2021

Diabolik

"Diabolik" di Marco e Antonio Manetti. Con Luca Marinelli, Miriam Leone, Valerio Mastandrea, Serena Rossi, Alessandro Roja, Stefano Pesce, Vanessa Scalera, Claudia Gerini e altri. Italia 2021 ★★★★+

Non è "Grande Cinema", non è un capolavoro né pretende di esserlo, ma è un gran bel film, risultato ottenuto nelle condizioni più difficili, con una schiera di milioni di affezionati lettori del fumetto che ha per protagonista il Re del Terrore creato nel 1962 dalle due "diabolike" sorelle milanesi Angela e Luciana Giussani, pronti a impallinare gli autori per un eventuale "alto tradimento" di un personaggio le cui imprese di carta hanno appassionato alcune generazioni di italiani, per cui Diabolik e la sua compagna Eva Kant sono stati ciò che per il pubblico USA sono stati i Supereroi Marvel o Superman. Li attendevo al varco, anche se ritenevo i Manetti Bros gli unici in grado di cimentarsi nell'impresa. Perché un conto è affrontare il fenomeno attraverso una sorta di ibrido, a metà strada fra documentario e finzione, com'era stato per Diabolik sono io, uscito due anni fa, raccontandone la genesi, un altro trasportare sullo schermo il terzo, fondamentale fumetto del nostro eroe, Il Re del Terrore, in cui compare per la prima volta Eva, nei panni di una ricca ereditiera arrivata dal Sudafrica a Clerville, subito entrata nel mirino del fantomatico ladro che intende derubarla di un preziosissimo gioiello: il loro incontro risulterà fatale sia per la sopravvivenza del criminale, perché sarà lei a salvarlo dalla ghigliottina dopo che era stato finalmente arrestato dalla sua altrettanto mitica controparte, il malinconico e irreprensibile Ispettore Ginko, sia per le fortune della coppia più longeva del fumetto italiano. Intanto sono riusciti a far rivivere in tutto e per tutto l'atmosfera degli anni Sessanta, e con ancora tanta gente in giro, tra cui io, che li ha vissuti e se li ricorda come l'Età dell'Oro correvano un rischio non da poco, perché bisogna averli studiati a fondo ed essersi avvalsi di consulenti di prim'ordine, e nel contempo a rendere la tensione e il ritmo che si creava negli albi, col risultato che quelle che appaiono sullo schermo sono esattamente le stesse immagini che un lettore medio di Diabolik, come ero stato io stesso per decenni, se le sarebbe rappresentate filmate. Quindi non solo fedeltà al testo e ai dettagli e, da qui una certa, voluta, lentezza, che va di pari passo con l'attenzione che si rivolgeva alla pagina con una sorta di effetto "fermo immagine" e scorrimento sincopato; ma, soprattutto, credibilità dei personaggi, e qui ci vogliono le capacità di un regista in gamba, e in questo caso sono addirittura in due. Luca Marinelli è, a tratti, sufficientemente luciferino per esprimere la glacialità di Diabolik, ma anche la sua coerenza e la sua particolare visione della rettitudine, per non chiamarla con il termine di onestà; pochi avrebbero immaginato che Valerio Mastandrea fosse perfetto per interpretare Ginko, l'eterno sconfitto, ma quella sua vaga tristezza lo aiuta a entrare nei panni del funzionario incorruttibile e cocciuto, ma a sua volta profondamente onesto, però il capolavoro è stato affidare alla versatile Miriam Leone il vero personaggio centrale del film, Eva Kant, che è esattamente come un lettore di Diabolik se l'era sempre immaginata: piena di fascino, intelligente, intransigente, a suo modo femminista ante litteram, e questo nell'Italia dei primi anni Sessanta. Semplicemente perfetta e bravissima. Rimane da segnalare Alessandro Roja nella difficile parte di un corrotto viceministro della Giustizia che ha la cattiva idea di usare il ricatto come mezzo per corteggiare Lady Kant e sarà inesorabilmente punito dall'uomo in tuta nera. Il film, di cui non sto a raccontare la trama, è stato filmato tra Milano (Clerville) e Trieste (Ghenf) le due città di un immaginario Stato italo-francese che ricorda da vicino il Principato di Monaco e il relativo milieu che lo bazzicava allora (e anche oggi), che poi è lo stesso che le sorelle Giussani, figlie della buona borghesia meneghina, conoscevano bene dall'interno e si divertivano a mettere alla berlina e punire simbolicamente. Senza dover ricorrere a grandi effetti speciali (sembrerebbe girato negli anni Sessanta come il precedente di Mario Bava, che però era più uno scanzonato divertimento "pop" con due interpreti improbabili nei panni dei due protagonisti, specialmente Marisa Mell in quelli di Eva) i Manetti Bros hanno girato un suggestivo thriller d'epoca che è, allo stesso tempo, una sorta di trattato antropologico. Mi sento di raccomandarlo anche ai più integralisti fra i lettori di Diabolik: non rimarranno delusi. 

