"Nomadland" di Chloé Zhao. Con Frances McDormand, David Strathairn, Linda May, Charlene Swankie, Derrick Janis, Cat Clifford, Emily Jade Foley, Peter Spears e altri. USA 2020 ★½
Miglior film, miglior regia, migliore attrice protagonista: un tris di Oscar, nell'edizione 2021, sostanzialmente un en plein. Osannato dalla critica, se ha il merito di mostrare lati degli USA particolarmente sgradevoli, su cui gli estimatori del sistema americano sorvolano, come gli effetti della crisi iniziata nel 2008 e che ha colpito soprattutto la fascia d' età dai 60 anni in su, quella dei neopensionati o pensionandi, costringendone una fetta non irrilevante a una scelta di nomadismo, è anche estremamente ambiguo, facendo capire che si tratti di una decisione presa in linea con il grande spirito di libertà e bisogno di ampi spazi che caratterizza la Nazione, lo stesso, in fondo, che animava i pionieri (quelli della corsa all'Ovest, zona battuta anche da questa pellicola che a tratti è volutamente documentaristica, ricavata com'è da un'inchiesta diventata libro di Jessica Bruder), gli stessi, ma questo non lo si dice, che a suo tempo sterminarono i nativi. Qui la protagonista è Fern, Frances McDormand, anche produttrice che, rimasta vedova, lascia la cittadina d'origine, Empire, nel Nevada, desertificata dopo che la fabbrica che ne giustificava l'esistenza ha chiuso, perdendo perfino il codice di avviamento postale (anche qui il ricordo va alle città fantasma del Far West: una consuetudine tutta a stelle e strisce abbandonare centri abitati a sé stessi per un eterno altrove in cui trovare occasioni migliori per la realizzazione del Sogno Americano). Così carica il necessario su un furgone e prende la strada, nella miglior tradizione, per l'appunto on the road, non per evadere, o cercare di combattere il sistema, no: per andare avanti a farsi il culo come stagionale tra un lavoro (si fa per dire) precario e l'altro, da Amazon nel periodo di Natale, come inserviente in di campeggio in una sorta di Jurassic Parc in estate, e così via. E, così come lei, tutto un giro di disperati, che si ritrovano qui a là lungo una sorte di circuito della sfiga scambiandosi dritte e storie di vita, va da sé dignitosi e che anzi se la raccontano (hanno perfino un guru che organizza dei raduni) di essere protagonisti di un'avventura che li porta a contatto con la propria essenza nonché con la natura invece che dei disadattati e sradicati. In sostanza giustificando un sistema che non solo li ha lasciati in braghe di tela, togliendo loro assistenza sanitaria, la casa, spesso il diritto a un minimo di pensione, sbattendoli sulla strada, ma così fetente da farla passare come una scelta di vita. In linea, va da sé, con l'essenza americana e la malintesa etica di un lavoro che, di fatto, è una forma di schiavitù. Ritmi lenti, squallore dominante (d'altronde buona parte degli USA quello è), dialoghi di una tristezza e povertà che possono essere interpretati a piacere: manifestazione di realismo estremo oppure espressione di una miseria comunicativa assoluta. Squallore estetizzante, è l'impressione che ho ricavato io di un film che forse vorrebbe commuovere, non riuscendoci; senza speranza e quasi compiaciuto di esserlo, fastidioso prima ancora che sgradevole, monocorde e noioso. Per un ritorno del cinema in sala avrei preferito qualcosa di meglio.
Una chiave di lettura la tua che non condivido per niente.
RispondiEliminaPoi se andiamo a fare della dietrologia...
Il film narra una realtà di esclusione che non riguarda solo gli U.S.A.
La differenza con la vecchia Europa è che noi abbiamo ancora e per ora degli ammortizzatori sociali, una cura e assistenza familiare molto forte specialmente in Italia. Finché dura.
La condizione del nomadismo negli Usa esiste ancor oggi, non più per protesta come negli anni di Jack Kerouac, ma per l’impietosa espulsione dei più deboli da parte di una società votata al profitto, spesso ferocemente incapace di una minima, dignitosa assistenza sociale.
Nessuna giustificazione del sistema, ma nemmeno ribellione al sistema, nessuna condizione, per quanto difficile, può togliere all’uomo la fiducia nella possibilità di vivere con gusto e pienezza la propria vita. Ed è tanto più vero per il nomade, incarnazione per eccellenza della precarietà.
Tu mai l’hai provata, io sì.