domenica 19 dicembre 2021

Scompartimento N.6 - In viaggio con il destino

"Scompartimento N.6 - In viaggio con il destino" (Hytti Nro 6) di Yuho Kuosmanen. Con Seidi Haarla, Yuriy Borisov, Yuliya Aug, Lidia Costina, Tomi Alatalo, Dinara Drukarova, Vladimir Lysenko, Dmitriy Belenikhin e altri. Finlandia, Estonia, Germania, Russia 2021 ★★★★+

Adattamento dell'omonimo romanzo di Risa Liksom, girato su pellicola, di cui mantiene le calde tonalità, e virato in digitale, Scompartimento N.6 conferma appieno il grande talento e la capacità già emerse il La vera storia di Olli Mäki, il suo film d'esordio, del giovane regista Yuho Kousmanen di raccontare storie e personaggi genuini, in cui chiunque possa immedesimarsi, oltre a quella di ricreare atmosfere che si possono quasi assaporare olfattivamente, e dunque percepire oltre la visione, tanto è evocativa la potenza delle immagini, pur nella loro semplicità. Non gli occorre granché: un appartamento moscovita, un treno, che è protagonista del film quanto i due personaggi principali, il paesaggio russo che si vede dai finestrini e le stazioni in cui si ferma nel tragitto fra Mosca e Murmansk, oltre il Circolo Polare Artico, l'unico luogo in cui due persone così diverse come Laura, una ragazza finlandese che studia archeologia e il coetaneo Ljoha, un rude minatore russo, avrebbero potuto incontrarsi e conoscersi. Laura, che vive a Mosca e ha una relazione problematica con una professoressa che prima la incoraggia a dirigersi verso Nord per vedere dei petroglifi e poi la pianta in asso, non si scoraggia e parte da sola: il viaggio, per lei significherà verificare il valore del suo rapporto e fare chiarezza con sé stessa; per Ljoha, raggiungere un nuovo posto di lavoro nella sua vita che si svolge fra un cantiere e l'altro, ma anche conoscere una persona che non corrisponde ai suoi parametri abituali. Non il classico On The Road Movie all'americana (e mi viene in mente il penoso e ambiguo, per quanto pluripremiato Nomadland) per quanto il viaggio in sé sia l'ossatura del film: in un tempo sospeso, il luogo soprattutto mentale in cui ci si ritrova e si ha l'occasione di mettersi in discussione e ridefinirsi, confrontandosi con situazioni non abituali e persone sconosciute per imparare a guardare a loro, come a sé stessi, da una prospettiva nuova. Che èciò che accade a Laura e Ljoha, dopo un primo approccio impacciato e maldestro da parte del ragazzo, che pur nella sua rozza ignoranza dimostra una sensibilità e intelligenza non comuni che prima incuriosiscono e poi rassicurano la fanciulla: anche se un possibile lieto fine è lasciato intravvedere, il film non cede mai al sentimentalismo e alla melensaggine, così come l'uso di paesaggi inconsueti e suggestivi non è ammiccante o cartolinesco. Una vena di nostalgia c'è, la memoria va agli anni Novanta, con la Russia che porta ancora con sé molte tracce di sette decenni di Unione Sovietica, in cui il Kuosmanen era adolescente e che rievoca con grande efficacia. Come sempre la bravura di un regista si nota anche dalla capacità di scegliere e utilizzare gli attori, e sia Seidi Haarla sia Yuriy Borisov si segnalano per due interpretazioni di altissimo livello, e tutti gli altri personaggi che entrano in scena di volta in volta nelle diverse situazioni risultano estremamente efficaci e credibili. Un film da non perdere, avendo l'occasione. 

giovedì 16 dicembre 2021

Don't Look Up

"Don't Look Up" di Adam McKay. Con Leonardo DiCaprio, Jennifer Lawrence, Meryl Streep, Jonah Hill, Cate Blanchett, Melanie Lynskey, Chris Evans, Timothée Chalamet, Metthew Perry, Ron Perlman, Jack Bremmer, Ariana Grande, Kid Cudy e altri. USA 2021 ★★★★

Film esilarante che in qualche modo mi ha ricordato il mitico Brazil di Terry Gilliam, ma mentre quello era una sorta di rilettura dell'orwelliano 1984, ambientato in una società distopica dominata dall'imbecillità e dalla sistematica manipolazione della realtà, qui siamo ai giorni nostri, in un'America perfettamente riconoscibile e attuale, quella descritta efficacemente anche in serie televisive come House of Cards o Designated Survivor, che si agita attorno ai gestori per conto terzi (la grande finanza e imprenditori oligopolisti senza scrupoli) del potere, ossia gli inquilini della Casa Bianca, le strutture federali a supporto, a cominciare da quelle militari, nonché, e soprattutto, il folle circo mediatico montato intorno a essi. Ché è nella gestione della comunicazione che risiedono le leve del dominio, più che mai oggi che, ai media tradizionali, si sono aggiunti i cosiddetti social, capaci di focalizzare l'attenzione anche attorno al peto più insignificante ma opportunamente piazzato e infiocchettato. Tutte cose che negli USA sono pane quotidiano ormai da decenni e da noi è diventato particolarmente evidente negli ultimi due pandemici anni, in cui ogni idiozia è diventata, per l'appunto, virale e si è spenta ogni capacità critica e di ragionamento, lasciando in campo solo fazioni che si beccano senza tregua sul nulla o quasi. Qui abbiamo una giovane ricercatrice (Lawrence) che, assieme al suo professore (DiCaprio) scopre una cometa la cui traiettoria porta inequivocabilmente sulla Terra: data la larghezza del corpo celeste, un meteorite di circa 9 chilometri di diametro, l'impatti significherebbe la fine del mondo. I due trovano, a fatica, il modo di comunicare il pericolo mortale alla presidente (una grandiosa Meryl Streep nei panni di un Trump in gonnella), ben attenta, con il suo staff, capeggiato da un figlio particolarmente cretino (Jonah Hill) prima a minimizzare, poi a sfruttare l'entusiasmo e la speranza suscitate dalla "guerra al meteorite", per trarre vantaggi elettorali prima ed economici poi, quando, su suggestione di un magnate delle comunicazioni che ha scoperto che il frammento è ricco di elementi rari e quindi economicamente sfruttabili, gli appaltano la frammentazione del meteorite per raccoglierne poi i frammenti in mare: un'operazione demenziale, votata al fallimento. Nel frattempo i due scienziati sono risucchiati e fagocitati dai media, preoccupati unicamente di fare audience e non di dare notizie verificabili. In un crescendo delirante di idiozia senza limiti la fine del mondo arriva davvero mentre i Migliori, opportunamente ibernati, partono per lo spazio profondo su una navicella predisposta di nascosto. Torneranno sulla Terra 20 mila anni dopo e la vendetta dei nuovi abitanti del pianeta (no vi dico che aspetto hanno) colpirà inesorabilmente per prima la presidentessa avverando altresì una profezia... Ottimamente interpretato da un cast di alto livello che ha tutta l'aria di spassarsela, il film è sarcastico e cattivo il giusto, confermando altresì che la realtà è più fantasiosa e assurda di quel che si possa pensare e la follia del potere senza limiti, e di conseguenza il destino dell'umanità inesorabilmente segnato, salvo ravvedimenti collettivi quantomai improbabili e sempre che intervengano avvenimenti davvero traumatizzanti che facciano definitivamente saltare il sistema economico-finanziario su cui si regge il mondo intero. Forse un po' troppo lungo e, a mio giudizio, meno spiazzante dei precedenti La grande scommessa e Vice, sempre per la regia del talentuoso McKay, che pure raccontavano fatti e personaggi veri. 

lunedì 13 dicembre 2021

Cry Macho - Ritorno a casa

"Cry Macho - Ritorno a casa" di Clint Eastwood. Con Clint Eastwood, Eduardo Minett, Natalia Traven, Dwight Yoakam, Fernanda Urrejola, Horacio Garcia Rojas, Marco Rodriguez e altri. USA 2021 (di stima)

Dispiace essere drastico per la stima che porto da sempre per l'uomo e l'artista, ma Cry Macho, che non ha niente a che fare con le menate del politicamente corretto ma è il nome di un gallo da combattimento, peraltro autore di gran lunga della migliore prestazione attoriale di questo pastrocchio, concorre con Attacco al treno per la palma di peggior film diretto e, in questo caso interpretato, da Clint Eastwood. A meno che il Grande Vecchio faccia in tempo a girarne un altro, vado avanti a considerare che il suo testamento sia The Mule, guarda caso ispirato a un fatto vero, mentre Cry Macho è tratto da un romanzo di Nathan Richard Nash, e anche se si avvale dello stesso sceneggiatore, Nick Shenk, qui il risultato è penoso, per quanto tutta la storia, già poco plausibile di suo, è raccontata in modo sgangherato: semplicemente non sta in piedi. Mike Milo (Clint), vecchia gloria dei rodei diventato allenatore di cavalli dopo essersi spezzato la schiena, viene incaricato dal suo ex datore di lavoro, con cui si sente in debito perché l'ha aiutato mentre andava alla deriva con la bottiglia dopo la perdita di moglie e figlio in un incidente, di recuperare suo figlio Rafa in Messico, dove vive con la madre inaffidabile e alcolizzata: Paese in cui per oscuri motivi finanziari e legali non può rimettere piede. Già non si capisce perché debba mandarci un vecchio cowboy che, girando con uno Stetson trapiantato sul cranio e non parlando quasi una parola di spagnolo, si farebbe riconoscere a chilometri di distanza, specialmente a Città del Messico, e tanto più nella lussuosa magione di proprietà di una specie di puttanone circondato da guardie del corpo, dove il nostro si intrufola senza che nessuno lo fermi all'ingresso. Il colloquio con la donna, che gli dice che il figlio, tredicenne, è fuori controllo, un mezzo delinquente che frequenta ambienti della malavita e i combattimenti illegali di galli è surreale; ancora di più il suo ritrovamento da parte del vecchio rincoglionito, che in qualche modo riesce a convincerlo a seguirlo raccontandogli del fantastico mondo, il Far West in miniatura costituito dal ranch del padre, che lo aspetta di là dal confine, benché finora non si sia mai interessato a lui. Il ragazzino, con il pennuto (Macho) a rimorchio, ci casca e segue Mike. Segue sodalizio che si crea on the road tra giovane e vecchio, in fuga dagli scagnozzi lanciati al loro inseguimento dal troione, cambio di macchine una dopo l'altra, prese "in prestito" (ossia rubate), polizia che ferma ma non controlla mai una volta i documenti, il tutto infarcito da una serie di perle di saggezza di una banalità sconfortante e un Messico cartolinesco e "buono" come nemmeno nei più vieto Spaghetti Western sullo sfondo nella seconda parte del film, con una Mama, anzi Nona sensuale che accudisce i due fuggiaschi che si sono fermati in un pueblito dove sbarcano, per il momento, il lunario: il novantenne domando mustangag semiselvatici; l'adolescente, che non era mai montato in sella in vita sua, che in due giorni impara il mestiere ed è pronto per i rodei e papà, che attende appena oltre la sbarra del confine col Texas, figurarsi, aperta e senza il minimo controllo transfrontaliero. Il vecio invece tornerà dalla vecia e fascinosa meticcia (con annessi nipoti, ché i loro genitori sono morti giovani di una malattia misteriosa) a ricominciare una vita... Ma per piasé... A malapena funziona la colonna sonora, benché pressoché scontata. Patetico, non c'è altro da aggiungere. 

venerdì 10 dicembre 2021

E' stata la mano di Dio

"E' stata la mano di Dio" di Paolo Sorrentino. Con Filippo Scotti, Toni Servillo, Teresa Saponangelo, Lisa Ranieri, Marlon Joubert, Massimiliano Gallo, Renato Carpentieri, Betti Pedrazzi, Biagio Manna, Lino Musella, Ciro Capano, Enzo Decaro, Monica Nappo, Cristina Dell'Anna e altri. Italia 2021 🔝★★★★★👏👏👏

Sono trascorsi cinque giorni da quando sulle note di Napule è di Pino Daniele erano comparsi sullo schermo i titoli di coda di E' stata la mano di Dio e mi sembra di essere ancora in sala e, a differenza di quel che mi accade pressoché sempre, mi rammento ogni sequenza, molte battute, riemergono dettagli, atmosfere, perfino odori, anche ricordi personali, avendo frequentato Napoli abbastanza intensamente proprio negli anni in cui si svolge il film, ospite di un caro amico nell'appartamento di famiglia al Vomero, lo stesso quartiere collinare e residenziale in cui vive la famiglia di Fabietto Schisa, l'autobiografico personaggio principale del film (Filippo Scotti), e in cui sono nati e vissuti sia Paolo Sorrentino, sia Luisa Ranieri, che interpreta una delle figure fondamentali della pellicola, insomma un ambiente anche umano che conosco piuttosto bene dall'interno, e quindi l'impatto e il coinvolgimento sono stati anche più intensi che in altri film dello stesso autore, che a mio giudizio rappresenta il meglio di quel che esprime il cinema non soltanto italiano, ma mondiale. Siamo negli anni tra il 1986 e il 1987 e Fabietto è un sedicenne che frequenta il liceo classico, padre (Toni Servillo) dirigente del banco di Napoli, istrionico e comunista, madre (la frizzante Teresa Saponangelo) sempre in vena di scherzi con cui forma una coppia affettuosa e scoppiettante, un fratello maggiore che vuole fare cinema, una sorella che monopolizza il bagno e appare soltanto nell'ultima scena della pellicola, più una serie di zii, cugini, amici, vicini di casa, l'alto che si mischia con il basso, che costituiscono il coro; Napoli, e certo non quella cartolinesca che viene proposta e cercata dai turisti (ragion per cui escludo che Sorrentino potrà vincere un Oscar o un Golden Globe), il palcoscenico: del resto è ormai luogo comune, e quindi con più di un fondo di verità, che a Napoli la vita è teatro, e basta scendere per strada (o uscire sul pianerottolo di casa) per assistere allo spettacolo. La prima parte abbondante del film rievoca in modo divertito e ironico questo anno fondamentale e decisivo nella formazione del ragazzo, cresciuto in mezzo a personaggi estrosi quando non decisamente stravaganti, fra cui la bellissima zia Patrizia (Luisa Ranieri), di cui è infatuato nonché il nipote prediletto, che ha visioni straordinarie e viene considerata pazza; indeciso sul futuro da intraprendere dopo aver conseguito la maturità classica, un periodo comunque sereno e felice, che viene interrotto dall'incidente, una fuga di monossido di carbonio da un camino nella casa di villeggiatura che la famiglia ha a Roccaraso, che uccide i genitori. Cambio di prospettiva repentino, sindrome da sopravvissuto da un lato (Fabietto viene salvato dal fatto che il padre gli ha finalmente concesso il permesso di seguire il Napoli di Maradona in trasferta a Empoli, così non deve trascorrere il fine settimana, come d'abitudine, in montagna: ecco l'intervento della "Mano di Dio" che gli ha salvato la vita, come sostiene il suo zio avvocato) e da abbandono da un altro, ma da un maestro (Capuano) gli verrà l'invito a guardare in sé stesso e a usare l'immaginazione, e le storie di cui la città è fonte inesauribile d'ispirazione, per sfuggire a una realtà deludente, come sa bene anche zia Patrizia, la quale a causa della sua immaginazione è rinchiusa in una clinica psichiatrica, che lo incoraggia a seguire la sua strada e i suoi sogni, ed così che... Sorrentino si traferì a Roma per dedicarsi al cinema, per la felicità di chi ama questa forma di arte e di spettacolo. Ma se non ci fosse Napoli non ci sarebbe Sorrentino, e quindi neanche questo formidabile e bellissimo film, al contempo commovente ed esilarante. Semplicemente perfetto in tutto, dalla sceneggiatura, alla fotografia, alla scelta degli attori e alle loro straordinarie interpretazioni, alla colonna sonora. Per me, un capolavoro come pochi.

martedì 7 dicembre 2021

The French Dispatch

"The French Dispatch" (The French Dispatch of The Liberty, Kansas Evening Sun) di Wes Anderson. Con Bill Murray, Benicio Del Toro, Tilda Swinton, Adrien Brody, Léa Seydoux, Frances MacDormand, Timothée Chalamet, Lyna Khoudry, Roebuck Wright, Owen Wilson,  Edward Norton, Mathieu Amalric, Steve Park e altri. USA 2021 ★★★★+

Se con Gran Hotel Budapest Wes Anderson aveva voluto rendere un allegro e frizzante omaggio a Stefan Zweig e alla cultura mitteleuropea di cui lo scrittore austriaco fu uno degli ultimi e brillanti testimoni, con questo lungometraggio, il decimo dell'estroso regista texano, ma tanto affine al Vecchio Continente per gusto e vocazione, celebra, con una vena malinconica, da un lato il glorioso giornalismo d'antan, basato su fiuto, ascolto e consumo della suola delle scarpe, fatto in presenza e confezionato con cura artigianale, dall'altro il fascino della Francia del tempo andato, o almeno dell'immagine che può essersene fatta un americano colto e cosmopolita, innamorato di quel Paese, come può esserlo, ad esempio, un corrispondente del New Yorker, periodico dell'intellighenzia della metropoli della East Coast. Se si aggiunge che lo spunto è un necrologio, ossia l'illustrazione dell'ultimo numero di The French Dispatch, immaginario supplemento culturale e di varia umanità dell'Evening Sun (quotidiano di Kansas City) con base in un'altrettanto immaginaria Ennui sur Blasé (che ha le sembianze di Parigi, ma il film è stato girato ad Angoulême) e diretto dall'appena defunto Arthur Horowitz Jr (Bill Murray), figlio dell'editore, che ne ha disposto espressamente la chiusura dopo la propria morte nelle sue ultime volontà, l'atmosfera assume ovviamente un che di funereo, il che nulla toglie al divertimento, al gioco, alla lievità che caratterizza tutti i film di Wes Anderson anche quando affronta temi seri o perfino tristi: abbiamo pur sempre a che fare con qualcosa che è venuto a mancare, che si tratti della fine della rivista con la morte del suo creatore, o della scomparsa di un mondo che fu, quello evocato con le suggestive immagini, disegnate in forma di fumetto d'epoca, o ricreate sul set in maniera pseudo-realistica. L'omaggio al direttore inizia col gustoso prologo, un'escursione nei bassifondi di Ennui sur Blasé illustrata dal reporter su due ruote Sazerac/Owen Wilson, una sorta di presentazione della location dei successivi tre pezzi che costituiscono l'ultimo numero del French Dispatch: Il capolavoro di cemento, la delirante vicenda illustrata da Berensen/Tida Swinton dell'opera di un pittore psicopatico rinchiuso in un carcere (Del Toro, superbo), la cui musa è la sua carceriera (Seydoux), scoperto e lanciato da un gallerista delinquenziale finito in galera (Brody, esilarante); Revisioni a un manifesto, che rievoca l'epoca di una rivolta studentesca avvenuta in un marzo imprecisato (protagonista di una vicenda d'amore e morte lo studente Zeffirelli/Timothée Chalamet), narrata dalla cronista Krementz/McDormand; infine La sala da pranzo del commissario d polizia, una sorta di noir che vede in azione il poliziotto alla caccia dei sequestratori del figlio con contorno gastronomico (con cuoco cinese). Insomma, Wes Anderson ha assemblato come di consueto un pot pourri gustosissimo che però per me è stato abbastanza faticoso seguire in lingua originale, perdendo una fetta delle immagini e della parte grafica dovendo concentrarmi sui sottotitoli soprattutto quando parlavano gli attori americani, dalla pronuncia spesso ostica a un orecchio educato all'inglese britannico come quello  della Swinton, ad esempio (per rimanere da noi, andrebbero sottotitolati sistematicamente i film interpretati da attori che si ostinano a non mollare il romanesco mangiandosi sistematicamente la seconda metà delle parole): come altri suoi film, andrebbe rivisto, per apprezzarne meglio i dettagli, sempre numerosissimi e scelti meticolosamente, con precisione maniacale, ma rimane comunque piacevole a tutti i livelli, sempre a patto di essere in grado di seguirne lo svolgimento con una buona dose di attenzione e concentrazione. Lo stile di Anderson è personalissimo e inconfondibile, come una costante è il palese divertimento con cui il cast, come d'abitudine cospicuo, variegato e di valore, presta la sua opera: anche questo è una garanzia per lo spettatore. 

sabato 4 dicembre 2021

Re Granchio

"Re Granchio" di Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis. Con Gabriele Silli, Maria Alexandra Longu, Dario Levy, Mariano Arce, Daniel Tur, Ercole Colnago, Jorge Pardo, Severino Sperandio, Bruno di Giovanni e altri. Italia, Francia, Argentina 2021 ★★★★1/2

I due giovani registi, che lavorano da tempo in coppia, dopo una serie di corti e documentari (Belva nera, Il solengo, molto apprezzati dalla critica specializzata) esordiscono nel lungometraggio con un lavoro sorprendente e inconsueto, quanto è lontano dai canoni vigenti, che si rifà alla tradizione orale, un tempo predominante  se non unica in ambito popolare e, cinematograficamente, non può che ricordare il rigoroso realismo di un Ermanno Olmi, anche nell'aspetto per certi aspetti fiabesco della storia. Che sono andati a pescare frequentando un gruppo di anziani cacciatori della Tuscia che ricostruiscono, in base ai ricordi di ciascuno, la vicenda avventurosa di un conterraneo che, a cavallo di Otto e Novecento, resosi colpevole di un crimine in reazione alle prepotenze del signorotto locale, il "Principe", fu costretto a emigrare in Argentina per salvarsi da conseguenze peggiori, dove finì per diventare cercatore d'oro "in culo al mondo", ossia nella Terra del Fuoco. Il film inizia dai loro racconti, in parte anche cantati, al giorno d'oggi: Luciano era un emarginato, bevitore, ribelle, insomma un anarchico, tollerato perché figlio del medico locale, innamorato corrisposto di una bella villana nonostante l'opposizione del padre di lei, pastore, che vuole salvaguardarla per il principe che nutre un certo interesse perla fanciulla. In più, quest'ultimo, ha all'improvviso impedito il passaggio delle greggi sui suoi terreni chiudendo una porta fino ad allora sempre aperta, costringendo uomini a animali a una lunga e faticosa deviazione, e il giovane reagisce come non dovrebbe, e questa è la prima parte del film. La seconda vede lo stesso personaggio ali antipodi, dove è fuggito per rifarsi una vita grazie ai documenti d'emigrazione fornitigl dal padre, e per cinque anni  ha vagato per lo sterminato Paese che l'ha accolto finendo in un gruppo male assortito di ex pirati, avventurieri, delinquenti, pronti a tradirsi l'un l'latro pur di arraffarsi l'intero bottino, alla ricerca di un fantomatico tesoro che il comandante di una bastimento spagnolo naufragato aveva nascosto in un luogo sconosciuto: se lo tengono buono perché solo lui sa che esso sarà indicato dal luogo in cui si dirigerà il Re Granchio, la gigantesca (e prelibata) centolla di cui sono ricchi in quei mari, che si porta appresso in un barilotto pieno di acqua salata. Sembra di ritrovarsi, visivamente, in uno dei racconti o romanzi di Francisco Coloane o di Luís Sepúlveda, oltre che nelle righe di Bruce Chatwin. La pellicola, prologo attuale a parte, è suddivisa in due episodi distinti sia per luogo sia per tempo: nella prima, i cacciatori contemporanei sono anche per buona parte gli interpreti del borgo di cent'anni fa, coi loro volti espressivi e la loro parlata che tuttavia si fa intendere; nella seconda, dove l'atmosfera selvaggia sottolineata dalla ottima fotografia contribuisce a rendere l'atmosfera ancora più simile a un western, vengono utilizzati degli attori locali altrettanto credibili, mentre Luciano è interpretato con grande intensità da Gabriele Silli, artista a tutto tondo, ma prevalentemente scultore e pittore, all'occasione anche attore. Occasioni mancate, identità che cambiano sotto cieli e costellazioni diversi ma non il destino di questo uomo ribelle e sofferente, fedele all'amore della sua vita, che ritroverà nel ricordo, in riva a un lago nascosto e dalla luce particolare, dove lo porterà il Re Granchio. Decisamente una sorpresa, di quelle belle. 

mercoledì 1 dicembre 2021

Yara

"Yara" di Marco Tullio Giordana. Con Isabella Ragonese, Alessio Boni, Thomas Trabacchi, Roberto Zibetti, Rodolfo Corsato, Elena Cotta, Sandra Toffolatti, Chiara Bono e altri. Italia 2021 ★★★

Ho affrontato questo film, prodotto da Netflix, con molte perplessità, tant'è vero che ho evitato di vederlo sul grande schermo dove era uscito come "evento speciale" a metà ottobre e ho atteso che passasse sulla piattaforma in streaming. Troppo vicino, a mio avviso, e troppo sfruttato, da stampa e TV, il fatto di cronaca, avvenuto come si ricorderà nel novembre del 2011 quando, a Brembate di Sopra nella Bergamasca, venne denunciata la misteriosa scomparsa di una ragazzina di 13 anni, di cui al titolo, ritrovata cadavere in un campo nel febbraio successivo, cui seguì una lunga e complicatissima indagine che, dopo una prima cantonata che portò al macchinoso arresto di un giovane operaio marocchino, incolpato ingiustamente per un errore di traduzione dall'arabo di una telefonata intercettata, culminò nel 2014 con quello di tale Massimo Bossetti, poi condannato all'ergastolo nel 2016 con sentenza confermata nei tre gradi di giudizio, individuato attraverso il DNA ritrovato sugli indumenti e sul corpo di Yara. Sulla vicenda, al solito, si scatenò, alimentata dagli sciacalli dell'informazione guardona, la morbosità delle masse che si abbeverano alle loro fonti, pronta a dividersi, per italica consuetudine, tra colpevolisti e innocentisti improvvisandosi esperti di diritto, criminologia, genetica: meccanismo che chi fa informazione conosce benissimo e sfrutta senza indugi, e ancora meglio chi l'informazione, in questo Paese, la controlla, direttamente o indirettamente, ossia chi sta al potere, che su questa sorte di panem et circenses ci campa, soprattutto perché gli torna comodo che il popolo bue si trastulli e possibilmente si spacchi su due fronti contrapposti questioni che, con i giochi di potere, quelli veri, non hanno nulla a che vedere: armi di distrazione di massa, così vanno considerate; d'altronde il principio divide et impera è infallibile ancor prima dell'epoca dei Romani. Lo vediamo anche ora nella gestione della situazione "pandemica" giunta ormai al secondo inverno, volutamente confusionaria, che ha come risultato una sorta di guerra civile tra chi è favorevole ai vaccini e alla loro obbligatorietà e chi contrario a prescindere, e dove posizioni intermedie, o semplicemente di dubbio e di ragionamento, vengono rigettate da una parte come dall'altra. Conoscendo  i precedenti di Giordana, la sua rettitudine e il suo modo di fare vero cinema civile su fatti anche di cronaca (dagli omicidi di Pasolini e Impastato a Piazza Fontana) con una precisione quasi documentaristica, sapevo di non correre rischi, e infatti il film ripercorre cronologicamente le fasi dell'inchiesta e si concentra soprattutto su chi l'aveva condotta, il PM Letizia Ruggeri, interpretato impeccabilmente e con la consueta misura da Isabella Ragonese. La pellicola non nasconde nulla e non prende, al solito, posizioni preconcette: non nasconde le perplessità sollevate dagli avvocati e da alcuni esponenti politici del ricorso a uno screening di massa per la ricerca di un DNA all'incontrario, quelle sulle violazione alla riservatezza di notizie e dettagli personali, e nemmeno le reiterate rivendicazioni di innocenza da parte del Bossetti. Non a caso molte recensioni che ho trovato sui giornali lamentano che il regista abbia ritenuto di centrare la pellicola sul magistrato anziché sulla vittima: il vizio di rovistare nel fango non molla. Io trovo che opportunamente Giordana si sia concentrato sullo svolgimento delle indagini: Yara è nel titolo perché così fu chiamato il caso, cercare di entrare nel mondo della vittima, turbandone ulteriormente genitori e fratelli, è quel che fanno gli annusapatte di professione, quelli che, microfono in mano davanti magari alla madre di una vittima, non si  risparmiano nessuna nefandezza pur di avere un dettaglio, un particolare scabroso, un retroscena da dare in pasto alla canea che loro stessi hanno aizzato. A me fanno abbastanza ribrezzo, e preferisco il rigore, magari un po' meccanico e senza sensazionalismi, del regista milanese. Gli interpreti sono giusti nella parte e credibili, il racconto preciso, non c'è spazio per     sfumature insane e torbide, il racconto un po' piatto, questo sì. Però veritiero, onesto e, soprattutto, decente e rispettoso delle persone coinvolte.